Pavel A. Florenskij, “vi penso sempre…”

11 Agosto 2024

A Popov Ostrov, sul Mar Bianco, 160 chilometri sotto il Circolo Polare Artico, 700 da Leningrado, 1200 da Mosca, a Popov Ostrov il mondo finisce. Qui ci s’imbarca per l’arcipelago delle isole Solovki. Fino al 1920, i suoi antichi e maestosi monasteri sono un importante luogo di pellegrinaggio della spiritualità ortodossa, poi comincia un’altra storia: a partire dal ’20 alle Solovki vengono internati i prigionieri della guerra civile, tre anni dopo prende avvio “il sistema sovietico di rieducazione basato sul lavoro coatto”. Sulle isole Solovki, in un pantano di anime e corpi, è stato inventato il “gulag”, tossica fioritura di un’“epoca tremenda”. Viene coniata una parola d’ordine che non lascia scampo: “Mangi quanto lavori”. Chi non è in grado di lavorare è destinato a soccombere. E accadrà a molti.

Nell’arco di sedici anni, quasi un milione di uomini e donne di quaranta nazionalità diverse (ci sono anche due italiani), transitando per Popov Ostrov, si addentrano nel labirinto delle Solovki (il “tritacarne” lo chiamavano i prigionieri) fronteggiando il proprio annientamento.

Pavel Florenskij entra nel “gulag” delle Solovki il 13 ottobre del 1934. Ha 52 anni. È un sacerdote della Chiesa Ortodossa, un teologo di grande fama (La colonna e il fondamento della verità del 1914 è la sua opera di maggior rilievo), uno studioso d’icone, ed è uno scienziato, un matematico, capace di guardare, con lo stesso appassionato ardore. a un fenomeno naturale, a un’opera d’arte, a una celebrazione liturgica, o a una formula matematica. Pavel Florenskij, la mente più vasta del Novecento russo (il Leonardo da Vinci russo è stato definito), sapeva mettersi in ascolto del “battito del mondo”, “vedere e sentire fino in fondo”. 

Ma ora cade un altro tempo: “tutto si è frantumato”, scrive verso il finire del 1934, qualche settimana dopo il suo arrivo sulle isole.

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Nel 1928 il primo arresto; nel 1933 un secondo arresto, la detenzione nel carcere moscovita della Lubjanka, e una istruttoria che ignora le più elementari procedure del diritto, un’abile orchestrazione di pressioni, ricatti, maltrattamenti. Florenskij cede, firma il verbale, riconoscendo i suoi “crimini verso il potere sovietico”, e dichiarandosi profondamento pentito “per la criminale adesione all’organizzazione nazi-fascista”. Cede quando il giudice istruttore gli fa sapere che la sua ostinata autodifesa avrebbe portato alla condanna di altri detenuti. Florenskij non si vuole salvare a danno di altri, perderebbe la sua stessa vita volendola conservare. Così prende su di sé l’infame etichetta di “nazional-fascista”. 

Dieci anni, questa è la condanna in virtù dell’articolo 58, largamente utilizzato durante gli anni del “terrore” staliniano, che punisce “la propaganda antisovietica e la partecipazione a un’organizzazione del centro nazional-fascista”. 

Un anno di Siberia, e nell’autunno del 1934, dopo un viaggio di 5.000 chilometri, dalla Siberia al Mar Bianco, in un vagone piombato, Pavel Florenskij mette piede nel fango delle isole Solovki. “La mia situazione – scrive – è molto più grave di quanto avessi potuto immaginare”. I primi giorni sono i più duri: mentalmente stordito, disorientato, si muove come un cieco, i sensi chiusi al mondo. È destinato inizialmente ai “lavori comuni”: seleziona patate, si occupa del mangime per gli animali, scarica sacchi di rape, poi viene occupato nella torbiera, infine, dalla metà di novembre, è trasferito in una “bottega piccola e squallida” con una “pretenziosa scritta sulla porta”: “laboratorio”, dove si produce lo iodio estratto dalle alghe marine. La situazione qui migliora: nella luce dell’inverno, Florenskij riapre gli occhi sul mondo. E torna a tendere il filo spezzato della sua vita.

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Straordinario documento di questa ripresa sono le lettere ai familiari dal “gulag” delle isole Solovki (ora in edizione integrale, a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak, Vi penso sempre…, Mondadori 2024). C’è, in queste lettere, la lotta di un uomo che si vuole vivo anche in quell’ultima frontiera dell’umano, dove il vero e il giusto non hanno più alcun peso. C’è, in queste lettere, tutto il male del Secolo, c’è la cieca stupidità che ha favorito la sua affermazione, l’inerzia dei cuori e delle menti, ma ci sono anche le scosse d’anima, una irriducibile forza d’amore e desiderio di bene. Florenskij mostra ai familiari il vero, il bello, il bene, che ha sempre cercato e di cui conserva memoria. Ai suoi familiari chiede serenità, sicuro, che, anche in quella catastrofe dell’umano che sta vivendo, “non tutto è andato distrutto”, e “nulla ci potrà accadere”, perché tutto è già accaduto”. 

“Tutti i suoi cari – osserva Natalino Valentini nella bellissima introduzione alle lettere – l’anziana madre, la moglie Anna, i figli Vasilij, Kirill, Olga, Michail, Maria – Tinatin, appaiono quotidianamente a padre Pavel come icone vive sulle pareti sgretolate della sua cella, nel tetro orizzonte delle Solovki, ognuno in modo distinto e personale, ma anche di comunione familiare”.

È una danza dei sentimenti quella che prende vita nelle lettere di Pavel Florenskij ai suoi familiari, un’invisibile rete di protezione. “Cerca di essere forte e allegra”, scrive alla moglie Anna, “Bada alla tua salute per me e per i figli”. Teme che la moglie possa cedere alla tensione, scivolando in uno stato d’angoscia senza rimedio. Allora scrive ai figli: “Abbiate cura della mammina, cercate di far sì che non si scoraggi e sia più allegra”. Florenskij annulla la distanza che lo ha separato dalla famiglia, la guida nella tempesta, e non solo consola, accarezza, ma si premura di tener desta la mente di tutti, consiglia letture, ascolti musicali, arriva a mettere sulla carta intere lezioni di fisica e matematica.

Le parole di Pavel Florenskij si spegneranno. L’ultima sua lettera è del 19 giugno 1937. In autunno verrà trasferito e l’8 dicembre fucilato nel bosco di Sandormoch vicino a Leningrado con altri 1200 prigionieri. E nulla la famiglia saprà di lui fino agli anni novanta, quando verranno aperti gli archivi del KGB.

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