Tutti ciechi davanti alla fine

16 Febbraio 2024

Il tema della fine, del collasso del tempo storico, non è cosa di oggi, e non è ll frutto velenoso del Novecento e delle sue catastrofi. A partire da Hiroshima, si perfeziona l’immagine della fine, si definiscono i dettagli. Offrendone la rappresentazione visiva (il fungo, la luce accecante, il vento), ci viene mostrato come può accadere. Con Hiroshima, la fine dell’intera umanità diventa quasi familiare, pur mantenendo la sua dirompenza.

Ma l’immagine della fine è l’inseparabile compagna della civiltà umana e del suo sviluppo, come se l’una e l’altra procedessero in parallelo, e l’idea stessa di sviluppo celasse un suo rovescio nero. La fine è all’inizio: l’umanità esordisce sulla scena della storia con un “diluvio”. Nel racconto biblico di “Genesi” sei brevi capitoli separano il grandioso incipit della creazione (“In principio Dio creò il cielo e la terra”) dal rovinoso manifestarsi della distruzione: la creazione si ripiega su se stessa, il suo spazio, appena dispiegato, si dissolve in un’apocalisse liquida. Secondo il racconto di “Genesi” l’infezione del male ha intaccato le radici della “pianta umana”, non c’è altro rimedio se non la chirurgia radicale dell’annientamento di “ogni carne, in cui c’è alito di vita”. E Dio, che era stato un amorevole creatore, si dispone a disfare il suo disegno, diventando l’impietoso giustiziere dell’umanità ostinatamente applicata all’esercizio del male.

Quanto più la fine incalza, tanto più si stenta a prenderne coscienza. Credo lo si possa facilmente constatare guardando all’attuale incapacità degli Stati ad affrontare gli effetti del riscaldamento climatico. Il loro passo è lento, impacciato, mentre la catastrofe procede a larghe falcate, drammaticamente incisive. La catastrofe sembra aver fretta, mentre gli uomini che reggono gli stati si disperdono in mediazioni e lunghi, estenuanti patteggiamenti.

Jared Diamond, in Collasso, rileva l’opacità che avvolge lo sguardo dell’uomo nel considerare l’incombere della catastrofe, “una specie di cortina cognitiva cala sui suoi occhi, e lo rende lento e impotente”. Pensiamo alla “pandemia”: quanto abbiamo faticato a riconoscerne la gravità? Al suo primo manifestarsi, illustri scienziati hanno dichiarato che mai il virus avrebbe potuto diffondersi in Italia e in Europa. E non per negazionismo, ma per qualcosa di più sfuggente che ha finito con l’inceppare la risposta sanitaria fino all’arrivo dei vaccini. Almeno inizialmente, i nostri scienziati non riuscivano a seguire il procedere a salti del virus. Avevano in mente un ordine della natura che il virus, eccentrico nei suoi movimenti, continuava a trasgredire, non facendosi mai trovare dove pensavano che fosse.

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Questa è la “cortina cognitiva” cui fa cenno Diamond, la nebbia che avvolge il nostro sguardo, vela la nostra capacità di giudizio. Facciamo di tutto per non incrinare lo stato di normalità in cui viviamo, anche se si tratta di una normalità affacciata sull’abisso. È la “grande cecità”, di cui parla, in un suo libro, anche Amitav Ghosh. C’è una trasformazione in atto, ma non riusciamo a individuarne i contorni. Il pensiero di cui disponiamo non arriva a contenere quello che sta accadendo. Se risulta imprevedibile è perché il tempo, “fuori sesto”, non arriva a misurarne gli effetti. La razionalità calcolatrice, essenziale nervatura della cultura d’Occidente, qui va in affanno. Deflagra lo spazio in cui viviamo, ma anche il tempo che lo misurava. Gli orologi che scandiscono il cambiamento vanno in frantumi.

L’orchestrina del Titanic ha suonato fino a un momento prima che la nave si inabissasse, probabilmente per dare conforto ai passeggeri, oppure semplicemente per non interrompere una consuetudine. 

Tutti noi siamo imbarcati sul Titanic al suo ultimo viaggio, non possiamo scendere, lo squarcio dello scafo à già accaduto, e le scialuppe di salvataggio scarseggiano. Chiedersi se c’è ancora un mondo a venire come fanno Deborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro nel loro libro (Esiste un mondo a venire? è il suo titolo) può almeno incrinare la “calotta cognitiva”, la coltre di fitta nebbia in cui continuiamo a vagare, sperduti, disorientati.

La domanda di Deborah Danowski e Eduardo de Viveiros fa traballare quel piano della continuità storica, di cui siamo prigionieri. Ragionare sulla fine ci può consentire di rivisitare il decorso di quell’epopea dell’umano diventato indiscutibile. Ragionare sulla fine può corrodere la corteccia di certezze con cui ci proteggiamo.

Dopo aver bruciato le scritture (“Dio voglio bruciare!”) che in passato lo avevano orientato, Mendel, il protagonista del Giobbe di Joseph Roth, sbotta in un’affermazione desolata, ma liberatoria: “Sono solo e voglio essere solo!”, dice Mendel. Dovremmo rileggere il Giobbe biblico, non solo sotto la categoria del “dolore innocente” che, nei secoli, ne ha soffocato la figura. Oggi Giobbe mi appare come l’uomo che ha esaurito il pensiero, e non è in grado di spiegare il mondo che ha intorno, non è più il sovrano della sua stessa vita, ma resta in balia di un Dio capriccioso, o di una forza che si muove al di fuori di ogni possibile spiegazione. È il primo naufragio della razionalità d’Occidente. Altri ne seguiranno.

Come Mendel, siamo soli, senza protezione, inservibili le scritture, i saperi, i polverosi codici che hanno regolato l’umano. Resta soltanto questa domanda, impaziente, scalpitante, pronunciata nel tremore del cuore: “Esiste ancora un mondo a venire?”. 

C’è una risposta? O soltanto una serrata sequenza di domande, come accade a Giobbe? Nessuna risposta. Potrebbe essere altrimenti? L’orchestrina del Titanic ha finito di eseguire il suo repertorio (ma c’è sempre un’orchestrina disposta a mitigare il sopraggiungere del peggio). Ora è silenzio. Dunque nessuna risposta, ma azzardi, incerti sussulti fra le rovine del nostro spazio-tempo.

Possiamo cominciare con il raccogliere le parole di Bruno Latour, dal suo ultimo libro Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia:

“Oggi la terra gira, di nuovo, ma stavolta su se stessa e per conto suo, e noi ci ritroviamo al suo centro, inseriti, confinati, incastrati nella zona critica… La mia impressione è di essere come il bucato che gira nel tamburo di una lavatrice, sottopressione e ad alte temperature! Occorre reinventare tutto da capo: il diritto, la politica, le arti, l’architettura, le città, ma cosa ancora più strana, bisogna assolutamente inventare il movimento stesso, il vettore delle nostre azioni”.

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