Speciale
Breve storia della nostra inerzia
Ha una lunga storia l’inerzia. Lunga e accidentata. Tutta da scrivere. Non è soltanto un oggetto d’analisi o un tema di riflessione. L’inerzia ci compete. Ci siamo dentro, ne siamo parte. I suoi molti nomi (accidia, malinconia, noia, apatia, e l’ultima delle sue figure, “la stasi ad alta velocità” di cui parla il sociologo Hartmut Rosa), la sua ipotetica storia, sono tra i miei pensieri impazienti fino all’assillo.
Insediata da sempre nel recinto dell’esperienza umana, l’inerzia compendia i suoi umori corrosivi, i fantasmi di dissoluzione, le rovinose abulie. È la faglia instabile su cui si accumulano scorie d’esistenza, ombre e spettri di vita mancata, voci smarrite di flebili narrazioni, che, in fitta schiera, s’intrecciano, s’ingarbugliano lungo l’asse del tempo, s’arruffano in una sgangherata algebra dello spirito vinto. Dove l’uomo disegna con vigore progettuale e fervida frenesia fondativa, il suo profilo di vita, lì attorno, consumato il loro slancio, si gonfiano le “acque sporche e morte” dell’inerzia, la sua “palude”.
Suoi abili cacciatori erano i monaci del deserto nei primi secoli dell’era cristiana. Esploratori dell’anima e dei suoi movimenti più nascosti e insidiosi, i monaci vivevano in appartata e silenziosa solitudine, ma sembravano avere familiarità con la vita degli uomini. Il loro sguardo sapeva attraversare i pantani della psiche rimasta impigliata nell’inerzia
I monaci la chiamavano accidia. Evagrio, nel III secolo, si occupa dell’accidia perché ce l’ha in casa. È il mostro in agguato nella quiete solitaria delle celle, prendendo il volto di un’indomabile irrequietezza, o, al contrario, del torpore, del tedio, dell’indolenza, del ripiegamento malinconico o della crucciata tristezza. Nei piccoli monasteri il mondo rotola nell’accidia, e nell’accidia si disfa. “Non vi è passione peggiore”, si legge nella Vita e detti dei Padri del deserto.
Attorno all’accidia cresce il fronte mobile di una durissima guerra spirituale.
Demone meridiano così viene anche detta l’accidia, perché prende d’assedio il monaco nell’ora più calda. Il giorno appare una distesa senza confini, come il deserto che circonda il monastero. Una luce oppressiva irretisce lo spirito, lo fiacca, lo svuota. È in quell’ora che l’accidia libera i suoi veleni, infetta i cervelli, contagia le anime fino a provocarne la paralisi. Soffoca lo spirito. E lo spirito, “vinto, sfinito”, “infestato dalla vertigine”, fa esperienza di tutte le gradazioni del tedio. Dai suoi deliqui germina l’apatia, morte in vita, che soppesa l’Essere e ne scompone la trama.
Risalendo i secoli, quel vortice di tristezza avvolge nel suo manto funebre anche il tempo della Modernità. La rappresentazione esemplare dell’inerzia malinconica è una figura femminile dalla testa reclina, Melanchonia I, la notissima incisione di Durer del 1514. Attorno alla figura che occupa la scena, abbandonati, gli strumenti del fare. Spenti gli occhi sul mondo, il malinconico non può che guardarsi dentro. Apre, penetra, lacera, seziona, classifica, come si presume abbia fatto l’anatomista del Rinascimento. Il temperamento malinconico inclina all’anatomia, rileva Jean Starobinski. Non del corpo e dei suoi organi, ma dell’anima.
L’inerzia malinconica fa un lungo viaggio nell’uomo e attraverso il tempo. Esce dal deserto, entra nelle città. Dai primi secoli dell’era cristiana, procede, veloce come un’epidemia, verso il cuore della Modernità. E lì la ritroviamo, con altri nomi, ma pericolosamente intatta come l’avevano diagnosticata i Padri. Mutato il paesaggio, spenta la luce schiacciante del deserto. Nel tumulto della vita metropolitana, circola ora una luce sfibrata.
Agli inizi dell’Ottocento Hegel aveva steso l’epitaffio della Storia e dell’azione, celebrando la sua fine soddisfatta nel trionfo dello Spirito Assoluto. Negli stessi anni, della Storia, Francisco Goya mostra le ramificazioni mostruose. Appena qualche decennio dopo, Baudelaire ne scopre le sembianze cadaveriche. “Che senso ha parlare di progresso in un mondo che sprofonda in rigidità cadaverica?”, annota Walter Benjamin.
Non c’è Storia, non c’è progresso, c’è ripetizione, come sostiene Auguste Blanqui in L’Eternità attraverso gli astri. Qui nulla procede, tutto si ripete. La “calma oleosa” dello Spleen non imbriglia soltanto la storia degli uomini, si estende all’intera distesa del cosmo.
Una singolare vegetazione mentale si sviluppa nella letteratura europea dalla metà dell’Ottocento fino ai primi secoli del Novecento, offrendo un vasto repertorio delle esacerbate anomalie di “anime eternamente spalancate”. L’affollano creature psichicamente instabili, ammaliate dall’inerzia, spossate dal morbo malinconico.
La storia non finisce qui. Negli anni trenta del Novecento, in un’aula dell’“Ecole Normale” di Parigi, Alexandre Kojève, giovane filosofo di origine russa, attratto dal buddismo e studioso di sanscrito, comincia a guardare nelle fibre dell’epoca commentando la Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Ma non si ferma all’austera liturgia del commento. Nel testo di Hegel, Kojève sente risuonare una sentenza di morte, la “fine dell’evoluzione storica dell’uomo”: “Il Mondo e l’Uomo non possono più muoversi. Il Mondo è morto, è passato con tutto ciò che esso comporta, l’Uomo compreso”.
Immobilità. Ancora inerzia. L’uomo del XX secolo, e di questo scorcio del XXI, è scivolato in un cono d’ombra, separato dalla sua stessa storia. Come un fantasma, si aggira ai lati della vita. Nel suo corpo astratto la vita si spegne, o langue, ristagna. È un sovrano detronizzato. Non governa più la Storia, i suoi processi e le sue trasformazioni, si dibatte nel vuoto che essa ha lasciato, una civiltà “sfiatata” (una “società della stanchezza” secondo l’espressione del filosofo coreano Byung Chul Han), nel punto d’incrocio fra lutto e malinconia. Piccole scosse d’irrequietezza scalfiscono appena la placca dell’inerzia.
“La storia è bloccata e anche il tempo… Entriamo nel tempo della glaciazione dolce, dell’anestesia continua e leggera, con svaghi organizzati, pensieri guidati, e vite in briciole, con un contorno di oggetti alla rinfusa per stordirci, per impedire lo stupore”, scrive, con terribile acume, la filosofa e psicanalista francese, Anne Dufourmantelle.
Può sorprendere evocare l’inerzia in una cornice di spinta accelerazione del tempo sociale, di vertiginoso mutamento dei modi di vita e di pensiero, di “nuove esperienze del tempo e dello spazio”. Il mondo, è quasi superfluo considerarlo, va veloce, e sembra travolgere tutto ciò che pare frenare la sua corsa, in mezzo al frastuono d’idiomi divergenti, come può accadere in una Babele in convulso fermento. E dunque è del tutto legittimo chiedersi dove sta l’inerzia, dove si estende il fondo limaccioso che corrode l’anima. Se ne ha percezione “solo quando ci si è dentro, troppo dentro… Il piede non segnala nulla di anomalo, si procede, e solo quando il piede una prima volta scivola, ci si accorge di essere ben addentro alla palude” (Giorgio Manganelli, La palude definitiva).
Molta riflessione contemporanea si raccoglie attorno al suo paesaggio scabro. Qui il tempo pare arenato. Penso all’“implosione depressiva” di cui parla Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi, o al “ritiro psichico” e al “soggetticidio incombente” avanzato da Cristopher Bollas in L’Età dello smarrimento, penso allo “stato di sottile narcosi” e alla “lenta cancellazione del futuro” esaminati da Mark Fischer in Realismo capitalista, o alla deformazione temporale rappresentata dalla “retrotipia” di Baumann, alla “contrazione del presente” di Hermann Lubbe o all’“inerzia polare” di Paul Virilio.
Il pensiero bracca le maschere dell’inerzia, si addentra nel suo spazio cieco, mettendosi di fronte al “pericolo mortale” che insidia il cuore degli uomini e il tempo che gli è proprio. Nello sviluppo accelerato delle società tardo-moderne c’è una crepa, un punto di perdita, una somma d’interruzioni, arretramenti e cadute fomentate dall’inerzia.
In Accelerazione e alienazione, il sociologo Hartmut Rosa, seguendo le diverse modalità dell’“accelerazione” e dei mutamenti del corpo sociale, indica il legame che stringe “velocità” e “stasi”:
“La paura della stasi assoluta ad alta velocità ha accompagnato la società moderna in tutta la sua storia, motivando malattie culturali quali accidia, malinconia, noia e nevrastenia, o, ai giorni nostri, diverse forme di depressione. L’esperienza dell’inerzia, nella mia interpretazione, nasce o si intensifica quando i cambiamenti e le dinamiche nella vita dell’individuo o nel mondo sociale non vengono vissuti all’interno di una catena di sviluppo dotata di senso e direzione, cioè come elementi di progresso, ma come un cambiamento senza direzione e frenetico… le cose cambiano, ma non si sviluppano, non vanno da nessuna parte”.
L’ inerzia è dunque il fondo su cui poggia la frenesia dell’epoca, è la parte in ombra del suo attivismo. La “stasi” non si colloca all’opposto della “velocità”, piuttosto le cammina accanto, è un suo complemento, o un “incidente” lungo il suo percorso. Ma fatale. La “velocità” scava il vuoto nel mondo che attraversa, lo scompone, e lo altera.
Ma qui noi viviamo, o proviamo a farlo.