Sonnambuli

5 Luglio 2024

La figura del “sonnambulo”, l’involontario portatore di uno stato di coscienza ridotto o alterato, abile nocchiero di tutte le bonacce del cuore, è ben radicata nel Novecento, e sembra procedere oltre i suoi confini temporali. Siamo scivolati nel nuovo millennio, ma il “sonnambulo” ancora ci rappresenta.

Penso, inevitabilmente, a I Sonnambuli, il romanzo in tre parti di Hermann Broch, scritto fra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo ventennio del nuovo secolo. Tempo di “tellurica inquietudine”, di devastanti crolli, frane, smottamenti. È la “disgregazione dei valori” di cui racconta Hermann Broch, la prolungata narcosi delle coscienze, che di lì a poco, con l’avvento del nazismo, si trasformerà nel “sonno… che genera mostri”.

La prima guerra mondiale fa da frontiera, e non è soltanto una frattura storica, è un radicale mutamento del paesaggio mentale. Quella guerra, e ciò che ne segue, promuove la trasformazione accelerata e traumatica dell’esperienza umana: l’uomo si trova ad abbandonare ogni patria mentale. E dunque non muta soltanto la carta del mondo, cambia la geografia della mente, cambiano le emozioni e i sentimenti che ne disegnavano i contorni, cambiano le loro modalità d’espressione.

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Idea dell’epoca è il “Perturbante” di Freud. La sua data è emblematica: 1919, il primo anno dopo la conclusione della guerra. Ora, le armi tacciono, ma i cuori sono in subbuglio. Disorientati. Le parole – ha scritto Hofmannstahl anni prima – “paiono vortici che turbinano senza sosta e oltre i quali si approda nel vuoto”. Le cose, gli oggetti che affollano ogni spazio di vita, non sono più al loro posto, e gli uomini, al ritorno dalla guerra, stentano a riconoscerle. Non si sentono più in relazione con ciò che li circonda. I legami che li tenevano vincolati al mondo si sono allentati.

Il “Perturbante” striscia fra le pieghe del perimetro domestico, si annida nel dominio di un’anonima quotidianità. Ciò che ci inquieta non viene dall’inatteso, ma si manifesta fra le pareti dell’ordinario, ci prende d’assedio dove dovremmo essere più al sicuro: è lo strano fiore della familiarità, o la sua parte in ombra.

Poco più di dieci anni dopo, in un saggio intitolato “Esperienza e povertà” del 1932, Walter Benjamin parla dell’impoverimento dell’esperienza umana a seguito della guerra: dal fronte gli uomini sono tornati ammutoliti, incapaci non solo di comunicare, ma di dar nome a quello che gli accade. “Sonnambuli” potremmo dire, ibride creature dalla coscienza impacciata, che fluttuano fra la veglia e il sonno. Barcollano.

C’è un’altra figura che possiamo avvicinare a quella del “sonnambulo”, generata anch’essa dall’ordito del Novecento: sono gli “uomini vuoti” di Eliot (la poesia “Gli uomini vuoti” è del 1925). Non hanno forma gli “uomini vuoti” (“gli uomini impagliati, che si appoggiano l’un altro, la testa piena di paglia”), sorretti da una “forza paralizzata”. Nessuna azione li smuove dal loro fondo letargo. Precipitano nella crepa che si è aperta “fra l’idea e la realtà, fra il gesto e l’atto”, vinti dall’impotenza.

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Certamente sorprende ritrovare la figura del “sonnambulo” parecchi decenni dopo, in una cornice assai diversa, in un mondo che ha cambiato pelle, come se non avesse mai abbandonato la sua posizione, passando più o meno indenne attraverso inusitate trasformazioni. I “sonnambuli” insomma sono fra noi, riportati alla luce, o rimessi in vita, dall’ultimo rapporto Censis. Non un romanzo o un’opera di poesia, capaci di percepire il “battito del mondo”, no: romanzo e poesia sono anch’essi in sonno, “cellule dormienti”, partecipi per lo più della “glaciazione dolce” che da un po’ ci ha avvolti.

A sorvegliare le nostre cadenze intorpidite, è dunque un rapporto sullo stato del paese, la sua salute precaria o le sue patologie. Il Censis, prima con Giuseppe De Rita, ora con Massimiliano Valerii, ha la riconosciuta capacità di stringere nel pugno di un’immagine ciò che nel nostro Paese, e nel suo sottosuolo, si muove, e anche quello che al cambiamento resiste. 

“La società italiana sembra affetta da un sonnambulismo diffuso, precipitata nel sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti”.

Un solo significativo esempio: si prevede che per il 2050, e cioè fra poco più di vent’anni, in Italia la popolazione attiva subirà una drastica riduzione, mancheranno 8 milioni di persone, con un effetto dirompente sulla “capacità di generare valore del settore industriale e terziario”. Sopravviverà il nostro welfare a questo terremoto?

“Dinanzi ai cupi presagi – dice ancora il rapporto Censis – il dibattito pubblico ristagna, e la bonaccia di qualche indicatore congiunturale non è in grando di gonfiare le vele per prendere il largo”.

L’Italia, e non solo la sua classe dirigente, chiude gli occhi, in bilico sul vuoto. Forse si sogna altrove, o neppure sogna, accarezza “desideri minori”, e per riparare alla propria scoperta vulnerabilità insegue il fumo di prospettive consolatorie, cerca elisir, farmaci a buon mercato, per “placare l’inquietudine”. E dunque non ristagna solo l’economia, ristagnano sogni e desideri, resta imbrigliata la loro forza vitale, si spegne la volontà di trasformazione.

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Il rapporto del Censis intitolato al “sonnambulismo” della società italiana, ha un presupposto, ed è il libro – La notte di un’epoca – di Massimiliano Valerii, che del rapporto è, credo, il maggior responsabile. Il libro di Massimiliano Valerii si muove, ad occhi aperti, tra le macerie, i frammenti esplosi, le pietre sparse della nostra epoca, che fatichiamo a riconoscere, come è accaduto agli uomini reduci dai fronti della prima guerra mondiale. Si muove nella “contemporaneità agonizzante”, ma non ci lascia lì, apre qualche spiraglio nella lastra d’immobilità che sigilla il presente, torna a far respirare “il desiderio di una vita più degna e più giusta”, identifica nella “protesta contro l’insoddisfazione della vita presente il punto d’avvio del cammino”. 

Con essa è destinata a misurarsi la nostra scalpitante impazienza.

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