Oggetti d'infanzia | Barbie

10 Settembre 2013

Un gioco. Un gioco. Un gioco. Così mi consolavo ingigantendo il vuoto di ciò che non potevo avere, lo riproducevo con il volume virtuale delle parole. Oppure annullavo tutto dicendo a me stessa: tanto è solo un gioco. Forse mia madre aveva ragione, potevo farne a meno, non era essenziale, rappresentava la superfluità di un oggetto che non serviva affatto nei trambusti della vita quotidiana e tantomeno a me, che andavo a scuola e secondo lei non potevo certo farmi distrarre da tali sciocchezze.



Eppure chissà a quali balli principeschi avrei potuto condurla. In quali viaggi esotici avrei saputo guidarla, facendo nascere nella mia stanza mari in cui nuotare senza mai stancarsi, quali magici incontri sarebbero stati possibili nel giardino di casa, a cavallo di un gatto che sapeva scavalcare muri e reti con l’agilità di una gazzella.
Le avrei dato persino la mia voce, facendola parlare nelle lingue esotiche che solo noi sapevamo decifrare: le parole magiche di Aladino, di Hänsel e Gretel, quelle di Cappuccetto Rosso che chiacchiera con il lupo, o la lingua “farfallese”, farfugliata con una mia amica che si era fratturata una gamba e non poteva uscire di casa.
Avremmo potuto essere persone diverse, ogni giorno un volto nuovo: oggi bionda con gli occhi azzurri, i capelli raccolti e magari gli occhiali dorati, domani in bicicletta con i pantaloni stretti, lanciate a tutta velocità lungo il corrimano delle scale senza aver paura delle buche, delle discese, del vuoto, senza la paura di morire.



Tuttavia, mia madre, nonostante le interminabili suppliche, non mi ha mai regalato una Barbie. A cosa serviva quella bambolina insignificante? Sì, era bionda, ma così finta, così truccata, così immodificabile ai suoi occhi, tutt’altro che reale. Insomma, un gioco inutile diceva lei, ad eccezione di quando mia sorella andò in ospedale.



Fu in quell’occasione che mia madre cedette. Si lasciò convincere dai magici poteri di cui le avevo parlato e regalò una Barbie a mia sorella Edda affinché le tenesse compagnia. Era splendida: abito luccicante, scarpe altissime e capelli fatti apposta per essere pettinati all’infinito. Una favola. Solo che per disgrazia non era mia. Da quel momento mi trasformai in una perfida stratega: la rapivo, mi nascondevo nei luoghi più assurdi sfidando persino la paura dei ragni e arrivavo anche al punto di fingermi sorda: mia madre chiamava ma io non rispondevo: cosa poteva importarmi ora che fra le mani avevo una Barbie, un mondo intero: strade, città, paesi, avventure? Ora possedevo tutto e lei per me poteva fare qualsiasi cosa, ogni desiderio era reale.

 

Quando sono cresciuta e ho smesso di credere che Barbie incarnasse tutti i miei desideri di fuga, mi sono accorta che qualcosa di lei è rimasto dentro di me; l’avevo ritrovata in uno dei romanzi più amati della mia adolescenza: Madame Bovary. I miei vicini di casa erano simili ai personaggi del libro, vestiti bene per le cerimonie di paese, con il conformismo di chi vive in un posto piccolo, dove tutto è noto a tutti e ogni dettaglio viene fotografato, classificato, ricordato: l’archivio della noia, mi sono sempre detta.

 

Ma ecco che all’improvviso lei ricompariva con tutti i desideri non esauditi, ecco la mia Emma-Barbie e i suoi sogni di essere perennemente altrove. Non importava affatto se quell’orribile Flaubert l’aveva fatta morire suicida tra dolori atroci, a pensarci bene anche i suoi sogni erano atroci. Eppure come avrebbe potuto Emma, il desiderio per eccellenza, sopravvivere a quella banalità, a quella noia senza via d’uscita?
Per molto tempo ho vissuto con il ricordo di una bambola, poi sono passata alle storie, e siccome penso che le storie sopravvivono a tutto e tutti, per ora sono dei giocattoli che non mi annoiano.

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