Curare la cura

9 Febbraio 2024

Non si fa che parlare di cura: dell’ambiente, della salute, delle relazioni, del corpo e della mente, dei propri interessi – finanziari, politici e spirituali; l’etica della cura pervade, a parole, ogni settore e istituzione e non c’è terapia che, al di là del suo orientamento, non si definisca relazione di cura; tuttavia “in questo mondo l’incuria regna sovrana”. Si apre così il Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza” (Alegre edizioni, 2021, pp. 128, euro 12.00) scritto a dieci mani dal Care Collective di Londra. In libro evidenzia come un’acritica adesione alla retorica della cura possa comportare politiche sociali neoliberiste che alimentano diseguaglianze e sfruttamento, in un quadro politico-economico nel quale l’incuria – intesa anche come disinteresse – si rivela premessa necessaria affinché la cura divenga un affare – nel senso di business – per pochi, i più ricchi, che ricade sulle spalle di ampie fette della popolazione che ne sono estromesse o che ne godono in maniera minore.

Un sistema dispotico favorito, potremmo dire, da una “servitù volontaria” che ci vede cooperare inconsapevolmente al suo funzionamento. Così, mentre i più ricchi, pagando, possono accedere a servizi di cura sempre più sofisticati, ai meno abbienti è richiesto di prendersi autonomamente cura di sé, di essere indipendenti, intraprendenti e performanti. E delle categorie più deboli della nostra società, che autonome e autosufficienti non possono essere, dovranno prendersi cura solidalmente le associazioni di volontariato, i parenti più prossimi – specialmente le donne – e una vasta gamma di lavoratori sottopagati. La retribuzione oraria, le condizioni di lavoro da burn out e il riconoscimento sociale di queste figure, mostrano il reale valore che, aldilà di false retoriche, riconosciamo alla funzione di cura, alle persone che l’elargiscono e a quelle che la ricevono. Per superare questa condizione, sostengono gli autori, occorre riconoscere invece nella cura “principio organizzatore delle nostra società” nella quale “la nostra prosperità e la nostra sopravvivenza derivano dalla relazione con gli altri” di cui conviene prendersi responsabilmente cura. 

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Per farlo, ritengo, può venirci in aiuto la lezione di Heidegger che in Essere e tempo spiega come, il contrario della cura non sia solo l’incuria ma anche la “cura inautentica” e come la sua posta cruciale, pedagogica, etica e politica, si giochi sul difficilissimo equilibrio tra dipendenza e autonomia, indagata anche dagli ultimi lavori di Foucault sulla cura di sé come responsabilità di soggettivarsi. 

Per Heidegger la cura si fa inautentica quando il Dasein, ossia l’esserci che ciascuno di noi è, si dimentica della propria peculiare modalità di esistenza, quando cioè si considera, o viene considerato, come una cosa nel mondo e non come un “essere-nel-mondo”. In tale espressione i trattini voglio sottolineare l’impossibilità di scindere l’individuo dal mondo, dunque dalle relazioni che lo sostanziano e delle quali, per sua natura, si prende cura ma – ed è questo il punto – anche in forme che possono anche essere difettive e inadeguate. Quando l’esserci cede la cura del proprio essere-nel-mondo ad altri, o ne viene espropriato, sprofonda nella cura inautentica che, in forme consapevoli o meno, costituisce una manipolazione che produce insicurezza e dipendenza, anziché attivare la capacità di prendersi personalmente cura della propria esistenza. Che la promozione di questa capacità sia il fulcro di ogni pedagogia e politica della cura che abbiano a cuore la crescita e l’emancipazione dei soggetti ai quali si rivolgono, e non la loro semplice assistenza, appare con chiarezza anche dagli studi della filosofa Nussbaum sulla Giustizia sociale e la dignità umana (Il Mulino, 2002) imperniata sul riconoscimento, anche politico, di quelle “capabilità” (termine orribile che vuole sintetizzare le capacità e le abilità al centro del suo Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, Il Mulino, 2012) che possono permettere a un essere umano di divenire a tutti gli effetti un soggetto politico, giuridico e morale, perché non può darsi alcuna cura di sé senza la cura delle condizioni politiche e sociali che ne permettano lo sviluppo e l’esercizio. 

In maniera analoga Foucault sottolinea come l’individuo che non si prenda cura di coltivare e sviluppare queste potenzialità non sarà mai un soggetto nel senso propositivo e attivo del termine, ma sarà piuttosto soggetto – assoggettato – al potere di altri. Nessuno di questi filosofi ritiene che l’individuo possa mirare a un pieno dominio di sé che considerano non solo impossibile ma nemmeno auspicabile; ciascuno di essi punta piuttosto a valorizzare il riconoscimento dell’impossibilità dell’individuo di essere autonomo, denunciando proprio la vanità di ogni mania di controllo sulla vita, che non si lascia mai ridurre ai progetti del singolo. Se a Heidegger la cura di sé appare una contraddizione in termini – perché è dell’essere-nel-mondo che ci si prende cura – per Foucault essa si rivela invece sempre cura degli altri, perché il soggetto in realtà non si dà che come processo di soggettivazione che “prende forma e non può che formarsi, a partire da qualche riferimento all’Altro” che lo abita, a quel fuori di cui ciò che chiamiamo sé non è che una piega. La cura di sé è, dal suo punto di vista, il modo in cui il singolo individuo assume la responsabilità di dare, per quanto possibile, forma personale al proprio modo di stare al mondo delineando quella che, tra mille fraintendimenti di lettori poco attenti, chiamerà “un’estetica dell’esistenza”. Il diritto a un’espressione più libera, personale e autentica della propria biografia, che si riconosce intessuta da una vasta rete di relazioni che la sostanziano, passa infatti per la capacità di elaborare quelle parti di sé e quei modi di essere che abbiamo, più o meno consapevolmente, ereditato da pattern familiari o sociali, a favore di una differenziazione individuativa che incarni potenzialità d’essere avvertite come maggiormente “autentiche”. In questo senso la cura di sé, tutt’altro che autoreferenziale, si rivela terreno di “lotte che mettono in questione lo statuto dell’individuo (…) attaccano tutto ciò che separa l’individuo, tutto ciò che recide i suoi legami con gli altri, lacera la vita comunitaria, costringe l’individuo a ripiegarsi su se stesso e lo vincola in modo forzato alla sua propria identità” (M. Foucault, Perché studiare il potere. La questione del soggetto, in H. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca filosofica di Foucault, Ponte alle grazie, 1989). 

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Se è dunque non solo inutile ma persino dannoso parlare della cura astraendola dalle dinamiche di potere che la innervano, “il compito centrale ed essenziale della cura, di ogni tipo di cura”, osserva Romano Màdera, si rivela “la formazione dei curatori che significa, prima di tutto, migliorare il grado di consapevolezza che possono raggiungere e la disposizione a prendere posizione, a impegnarsi sul e nel contesto, (…) arrivando, idealmente, a considerarsi e sentirsi parte viva e agente dell’intero”, abbracciando quella che Nicole Janigro definisce “un’ontologia della relazione”. È da queste premesse che prende avvio il loro ultimo libro intitolato appunto Cura e appena uscito per Editrice bibliografica (pp. 166, euro 12). È questo il cuore della loro proposta di analisi biografica ad orientamento filosofico, nella quale l’ultimo aggettivo indica, sulla scia di Hadot, la capacità di pensare e di vivere secondo “il tutto”, in una prospettiva che, dal punto di vista operativo e professionale, si riveli “capace di attraversare i diversi campi disciplinari e professionali, senza rimanerne catturati, anzi aprendo alle contaminazioni necessarie e rinunciando alla loro autoreferenzialità implicita”. Ma tutto ciò va sperimentato nella dimensione biografica che, riconoscendosi come “il precipitato della storia collettiva” della quale, tuttavia, non è semplice prodotto ma anche artefice, può divenire “il terreno di possibilità di cura – di trasformazione antropologica – delle relazioni sociali, quindi storico culturali, che ci costituiscono”, liberando così un “potenziale di espressione che è stato represso o svalutato” e che potrà finalmente sprigionarsi generativamente tanto nei singoli individui quanto nelle istituzioni. È quanto, secondo Màdera, hanno ad esempio fatto Cicely Saunders e Edward M. Podvoll. La prima è l’inventrice delle cure palliative dalle quali prende le mosse ogni esperienza di Hospice che voglia accompagnare le persone alla cruciale esperienza del congedo dalla vita, con la minore sofferenza possibile – sia essa fisica, psichica o spirituale; il secondo è l’ideatore del progetto “Windhorse” dedicato alla cura, e se possibile, alla “guarigione”, di pazienti gravemente psicotici. Due percorsi di cure dunque “impossibili”, accomunati dalla scelta di integrare e far cooperare saperi e prospettive apparentemente antitetici, nei quali il to cure tecnico della terapia farmacologica – con la morfina nel primo caso e con gli psicofarmaci nel secondo – si integra con il to care dell’attenzione e dell’assistenza alla persona in quanto tale, a dimostrare la sterilità di una loro contrapposizione. Nel caso delle cure palliative si integrano apporti di guide spirituali di diverso orientamento religioso o aconfessionale, di psicologi, fisioterapisti, infermieri specializzati e cure di persone care in visita, secondo un metodo che si è rivelato capace di “tenere legate la biografia personale, la vita spirituale e l’etica della cura di fronte alla morte imminente”. Nel caso di Podvoll, diverse abilità e competenze confluiscono in “un’assistenza di base” che prevede la meditazione – dall’hatha yoga alle pratiche di Thich Nhat Hanh – una dieta salutare, l’esercizio fisico, la responsabilizzazione nella cura dell’ambiente domestico, tutte attività sorrette da una serie di relazioni personali improntate alla “dolcezza e al calore umano” con i diversi operatori e volontari del centro che vanno a costituire una sorta di “famiglia terapeutica” estesa, in una prospettiva di cura che, dunque, non riguarda solo il singolo paziente ma l’intera (micro)comunità della quale fa parte. Due esempi coraggiosamente innovativi che dimostrando come prendersi cura della vita nella sua totalità e non solo delle sue disfunzioni, possa “trasformare l’istituzione stessa della cura, inventando nuovi modi di operare nella dimensione sociale che influenza – costringe o amplia, intensifica o depotenzia – ogni possibilità terapeutica”. 

Analogamente, osserva Janigro, nella stanza d’analisi “la cura psicoanalitica si fa cura dell’esistenza, del male di vivere, della nostra condizione ontologica che (…) prende in carico una condizione di normalessere”. Rispetto a un tempo che corre all’impazzata e agli automatismi delle nostre esistenze fatte di relazioni strumentali, “la stanza d’analisi si presenta come un luogo di sosta: dove imparare le pause del respiro, variare la rigidità [dei propri e degli altrui comportamenti], uscire dall’isolamento, confrontarsi con la presenza determinante dell’altro”, per cercare la propria strada, terapeutica ed esistenziale. Uno spazio d’intimità sempre più improntato a valorizzare la qualità emotiva e affettiva della relazione, nella consapevolezza, mutuata in particolare da Kouth, “che la psiche si struttura attraverso i rapporti e, se il danno è stato provocato da una relazione inadeguata, una nuova relazione potrà ripararlo e soddisfare i bisogni fino a quel momento trascurati”. Ma anche per Janigro occorre che l’indagine si apra alla comprensione dei legami socio-culturali che la innervano, ben aldilà delle relazioni familiari.

Pur privilegiando la svolta relazionale della psicoanalisi degli ultimi quarant’anni, di cui riassume i principali contributi, l’autrice ha il merito di mostrare – con citazioni inequivocabili – come, al di là della riduttivistica narrazione che ne dà una certa vulgata, tale esigenza fosse per certi aspetti già presente tanto in Freud quanto in Jung. Certo la sostituzione della matrice relazionale a quella pulsionale comporta alcuni fondamentali riposizionamenti terapeutici che, ad esempio, segnano la rivincita postuma di Ferenczi su Freud rispetto alla centralità dell’empatia e pongono le basi per una diversa interpretazione dei fenomeni del transfert e del controtrasfert, oggi maggiormente messi al servizio della questione, sempre più centrale, del riconoscimento. Per sondare questo tema l’autrice esamina in particolare la posizione di Jessica Benjamin, psicoanalista statunitense particolarmente attenta a integrare la sua pratica con l’orizzonte politico che le informa. Prendendo spunto dal saggio L’intersoggettività e il terzo, Janigro evidenzia come senza un terzo analitico la dialettica di riconoscimento possa facilmente sfociare in dinamiche di controllo e di dominio.

Per poter davvero concepire “l’altro come simile ma diverso” e viverlo come opportunità anziché come ostacolo, occorre spostare l’attenzione su un piano che, nonostante le differenze, ci accomuna. Ispirata dalla seconda intifada in Palestina, Benjamin enfatizza la possibilità di operare un riconoscimento tra diversi sul terreno della giustizia riparatrice, valorizzando e mettendo al servizio della terapia psicoanalitica, gli inciampi dell’analisi, e dell’analista in particolare, nel riconoscimento di una relazione asimmetrica che non può, per tanto, annullare le differenze di ruolo tra compagni di analisi, ma che può, ciò nonostante, trovare un terreno comune proprio a partire dal riconoscimento delle fragilità e dei limiti di entrambi, attraverso l’amplificazione e la condivisione di aspetti transferali e controtransferali che essa mette in gioco. Si disvela così un percorso di riparazione che può contribuire a fornire chiavi di lettura per analoghi movimenti fuori dalla stanza d’analisi, insegnando, magari a chi non ne ha mai avuto esperienza, che è possibile non comprendersi, sbagliare, scusarsi, ricucire strappi e riannodare una fiducia sfilacciata, anche nel mantenimento di differenze ineludibili.

Un’opportunità, osserva Janigro, certamente incentrata sulla simpatia intesa come capacità “di essere vivi insieme agli altri, risvegliare un desiderio, un senso di appartenenza e favorire un processo di umanizzazione in chi ha vissuto un grave trauma”, perché “soltanto la simpatia guarisce, scrive Ferenczi”. Uno dei principali meriti dell’autrice è mostrare come tale sentimento, che immaginiamo spontaneo e privato, ricopra in realtà una profonda funzione sociale – evidenziata tra gli altri da Hume e da Darwin – che, opportunamente esercitata, può essere messa al servizio “di una nuova fiducia e di un nuovo inizio” che proprio dalla stanza d’analisi possono prendere le mosse ma che possono rivelarsi davvero curative solo se si riuscirà a portarle nel mondo per dare slancio, anima e cuore a ciò che appare “pietrificato e senza speranza”. 

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