Latour microbico
“Se raggiungessimo la porta del Paradiso, e ci fosse data la possibilità di stabilire la nostra residenza eterna sulla stessa nuvola di Erasmo, Rabelais, Shakespeare e Montaigne, pochi di noi – io credo – domanderebbero di essere invece perennemente rinchiusi con Cartesio, Newton e i geni seicenteschi, dalla mente più esatta ma dall’anima più oscura”.
A “credere”, è Steven Toulmin, filosofo britannico allievo di Wittgenstein, dalla fine degli anni ’40 titolare della cattedra di filosofia della scienza a Oxford e poi, dal ’65 negli Stati Uniti, insegnando filosofia della scienza ed etica in diverse università, compresa la prestigiosa Northwestern di Chicago. Nel 1991 per i tipi di Rizzoli, usciva un preziosissimo Cosmopolis. La nascita, la crisi e il futuro della modernità, nel quale argomentava le ragioni per cui, a partire dalla Pace di Westfalia, alla fine di “tre decenni di guerra che non avevano provato alcunché sui relativi meriti del cattolicesimo e del protestantesimo”, la “ricerca della certezza” dei filosofi seicenteschi rappresentò la risposta ad una specifica sfida storica, al caos politico, sociale e teologico seguito all’assassinio di Enrico IV di Navarra, il 14 Maggio del 1610, il monarca francese che aveva immaginato possibile separare la lealtà nazionale dall’affiliazione religiosa. Correva l’anno 1648, quando il programma della “verità” traslocava dalle dispute teologiche, irrisolvibili, alla nascente scienza di Cartesio, Galileo e Newton.
La crisi e il futuro della modernità su cui rifletteva Toulmin, non poteva non interrogarsi sulla sua data d’inizio: “Scegliendo come scopo della Modernità un programma intellettuale e pratico che rinunciava alle posizioni scettiche e tolleranti degli umanisti del Cinquecento e si concentrava sulla ricerca – tipicamente seicentesca – di precisione matematica, rigore logico, certezza intellettuale e di purezza morale, l’Europa si è messa sulla strada politica e culturale che l’ha condotta ai suoi più grandi successi tecnici sia ai suoi più profondi fallimenti umani. Se abbiamo una qualche lezione da imparare dall’esperienza degli anni sessanta e settanta [del ‘900], questa (io credo) consiste nel bisogno di riappropriarci della saggezza degli umanisti del Cinquecento e di sviluppare un punto di vista che combini il rigore e la precisione della “nuova filosofia” seicentesca con una preoccupazione pratica per la vita umana, nei suoi dettagli concreti. Solo così possiamo reagire all’attuale diffusa disillusione che circonda il programma della Modernità, e recuperare ciò che è ancora umanamente importante dei suoi progetti”. La storia del conflitto tra “le due culture”, segnerebbe il suo esordio addirittura quattro secoli fa. Una lunga battaglia.
Non a caso – credo io, stavolta – Guerra e Pace è il sottotitolo della versione originale di I Microbi. Trattato Scientifico–Politico, come con grande merito editoriale Mimesis ha appena ripubblicato, Pasteur. Guerre et paix des microbes, suivi de Irréductions, il testo di Bruno Latour uscito, orsono quarant’anni, nel 1984. Un volume che non si trovava più in libreria, e che oggi possiamo consultare nella nuova edizione italiana, arricchito dalla cura e dalle illuminanti Presentazione e Postfazione di Ilaria Ventura Bordenca.
Una delle mitologie della contemporaneità – ricorda Ventura Bordenca a proposito dell’eredità culturale di Latour –, è proprio quella della ricerca scientifica come qualcosa di puro che dovrebbe essere impermeabile alle ingerenze di tipo politico, economico, culturale e sociale. “La ricerca scientifica – argomenta la curatrice – non è pura di per sé, e non lo è mai stata: siamo noi cosiddetti moderni che le attribuiamo questa qualità, solo dopo aver espunto tutti quei fattori che non riconosciamo come scientifici”. Quelli che erano stati considerati da Montaigne e dall’umanesimo rinascimentale, quelli che Karl Popper avrebbe insistito a tenere fuori, sottolineando con la matita blu i criteri di demarcazione tra le questioni genuinamente scientifiche e quelle irrilevanti, superstiziose, ideologiche o addirittura metafisiche. Ma era ed è possibile considerare la storia della scienza e della filosofia come discipline non genuinamente storiche? A rispondere avrebbe pensato Thomas Kuhn, rimpiazzando i sistemi di assiomi, che aspirano a una atemporalità valida universalmente, con i paradigmi, conseguenza di una specifica epoca o fase della scienza.
Ma torniamo a Latour, a Pasteur e ai suoi Microbi. La rilettura del testo, ci ricorda che viviamo in collettivi eterogenei dove scienza e politica, microbi e società, fatti scientifici e fatti politici non si possono tenere separati: naturale, culturale, sociale e scientifico, umano e non umano sono sistemi ibridi, il cui tentativo di separazione è stato il programma – fallito – della modernità. Secondo Latour, se non si segue e non si studia la nascita della batteriologia non si può comprendere la politica francese di fine ‘800 e, al contrario, senza comprendere la politica revanscista post napoleonica e neo-coloniale di quel periodo storico in Francia, non si può capire il ruolo di Pasteur e degli stessi microbi.
Per Latour la scienza è un Giano bifronte: una faccia è quella della scienza chiusa, impacchettata, pronta all’uso, data per ovvia nei manuali e che lui definisce “la scatola nera della scienza” – dove il prestito concettuale dalla cibernetica è palese –, e c’è poi una scienza in costruzione, che è quella dei dibattiti, delle controversie, delle prove e delle verifiche, e che è la faccia della scienza cui si rivolge Latour con l’interesse del ricercatore. La rivoluzione pasteuriana in Microbi è riconosciuta, per l'appunto, come una scatola nera e la scelta di guardarci dentro, tra le molte rivoluzioni che Latour avrebbe potuto scegliere, dipendeva dall’aura mitologica (nel senso proprio delle Mythologies di Roland Barthes) che la avvolgeva fino a generare una sorta di infatuazione per questo eroe nazionale, insignito di tutte le possibili cariche e decorazioni al merito. L’esperimento del 2 Giugno 1881, nel piccolo villaggio di Pouilly-le-Fort, quello che permette di debellare il carbonchio che stava decimando gli allevamenti francesi, è “… oggi famoso come ogni altro campo di battaglia”. Pasteur come Napoleone. Il punto, contestato da Latour, uno di quelli che lui considera alla stregua di una mitologia della contemporaneità, è la visione della ricerca scientifica come imparziale resoconto del reale e della natura, mentre per combattere e vincere una battaglia come quella combattuta da Pasteur, non diversamente da Napoleone o Kutuzov e dalla battaglia di Tarutino del 6 Ottobre 1812 (quella di cui, dubbiosamente racconta Tolstoj nel 4 tomo di Guerra e Pace), bisogna reclutare tutta una serie di attori che non sono né scientifici né politici a priori. Non è questione di influenza della politica nella scienza, per Latour la scienza è già politica, nel suo farsi. Tra batteriocentrismo pasteuriano e patriottismo francese, non c’è differenza: per affermare quest’ultimo c’era bisogno di sconfiggere i microbi, così da fare di nuovo potente la Francia. Nessuna purezza, tutto è ibrido.
E conseguentemente, nella seconda parte di Microbi dal titolo Irriduzioni, si legge l’idea chiave di Latour, quella di un mondo come estensione di reti, di passaggi, di sostituzioni e rinvii continui tra attanti di una società gestita da “forze” che si stabilizzano le une con le altre, definendosi di volta in volta come natura o come società.
Nella Postfazione, Ilaria Ventura Bordenca non poteva non ricordare il coinvolgimento di Latour nella cosiddetta beffa di Sokal e, in generale, l’accusa di relativismo che più volte gli è stata rivolta. Sedatis motibus, cosa si può dire di quella querelle a quasi trenta dalla trappola pubblicata su Social Text nella primavera/estate del 1996? Non è un caso, l’aver pensato di ricordare il Cosmopolis di Steven Toulmin. Un paio d’anni dopo la sua originale pubblicazione, nel 1992, lo storico britannico passava anche per Spoletoscienza e, a specifica domanda di una spettatrice-studentessa, su quali fossero gli orizzonti e i compiti della filosofia della scienza, con il sorriso nello sguardo invitava la giovane aspirante studiosa ad abbracciare quello dell’antropologia, studiando le caffetterie di UCLA, della Northwestern di Chicago, a Cambridge o alla Sorbonne, spiando le conversazioni tra gli scienziati, possibilmente nascondendo cimici sotto i tavoli, registrando come si parla di scienza quando se ne parla tra addetti, e senza gli obblighi discorsivi imposti dalle redazioni delle riviste di riferimento. L’antropologia della scienza, affermò convinto, aveva un grande futuro. Lo ha ancora, e certo anche grazie a Bruno Latour.
Certo, però, da allora il clima sembra cambiato, e anche in ragione di ciò che un altro storico della scienza come Steven Shapin, in The Scientific Life (2008), prevedeva riguardo la definitiva simbiosi tra ricerca di laboratorio, innovazione tecnologiche e culturali e maga-business all’epoca della big science, interrogandosi sulla natura del “cittadino scienziato”, sull’affidabilità, sul suo status morale dal momento in cui quella di fare scienza, da vocazione, diventa una professione.
Potremmo ricordare, molto prima, l’assai poco popperiana convinzione di Max Plank, “Una nuova verità scientifica non trionfa perché i suoi oppositori si convincono e vedono la luce, quanto piuttosto perché alla fine muoiono, e al loro posto si forma una nuova generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari”, e siamo all’inizio del ‘900. E che dire della risposta di Abdus Salam, il premio Nobel per la fisica del 1979, a un intervistatore che gli chiedeva ragioni della sua convinzione riguardo un principio riunificatore delle quattro forze fondamentali della fisica? Perché sono monoteista! Replicava Salam, aggiungendo che se quella era la motivazione, poi la “necessarie dimostrazioni” non potevano che seguire il metodo di Galileo (e solo i troppi traslochi mi impediscono di virgolettare e citare la fonte dell’articolo, perso in chissà quale faldone… magari qualche lettore lo recuperasse!).
Avendo citato molti storici anglosassoni, darei la parola anche al nostro Paolo Rossi, che proprio ricordando La nascita della Scienza Moderna in Europa, scriveva (1997): “Per quanto riguarda il metodo, sono convinto che le specifiche teorie che costituiscono il nocciolo duro di ogni scienza non siano affatto il riflesso di determinate condizioni storico-sociali. Sono invece convinto che la storia abbia molto a che fare con le immagini della scienza (vale a dire i discorsi su ciò che la scienza è e deve essere) che sono presenti nella cultura […]. Ciò che appare oggi saldamente codificato e come tale trasmesso dai manuali di fisica o di biologia [la scatola nera di Latour], ciò che appare oggi ovvio e naturale è invece il risultato di scelte, opzioni, contrasti, alternative. Quelle alternative e quelle scelte, prima della poi avvenuta codificazione, erano reali e non immaginarie. E ogni scelta comportò opzioni, difficoltà, scarti, si configurò anche, a volte, in modo drammatico”. Una scienza in azione.
In sintesi, almeno a parere di chi scrive. L’idea che oggi vi sia ancora qualche scienziato che racconti una scienza epurata dai conflitti e dalle passioni a beneficio dei puri dati, mi parrebbe appannaggio di qualche isolato combattente nella giungla, convinto che la II guerra mondiale debba ancora finire. A conferma, tra i molti esempi possibili, rimanderei alla lettura di La macchina del gene, di Venki Ramakrishnan (qui recensito), uno straordinario racconto di ricerca e conflitti, di vere e proprie corse alla pubblicazione così da anticipare il gruppo “rivale”, potendo rivendicare la primigenia scoperta della struttura del ribosoma e magari assicurarsi il Nobel per la chimica del 2009. Uno smontaggio della “scatola nera” che a Latour sarebbe piaciuto.
Semmai, ed è un altro merito della cura di Ilaria Ventura Bordenca alla nuova edizione di Microbi, c’è un “…tema della divulgazione della scienza e del modo in cui il discorso scientifico viene tradotto per un pubblico laico, ovvero dei discorsi che riguardano la costruzione sociale dello scienziato”. Probabilmente nel campo della divulgazione, e magari con la preoccupazione – più che legittima – di distinguere il lavoro dello scienziato dai deliri dei terrapiattisti e dagli squallidi interessi di cialtroni, mascalzoni e faccendieri che speculano sulla malattia e il dolore per piazzare presunte cure miracolose, negando l’efficacia di quelle validate dalla comunità scientifica internazionale, capita di incontrare racconti in cui l’”epurazione” dei tratti patemici sembra in effetti dispiegarsi, nascondendo “le passioni dello scienziato”, restituendo un’immagine fredda e razionale dove l’incertezza non ha passaporto. Un errore e un peccato, nemmeno veniale: che quando poi ci travolge Covid-19, far comprendere a quel “pubblico laico” che la scienza è fatta di certezze ma solo a vari gradi di probabilità, diventa un’impresa ancor più complicata di come, indiscutibilmente, si presenta.
E visto che abbiamo molto riferito di sguardi semiotici, all’invito di Steven Toulmin a recuperare la “saggezza degli umanisti del Cinquecento e di sviluppare un punto di vista che combini il rigore e la precisione della ‘nuova filosofia’ seicentesca con una preoccupazione pratica per la vita umana, nei suoi dettagli concreti”, volentieri affianchiamo il magistero di Paolo Fabbri, probabilmente l’interlocutore privilegiato della ricerca di Bruno Latour, a non separare mai “rigore e immaginazione”.
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