Quammen, racconti di avventura e di speranza

12 Novembre 2024

Racconti d’avventura. La definizione dei ventuno capitoli (più una prefazione e una postfazione) che compongono Il cuore selvaggio della natura, di David Quammen, appena pubblicato da Adelphi a qualche mese dall’edizione originale, arriva a pagina 406 delle 408 complessive. L’aveva già fatto in Senza respiro, rivelando nelle ultimissime righe della sua corsa per sconfiggere il Sars-CoV-2, il debito di ri-conoscenza con la prosa di William Faulkner, quel discernimento della verità possibile solo a partire dalla somma frammentata di diversi punti di vista. Anche nel penetrare la “natura selvaggia”, la consapevolezza della chiave narrativa che autorizza la lettura più raccomandabile, sembra arrivare a Quammen alla fine della scrittura, forse nel tornare con la memoria alla sua esperienza, quella alla quale è riandato selezionando i reportage originalmente realizzati su commissione di National Geographic, tra l’ottobre del 2000 e l’agosto del 2020. Ventuno dispacci dalle terre della meraviglia, del pericolo e della speranza, come riassume il sottotitolo, dove per una volta la speranza la fa da protagonista, scalzando – anche dal podio – la prospettiva apocalittica, quella che più “naturalmente” accompagna le preoccupazioni per la difesa dell’ambiente, della biodiversità e, segnatamente, di ciò che si deve intendere per “natura selvaggia”. Una speranza alimentata e condivisa grazie ai “racconti d’avventura” di un gruppo di uomini e di donne che sembrano arrivare direttamente dalla fine del ‘700, dall’età della meraviglia e della scienza romantica: la dedica al fotografo Nick Nichols e all’ecologo Mike Fay, non può non rimandare alla memoria allucinata dell’esploratore scozzese Mungo Park.

Le parole sono importanti, urlava Nanni Moretti in Palombella rossa (forse citando un precedente editoriale di Luigi Pintor, uno di quei fenomenali pezzi di giornalismo fatti esclusivamente delle parole necessarie: …chi parla male è perché pensa male e agisce peggio), e la lettura di questo ultimo lavoro di Quammen sarebbe giustificata già solo nella prefazione, laddove chiarisce cosa si debba intendere per “natura selvaggia” e, implicitamente, com’è che spessissimo usiamo questa locuzione in maniera impropria. Non è natura selvaggia, certamente, una tigre in gabbia dentro uno zoo e nemmeno un piranha in una boccia di vetro: nel senso più pieno, la natura selvaggia presuppone vastità, complessità, interazioni fuori dal controllo dell’essere umano. E dev’essere biologica. I brillamenti solari, la tremenda attività della Grande Macchia Rossa di Giove, l’inesorabile forza attrattiva di un buco nero sono fenomeni formidabili e che spesso osserviamo con sbalordimento misto a inquietudine: dinamici che più non si può immaginare, certo, ma inanimati. “All’opposto – scrive Quammen – Times Square alle cinque di pomeriggio, e ancor più la notte di Capodanno, è a suo modo selvaggia, brulicante di vita (umana), ma non di diversità biologica, anche a voler contare i roditori e gli scarafaggi nelle gallerie sotterranee”. La “natura selvaggia” presuppone dinamismo, biologia e complessità. Quello che manca alla tigre in gabbia o al piranha sotto vetro, o a un baobab solitario, sono quattro caratteristiche cruciali: estensione, connessione, diversità, processi.

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Per “estensione”, si intende ovviamente, la dimensione considerevole e significativa del luogo in cui si manifestano i “processi”, ovvero le dinamiche di interazione dei sistemi biologici come, ad esempio: fotosintesi, erbivoria, impollinazione, parassitismo, competizione, predazione, disseminazione e decomposizione. Con “connessione” si fa riferimento ai legami e alle interdipendenze che i processi generano tra le creature viventi e i loro ambienti fisici. La “diversità” biologica, infine, non è riscontrabile se non a partire dall’estensione dei grandi paesaggi naturali in grado di ospitare più specie di creature, più processi e maggiore connessione. Un fatto cruciale, osservato e descritto in termini matematici da Frank Preston, un ingegnere civile semisconosciuto, ecologo per passione e amante del birdwatching, in una serie di articoli pubblicati tra il 1948 e il 1962, ai quali si sono ispirati Robert H. MacArthur e Edward O. Wilson per il loro monumentale The theory of Biogeography, del 1967.

Già in questo lavoro era chiaro quanto la crescita progressiva della popolazione umana, con tutte le sue attività, possibilità, sviluppi, avrebbero “frammentato sempre più gli ecosistemi in blocchi insulari circondati dalla massa oceanica di ciò che chiamiamo civiltà”. In queste isole ecologiche circondate dall’impatto umano, l’effetto principale è una diminuzione della diversità biologica. “Tra estensione e diversità o tra distanza e diversità, la relazione è inversa: più l’isola è piccola e meno sono le specie che conterrà”. E popolazioni ridotte sono più esposte al rischio di estinzione. Quello cui si deve tendere è un “modello di equilibrio” della biocenesi insulare. Estensione e connessione sono elementi cruciali e la diversità biologica dipende da loro, così come la “massiccia presenza di processi ecologici”: predazione, erbivoria, competizione e impollinazione possono esistere solo laddove l’estensione e la connessione permettono alle diverse creature di interagire. Permettendo il battito pulsante dei grandi ecosistemi naturali, la proprietà emergente di Il cuore selvaggio della natura.

Un libro come una serie di racconti di avventura – datati, ma ognuno dei quali corredato di una contestualizzazione iniziale e di un aggiornamento in coda – che è anche un esplicito omaggio alle persone impegnate a salvaguardare quel battito pulsante, e certo grazie anche all’impegno costante e convinto di una testata come National Geographic. Una serie di dispacci dalla frontiera di coloro che cercano di proteggere i luoghi che conoscono e che hanno “a cuore”, incredibilmente incuranti (almeno nella lettura del recensore) dei pericoli che ancora oggi accompagnano un “mezzo matto” (nella definizione dell’autore) come J. Michael, Mike Fay, mentre si accinge ad attraversare il lungo bacino del Congo, pantaloncini corti, a torso nudo, che tanto la t-shirt (l’unica in dotazione) si bagnerebbe immediatamente, e sandali da trekking, più utili per evitare ferite e vesciche sui piedi, nonostante le mosche tse-tse che lì ti succhiano il sangue, le sanguisughe che altrimenti si attaccano alle piaghe delle caviglie, nel contempo prestando attenzione ai vermi del piede, quando si staziona in mezzo allo sterco di elefante.

Riassumere questi racconti, aldilà delle difficoltà magari superabili, va contro il buon senso che accompagna il piacere della lettura: sono racconti fantastici, in più di un senso, a misura della qualità della scrittura, che è anche la ragione per cui a Quammen sono stati commissionati. Ma per anticipare almeno il dove sono ambientati, è forse utile mappare i cammini dell’autore tra le terre attraversate.

Cominciando, e solo in parte seguendo per milleseicento chilometri (un anno di cammino, giorno più giorno meno) Mike Fay tra le grandi foreste dell’Africa centrale, a partire da un’area remota a nord della Repubblica del Congo nella spedizione “Megatransect” (nella biologia sul campo, un “transect”, o “transetto di rilevamento”, corrisponde a un rilevamento seguendo un cammino rettilineo, avanti e indietro, con ripetizione rigorosa). E siccome la spedizione ebbe inizio il 20 Settembre del 1999, quando le unità personalizzate gps erano quasi fantascienza, Fay, all’epoca “quarantatreenne dal fisico asciutto, con un mento appuntito e un naso sottile e un po’ storto”, adottò la più tradizionale strumentazione “vecchia scuola”: chiese ad uno dei suoi uomini, Yves Constant Madzou, un giovane e brillante congolese, di legare il capo di un rocchetto di filo topofil, un Fieldranger 6500, grosso più o meno come una borraccia, al punto di partenza, un semplice alberello, dal quale il topofil cominciò a srotolarsi a guisa di contachilometri. “Conta ciò che si può contare, misura ciò che è misurabile e rendi misurabile ciò che non lo è”. Contando e misurando, ma più che altro leggendo, anche noi possiamo visitare, almeno idealmente, la bellezza incontaminata di quello che poi diventerà il Parco nazionale di Nouabalé-Ndoki, e poi la distesa forestale di Minkébé (dove compare, anche nel racconto di Quammen, il primo riferimento a Ebola, il protagonista inquietante e ineludibile di tutti i suoi libri e di un intero capitolo di questo). Dal Congo al Gabon, non senza complicazioni geo-politiche, si fa conoscenza dell’Abisso verde, una “terrificante distesa di giunchi tutti uguali”, dove Fay passerà la notte tra il 1999 e il nuovo secolo-millennio. Una scelta a dir poco eccentrica. E poi, ancora, la Riserva di Lopé-Okanda, i monti Chaillu e le pianure boscose nell’angolo sudoccidentale del Gabon. Tutto per “misurare a più livelli la relazione tra l’assenza di impatto umano e la ricchezza ecologica della foresta […] e per proteggere vaste aree di ricca foresta dall’impatto erosivo dell’uomo”. Il giorno 456 della spedizione, per il mondo il 18 Dicembre 2000, Mike Fay, dopo più di tremila chilometri a piedi nella foresta africana, in quest’ultimo tratto di nuovo insieme a Quammen, ascolta il fragore della risacca e l’odore di salsedine nell’aria: erano arrivati all’Oceano Atlantico.

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È anche grazie a imprese come queste che oggi, in Gabon, con un primo impulso del Presidente El Hadj Omar Bongo poi confermato dal figlio Ali Bongo Ondimba, in un paese “ancora da scoprire” ci sono tredici nuovi parchi naturali: per quale ragione andare in California per ammirare (!) il temibile serpente del Gabon? “Non voglio arrivare a una situazione in cui saremo costretti a recarci in Europa o negli Stati Uniti per vedere negli zoo alcune specie selvatiche che qui si sono estinte”.

Preservare il cuore selvaggio della natura.

Passeggiando anche con Jane Goodall per incontrare gli scimpanzé di Goualougo, contribuendo al decreto nel 2012 del Presidente della Repubblica Democratica del Congo, Denis Sassou Nguesso, che aggiungeva il Triangolo di Goualougo al Parco nazionale di Nouabalé-Ndoki.

Sensazionale è il “megaflyover” attraversando il Niger, un capitolo imperdibile: “l’Africa non è un singolo luogo, ma un milione di luoghi”. Il “continente nero” – sempre a proposito delle parole che sono importanti – è un’etichetta non solo sbagliata. Ma cieca e stupida. “È un luogo ricco di varietà, sofferenza e gioia””.

È così, l’Africa è complicata. “Perfino un posto così maestosamente africano come il Parco nazionale di Amboseli in Kenya non può essere identificato con l’Africa”.

Ma non solo Africa. Circa a metà della lettura, il racconto di avventura si sposta nella penisola della Kamcatka, con un dispaccio tra salmoni e politica. Visitando anche la Riserva naturale di Kronockij, un luogo così meraviglioso e fragile “che forse non dovremmo andarci”, un territorio troppo complesso e bello per una semplice meta di viaggio. “Kronockij ha davvero bisogno delle persone, anche solo dei visitatori? Pongo questa domanda profondamente consapevole che può sembrare ipocrita, o comunque incoerente, dal momento che io stesso ho lasciato le impronte dei miei stivali nella crosta cedevole di Kronockij”. E via, allora nell’Artico russo, alla ricerca del reale “significato di Nord”, in compagnia, di nuovo, anche di Mike Fay, ma insieme a russi, americani, spagnoli, inglesi, un australiano e un paio di francesi: l’ONU della ricerca scientifica è l’unica che ha sempre funzionato. E senza sottovalutare, parola di Quammen, che la difesa dell’ambiente può attrarre anche un autocrate cinico come Putin, se c’è da fare soldi.

Altri posti da conoscere, altre oasi da salvare. Il delta dell’Okavango in Botswana fino al deserto del Kalahari, al confine con la Namibia: la più vasta oasi del mondo,”un rifugio umido che da’ sostentamento a elefanti, ippopotami, coccodrilli, facoceri, bufali, leoni, zebre e ai licaoni, i cani selvatici africani”. E centrale, nella salvaguardia, “l’anello mancante dell’Angola”, dal quale arriva l’acqua. Salvare “il parco della gente”, quello nazionale di Gorongosa in Mozambico, anche e specialmente grazie al mecenatismo privato di personaggi romanzeschi come il fondatore della Boston Technology, Greg Carr. E salvare anche i “parchi della pace” voluti da Nelson Mandela e da Joaquim Chissano, presidente del Mozambico e amico di Mandela. Non dimenticando, nella parole di Greg Carr, che “sviluppo umano e conservazione si fondono […] più diritti per donne e bambini, meno povertà… ecco di cosa ha bisogno l’Africa per salvare i suoi parchi nazionali”. Un altro racconto di mecenatismo, incredibile – e infatti assai poco creduto dapprincipio –, è quello di Doug Rainford Tompkins e di sua moglie Kris, che hanno acquistato terre osservando mappe colorate del Cile e dell’Argentina, proteggendo gli ambienti selvaggi, per il piacere delle persone e per la salvaguardia della diversità biologica. “Per quattro o cinque anni non raccogliemmo altro che disprezzo – racconta Kris Tompkins – la gente pensava fossimo una setta”. Ma se oggi quella che un tempo era la riserva privata di Pumalin è ora il tesoro pubblico del Parco nazionale di Pumalin Douglas Tompkins, si deve a coloro che all’inizio veniva etichettati come “los gringos che vienem por el agua”. Non è solo l’Africa a essere complicata, capire cosa succede nel mondo è sempre un maledetto intrigo. Compreso il ruolo che una specie di formazione paramilitare, un corpo di ranger privati dal nome African Parks, può svolgere nella gestione e salvaguardia di ventidue parchi nazionali e aree protette, garantendone la sicurezza.

Non ho parlato di animali. Ce ne racconta moltissimo l’autore, regalandoci una conoscenza molto ravvicinata di elefanti, salmoni, gorilla, scimmie, scimpanzé e leoni: specialmente uno di questi, C-Boy, “una creatura di una bellezza, una forza e una solennità straordinarie, che aveva incarnato una imperiosa volontà di sopravvivenza”. Non è il leone il cui profilo ammiriamo nella splendida copertina de Il cuore selvaggio della natura, ma è quasi impossibile non fare finta.

Chiude David Quammen scrivendo: “Ho provato a fare di questo libro qualcosa di diverso da una diagnosi cupa, o un grido di protesta per tutte le zone di natura selvaggia che il pianeta ha perso e sta perdendo. Ho cercato di offrirvi un po’ di piacere, di divertimento e perfino di speranza”.

Mission accomplished!

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