Il rischio infinito

22 Marzo 2024

Chiudere gli occhi può essere un possibile atteggiamento quando lo sguardo sull’oggi diventa insostenibile? Spegnere l’attenzione, “imparare a essere morto”, come suggeriva il Palomar di Italo Calvino? Credo possa essere di ostacolo la memoria delle passate effervescenze del pensiero e dell’azione, in ossequio a un totem generazionale che, probabilmente ancora scalpita nelle nostre teste, il noto adagio marxiano delle “Tesi su Feuerbach”, che suona più o meno così: “i filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo”. 

Altri tempi. Perduti. Il mondo è cambiato senza avvertirci. E non è semplicemente cambiato, si è rovesciato su se stesso, uscendo dall’orbita della sua stessa storia. Forse, la sola azione possibile che resta da compiere è quella di mantenerci nell’umano (ma abbiamo un’idea dell’umano?), sapendo che gli assunti etici, attorno a noi, e in noi, sono andati deflagrando. Se non ci si vuole ridurre a recitare l’equazione “Dio, Patria, Famiglia”, dobbiamo pur riconoscere che l’etica e i suoi vincoli non sono più un’evidenza. Il “cielo stellato sopra di noi” dell’epitaffio kantiano si è andato annuvolando, ed è andata sfumando la “legge morale dentro di me”. Tutte cose per nulla nuove, per quanto ci possa apparire nuovo tutto ciò che viene vissuto in prima persona. 

Come fa il Mendel di Joseph Roth occorre “bruciare le scritture”, tutte le “scritture”. E non è neppure necessario impegnarsi in un atto trasgressivo, perché le “scritture”, tutte le “scritture”, sono scivolate in un silenzio fondo, o non ci parlano più, o non siamo più in grado d’interrogarle. Si procede alla cieca, al buio, ed è paradossale che questo accada in una società come la nostra che considera l’immagine, e dunque il vedere, come un suo indubitabile assioma. Ma, come sostiene Agostino De Rosa in quel libro straordinario che è Cecità del vedere, non necessariamente la cecità nega il vedere. C’è prossimità fra cecità e visione, e forse per acuire la vista occorre chiudere gli occhi.

Procediamo dunque alla cieca, e nel rischio, come ci avverte, dalla metà degli anni ottanta del secolo scorso, il pensiero sociologico, da Ulrich Beck in poi. Il rischio ci sovrasta e ci domina: “Oggi, scrive Ulrich Beck, nelle società sviluppate, c’è una sorta di destino del rischio entro cui si nasce e a cui, per quanti sforzi si facciano, non ci si può sottrarre”. 

Ineliminabile il rischio. Può essere forse calcolato, o anche, almeno parzialmente previsto, se ne possano limitare le conseguenze, ma il rischio costantemente ci accompagna lungo la strada del nostro vivere. Avvolge, e corrode la base delle nostre decisioni. Il suo volto ci risulta quasi familiare.

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A lungo il filosofo Salvatore Natoli ha guardato a questa scena, cercando d’illuminarla per quanto è possibile fare. La sua riflessione ripercorre l’intera parabola dell’Occidente fino al punto in cui la sua storia sembra dissolversi, restando “in bilico” sul vuoto. Ora, l’orizzonte della nostra esperienza si è dilatato a tal punto da non essere più immediatamente identificabile, scivolando verso la multidimensionalità in cui ora è collocato ogni nostro atto di conoscenza. Osserva Salvatore Natoli: “Ci muoviamo ormai in uno spazio-ambiente senza confini, entriamo e usciamo dai sotto-sistemi, vortichiamo nei loro interstizi; per di più in una società flessibile, siamo costretti ad adottare identità fungibili a secondo dei bisogni e delle richieste”.

Occorre allora raccogliere pensieri, “pensieri impazienti”, per segnare la strada che ci troviamo a fare in un terreno accidentato, senza mappe o punti di orientamento, in una terra selvaggia e muta, che si estende davanti ai nostri occhi come una macchia cieca. 

Consideriamo questa osservazione del sociologo Niklas Luhmann: “Ogni affermazione causale rimanda implicitamente all’infinito da diversi punti di vista. Ogni effetto ha infatti un numero infinito di cause, così come ogni causa ha un numero infinito di effetti”.

L’infinito è il lungo respiro di ogni luogo della nostra esperienza, dove le cause, moltiplicandosi, sono diventate inaccessibili. L’infinito ci circonda, si muove dentro di noi e dentro di noi dilaga. Ne abbiamo paura, come si ha paura di qualcosa che non si arriva a delimitare o a contenere. La paura può imbrigliare il pensiero non più in grado di dire il mondo, di farsi strada fra i nomi andati in rovina. “Abbiamo completamente smarrito il mondo, ne siamo stati spossessati”, ha scritto Gilles Deleuze. 

Ma proprio attraverso la paura il mondo può tornare a inquietarci, quasi fosse l’ambiguo segnale della sua presenza. Attraverso il palpitare squassante delle emozioni, gli intermittenti tremori del cuore, possiamo percepire il nostro essere al mondo, e forse anche il suo senso. La paura ci può consentire di sentire la vita che ci attraversa e ci conduce, e ci colpisce confondendoci con la luce improvvisa e saettante di un lampo. 

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