Dante Arfelli: scrivere e essere niente

6 Marzo 2024

Comincia presto il silenzio di Dante Arfelli. E si estende, labirintico e tentacolare, per oltre quarant’anni fino alla morte nel 1995. Con qualche breve interruzione, un provvisorio ritorno alla scrittura per l’insistenza amichevole delle persone, che, nel corso degli anni, gli sono state più vicine. Nessun “gran rifiuto”, solo un naufragio lento e inesorabile, accompagnato dal sentimento di aver consumato le proprie parole. Perché scrivere quando non lo si sente più necessario? “Quello che avevo da dire, l’ho detto”, così Arfelli si libera dell’argomento. Preferisce tacere su ciò che lo riguarda. 

Ma il suo lungo silenzio resta un interrogativo, l’emblema di una vita che, nel tempo, si è andata disfacendo incalzata dalla depressione. Arfelli ha insegnato, con passione, fino al 1965, muovendosi sempre nella terra che più amava, la sua Romagna fra Ravenna e Cesenatico. E dalla Romagna non si era mai allontanato se non per gli studi universitari a Bologna e il servizio militare, durante la guerra, in Montenegro come artigliere. Poi un sofferto girovagare fra strutture sanitarie e case di riposo. 

Il suo esordio di scrittore è del 1949, con il romanzo I superflui, scritto d’impeto, in un’estate, appena ventottenne. Esordio bruciante, partecipa al Premio Venezia, oggi Campiello, e, a sorpresa, lo vince.  Tradotto all’estero, solo negli Stati Uniti vende un milione di copie. Lo pubblica un editore importante, lo stesso di Ernest Hemingway, Scribner’s. Una firma di spicco del “New Yorker”, Anthony West, gli riconosce una indubbia forza narrativa. 

Il dopoguerra in cui si muovono i personaggi di I superflui è un tempo di dure verità e di roventi disillusioni, dove le anime si inaridiscono:

“Era un intisichirsi giorno per giorno, un dissanguarsi, un afflosciarsi di tutto l’essere, un insecchirsi della vena vitale”.

Questo lo stato dei giovani “superflui”, che non arrivano a entrare nel gioco della vita, sostano sulla soglia del mondo, esplorando il nulla in cui si sono inoltrati, e nel nulla poi si dissolvono.

“A che cosa valeva il passaggio di una generazione se non preparava una vita migliore per la seguente? In questo avvicendarsi e in questo preparare e sacrificarsi l’uno per l’altro era il senso segreto della vita. Forse un modo era migliore dell’altro, forse la via seguita da lui non era quella giusta. Poteva anche essere, ma era pur sempre qualcosa per preparare una nuova vita. Della sua che poteva farsene ormai?”.

È la terribile domanda che pesa sulla vita dei “superflui”, condannati a essere di troppo, inchiodati all’inconsistenza sociale, inquieti fantasmi privi d’identità. Non c’è futuro per loro. Questo vuol dire l’espressione romagnola “esser gnent”. 

“Mi sento tagliato fuori”, scrive Arfelli all’amico Mario Picchi negli anni immediatamente successivi all’uscita trionfale del suo romanzo. Si è affacciato sul successo, ma subito se ne è ritratto, perdendosi in se stesso. Sarà poi lo stesso Mario Picchi a fornire la chiave per leggere non solo I superflui, ma anche Quinta generazione, che esce due anni dopo: “I vinti dei suoi libri non sono che proiezioni del suo autore”.

Il “superfluo” è lui, Dante Arfelli, congestionato da fobie e ossessioni che gli lacerano la cavità dell’anima, prigioniero di un silenzio che forse anche lo protegge. Transitando fra ospedali e case di cura, dopo aver lasciato l’insegnamento, Arfelli non trova più ragioni per scrivere, non ne ha la forza, e neppure il desiderio.

“Scrivere è quasi un’impresa disperata… io ne sono sfiduciato. A volte penso che se avessi dei soldi me ne fregherei della letteratura. E di tutte le beghe e le noie di tanta gente che ci vive.”

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Quando Dante Arfelli torna a scrivere, a due anni dalla morte, avrà una diversa disposizione d’animo. Nessuna ambizione o progettualità. Ora, le parole che deposita nei suoi taccuini cadono su se stesse. E nulla pretendono. “Scrivo e basta”, dice Arfelli. “come viene, viene, come capita, capita, seguitando a scrivere così come ho cominciato, senza preparativi tranne qualche nota, che mi viene da sé, Quando mi capiterà di non avere niente da dire, continuerò con la frase niente da dire”.

Non si sente più scrittore, Dante Arfelli. Semplicemente è uscito dalla letteratura. Si è messo fuori. La vita è troppo ingombrante, e non si fa ordinare e raccontare. Fluttua nel disordine, restando indicibile. Fobie e ossessioni impongono il silenzio. Ora, della vita Arfelli si limita a trascrivere qualche movimento, residue effervescenze, sotterranei sussulti. È il poco che gli resta. Arfelli ferma la vita che gli sta sfuggendo. Diventa il suo fotografo. 

In I cento volti della fortuna, che esce un anno dopo la sua morte, stende le “cronache” della casa di cura in cui è ricoverato. Ha un campo visivo ormai ridotto: la sua stanza, il corridoio, gli stretti confini del suo spazio di vita. Potrebbe risultare soffocante, ma non è così per Dante Arfelli, che lo attraversa con viva curiosità. È ancora mosso dal desiderio di vedere, osserva i ricoverati, i visitatori, le infermiere, ne raccoglie le vicende personali. Registra i colori, le luci, i rumori del carrello che porta i pasti.

Nel tempo breve delle sue annotazioni, arriva a vincere l’esilio mentale, buca la ragnatela delle fobie, lacera la coltre nera delle manie depressive, per lanciare un ultimo sguardo, dire un’ultima parola sul mondo. Parola senza peso. Da “superfluo”, “esser gnent”.

FONTI:

Dante Arfelli, I superflui, Marsilio, Venezia, 1994.
Dante Arfelli, Quinta generazione, Marsilio, Venezia, 1993.
Dante Arfelli, Ahimè, povero me, Marsilio, Venezia, 1993.
Dante Arfelli, I cento volti della fortuna, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1996.
Per Dante Arfelli, Atti delle giornate di studio, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1996.

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