Le ragazze del ‘68
Le “ragazze del ’68” è una trasmissione in 6 puntate che la Rai ha messo in onda nel 2017: due testimoni ogni puntata, dodici voci dal tono diverso, diverse le esperienze vissute, diverse la collocazione sociale e le aspirazioni. In comune: il ’68.
Le dodici donne che si raccontano nel corso delle sei puntate hanno tutte attorno ai settant’anni. Nel 1968 avevano poco più o poco meno di venti. Erano giovani donne che il tempo ha spinto a gesti decisi, scelte difficili, rotture, errori anche, itinerari di vita spesso tortuosi, e qualche volta sofferti. Le si vede sfogliare l’album delle loro vite: eccole bambine infiocchettate, scorbutiche adolescenti, poi donne, con i fidanzati, i compagni, i mariti, i figli, e le famiglie che via via nel tempo si sono disperse, le persone che non ci sono più. C’è affetto nel loro sguardo, nessuna distanza. Un commosso stupore nel rivedersi giovani. Sembrano ancora avvolte nell’energica bellezza di allora. Il passato, prima e dopo gli anni attorno al ’68, è cosa viva. Ne sono ancora implicate. Lo si avverte. Molte di loro vivono nella scia delle convinzioni maturate in quella stagione. I tempi sono cambiati, le idee anche, ma poggiano su un fondo che si è andato aggregando in quegli anni.
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Una delle “ragazze”, Silvana, a conclusione del suo racconto, dice fra le lacrime:
“L’idea di cambiare il mondo era una grande idea… ma non ci siamo riusciti. Questa è la responsabilità che pesa sulla nostra generazione”.
Gabriella, un passato da fotoreporter, diciotto anni nel ’68, con “un tumulto dentro”. Rompe con il padre, che della famiglia ha una concezione proprietaria. Va via di casa. Avrebbe potuto sottoscrivere uno slogan, che, nei primi mesi del ’68, compare sulle mura dell’Università di Torino:
“Voglio essere orfano”.
Non vedrà più il padre, ma nutrirà sempre un’affettuosa devozione verso la madre, “donna forte e coraggiosa”. Comincia a guardare altrove: “Roma mi stava stretta, l’Italia mi stava stretta”. Ha una certezza:
“Non voglio un posto fisso, non voglio un marito, non voglio fare figli. Voglio percorrere la mia strada, voglio essere libera”.
La strada di Gabriella passa per l’America. New York mette a dura prova la sua capacità di libertà. La vita lì non è facile: subirà una rapina, e uno stupro. “In quel periodo a New York c’erano tre stupri al minuto”, racconta.
Pochi i soldi, e non mancano le delusioni sul lavoro. “Una donna, le viene detto, si deve proteggere. Non puoi fare la fotoreporter”. Questa sentenza l’annienta: Gabriella frana in una depressione nera. Finisce così il suo sogno di libertà? Deve tornare a Roma?
Le viene proposta la “cura del sonno”. Le può servire per placare i suoi fantasmi, il panico che la tiene in ostaggio. Ma Gabriella si è lasciata alle spalle la famiglia, Roma, l’Italia, per vivere non per dormire. Farà da sola, da sola rimonta la depressione, si rimette in piedi. Lascia New York per Los Angeles, dove si stabilisce in una comune per donne. Farà la fotoreporter, e con successo.
Giovanna si racconta con piacere, e con piacere riguarda la sua vita, ride delle ingenuità passate. Dice subito che cosa è stato il ’68 per lei e per chi lo ha vissuto. Lo dice facendo ricorso a un’immagine:
“IL ’68 è stato un grande utero, in cui ognuno ha trovato il modo di partorire un altro se stesso”.
Giovanna proviene da una famiglia modesta, il padre muratore. Ha fatto l’Università a Trento, l’unica nel suo quartiere a frequentare l’Università. Ha seguito poi l’intera parabola dell’esperienza femminista, dal ’68 a oggi, e oggi si adopera per conservare le tracce della sua storia.
Al suo primo incontro ravvicinato con l’altro sesso, Giovanna resta incinta. Le era stato detto che ne poteva evitare le conseguenze lavandosi accuratamente con acqua e aceto. “Non era vero!”, dice Giovanna con ironia. Avrà una bambina, e la crescerà nella comune in cui vive. Nel ’68 si sposa. Ma non con il padre di sua figlia. “All’epoca, dice, non si faceva troppo caso a queste cose”.
Molte delle “ragazze del ‘68” parlano dei propri figli, capitati o voluti. Parlano delle difficoltà incontrate, le prime malattie, la scuola, gli aspri conflitti dell’adolescenza. Parlano apertamente dei propri errori. I figli spesso glieli rinfacciano, e le “ragazze” non stentano ad ammetterli.
Nell’ultima parte del suo racconto, Silvana, quella che sente la responsabilità di non aver cambiato il mondo, incontra la figlia Francesca, una bella donna sui 40 anni. Si confrontano, una di fronte all’altra, sedute al tavolino di un bar romano. Il tono della figlia è velato di risentimento. Silvana ascolta.
“Sei stata leggera”, dice Francesca alla madre svolgendo un lungo nastro di manchevolezze. Ricorda l’infanzia nella comune come una “grande fatica”, i bambini al rimorchio, e “voi adulti sempre al centro”. Ricorda il grembiulino a fiori delle scuole elementari, mentre tutte le altre bambine l’avevano bianco. “Era così carino”, replica Silvana timidamente. E le lotte ingaggiate da Silvana con gli insegnanti. “Ero la tua bandiera”, protesta Francesca. E poi “non sono stata battezzata, non ho fatto la prima comunione come facevano tutti, e non sapevo neanche il perché”. E “le manifestazioni in cui mi portavi, la paura quando succedeva qualcosa”.
“Hai ragione”, dice Silvana con tono dimesso. Ma, sorridendo appena, aggiunge: “Però sei venuta un fiore!”.
FONTI:
Cristiana e Riccardo Mastropietro, Giulio Testa, “Le ragazze del ‘68”, trasmissione in 6 puntate, Rai, 2017.
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