Parthasarathy: come funziona la vita?

20 Settembre 2024

“Come funziona la vita?”. Domanda impegnativa. Raghuveer Parthasarathy, ordinario di Fisica Biologica all’Università dell’Oregon, fresco autore di Un inizio così semplice, edito da Carocci in questo 2024, si chiede se non sia eccesiva, o addirittura assurda. Come mettere insieme la nostra esistenza con quella dei trilioni di batteri con i quali ci accompagniamo, e questi con la dinamicità di un ghepardo o con l’apparente immobilità – magari secolare – di una sequoia? D’altro canto, non definisce il nostro modo di esistere, proprio la ricerca di una possibile risposta a quella domanda? Non è forse il nostro più evidente carattere distintivo, quello di classificare ciò che è vivo in base a somiglianze di aspetto e di comportamento? Dopodiché, certo, la distintività del carattere e la/o/le possibili risposte che possiamo trovare dipendono in maniera diretta dal modo di formulare la/o/le domande. Quella scelta da Parthasarathy consegue dai suoi principali interessi di ricerca, tant’è che l’autore non si accontenta della “classificazione in sé”, quel modo inaugurato da Aristotele e che nella moderna tassonomia di Linneo gerarchizza le qualità che accomunano gli esseri viventi, piuttosto: “Vogliamo sapere il perché dei caratteri che accomunano gli esseri viventi, non solo quali li accomunano”. E quel perché, lo si può osservare attraverso la lente della fisica, “che svela l’esistenza di un’eleganza e un ordine sorprendenti nella biologia”. L’inizio così semplice di cui al titolo di questo volume, infatti, secondo l’autore dipende da soli quattro principi fisici alla base del mondo vivente. Torna in mente il celebre aforisma di Ernest Rutherford: “Nella scienza esiste solo la fisica, tutto il resto è collezione di francobolli”. Mirabile Dictu, da un premio Nobel per la Chimica… 

Ma vediamoli nello specifico. Tra i quattro concetti o motivi, come li definisce Parthasarathy, che emergono ripetutamente nelle esplorazioni biofisiche, il primo è l’autoassemblaggio, ovvero “l’idea che le istruzioni per la costruzione dei componenti biologici – siano essi molecole, cellule o tessuti – siano codificate nelle caratteristiche fisiche dei componenti stessi”; più specificamente, che le caratteristiche fisiche dei materiali biologici spesso costituiscono esse stesse le istruzioni. L’esempio proposto è quello delle bolle di sapone, dove nelle eventuali giunzioni non se ne incontrano mai più di tre giacché le forze fisiche spingono le pellicole di sapone a ridurre al minimo la loro superficie, con confini a forma di una “H” piegata, osservazione che fu già del XIX secolo, da parte del fisico belga Joseph Plateau. Che c’entrano le bolle di sapone? Beh, sono più di cento anni, oramai, che gli scienziati hanno notato come la disposizione delle cellule adiacenti in tutti i tipi di tessuti assomiglia a quella delle bolle di sapone: coincidenza o riflesso di meccanismi sottostanti simili? Un gruppo di ricerca dell’Università di Kyoto, usando mosche mutanti che sviluppavano 1, 2, 3, 4, 5, e 6 cellule fotorecettrici hanno riscontrato le stesse disposizioni che si trovano negli assemblaggi di 1, 2, 3, 4, 5 e 6 bolle di sapone adiacenti: “Sembra che la mosca ricorra a meccanismi fisici generali di minimizzazione della superficie per organizzare queste cellule fondamentali della sua retina […] le cellule, come le bolle di sapone, si assemblano da sole [ovvero…], la natura colloca le materie prime sul posto e confida che le leggi della fisica le mettano insieme correttamente”.

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Secondo motivo: il circuito di regolazione. I circuiti decisionali non sono una caratteristica del solo mondo macroscopico, ma si manifestano anche nelle attività microscopiche delle molecole della vita: “i mattoncini umidi e mollicci della vita si assemblano in macchine in grado di percepire l’ambiente, eseguire calcoli e prendere decisioni logiche”. Terzo concetto: la casualità prevedibile. “I processi fisici che sottostanno alle macchine della vita sono fondamentalmente casuali ma, paradossalmente, i loro risultati medi sono prevedibili in maniera attendibile”. Si tratta di una questione che la fisica ha affrontato da tempo e più volte, dando conto dell’emergere di caratteristiche “resistenti” da una situazione iniziale caotica: la luce di una stella che brilla con intensità e colore costanti, per esempio, nonostante l’immane caoticità del suo interno ribollire. Infine, l’ultimo tema biofisico ricorrente è quello della scala, o scalabilità: ovvero l’idea che le forze fisiche dipendono dalle dimensioni e dalla forma in modi che determinano le forme a disposizione degli organismi viventi, in crescita e evoluzione: “la gravità e le altre forze si modificano in maniera scalare in modi diversi in rapporto alle dimensioni, e di ciò occorre tener conto nel progettare gli edifici”. Ergo: aumentare semplicemente la scala di un edificio piccolo, mantenendo le proporzioni, è un’operazione fallimentare.

Il semplice inizio di cui al titolo, quindi, anche quello originale, So Simple a Beginning: How four Physical Priciples Shape Our Living World, non corrisponde all’origine della vita o alla formazione del nostro pianeta, bensì all’emergere primordiale delle leggi fisiche che determinano il nostro universo. Just simply as that!

Di conseguenza – in ordine e in scala, potremmo dire –, l’indice e lo sviluppo della trattazione si avvia da “gli ingredienti della vita”, partendo dal DNA, passando per il “vivere alla grande”, dove meglio si comprendono le questioni di scala (Quant’è grande un cavallo?; Perché un batterio non può nuotare come una balena?; Perché gli elefanti non possono saltare?), per giungere infine agli “organismi progettati”, a come disegnare il futuro. Si parte, insomma, dal DNA in quanto insieme di istruzioni astratte, “una sostanza dotata di forma e struttura le cui proprietà fisiche sono strettamente connesse alle sue funzioni”, e si arriva alla sua possibile modifica, a quella dei genomi, all’eventualità dell’editing degli embrioni, all’auspicabile, o meno, ingegnerizzazione dell’ecosistema. E la lettura di questo volume è ricca di informazioni e esempi e suggestioni che ce lo fanno raccomandare, volendo e potendo anche scegliere, a seconda delle personali curiosità e degli interessi specifici: i libri si leggono anche così, potremmo dire, à la carte

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Oppure possono essere l’occasione per rispolverare vecchie letture, come Il principio antropico (più propriamente, The Anthropic Cosmological Principle) di John D. Barrow e Frank J. Tipler, edito nella Biblioteca Scientifica Adelphi, già nel 2002, ma la cui edizione originale inglese è del 1986: e sono già quasi quarant’anni. A memoria e nella conoscenza (com’è ovvio sottolineare, limitatissima) di chi scrive, si tratta dell’opera più completa e esaustiva che tenta di rispondere alla domanda delle domande, quella a un tempo iniziale e definitiva: perché siamo come siamo, perché tutto è come è? Come funziona la vita, appunto. Risposta, “forte”: siccome il mondo è così, allora è così che dev’essere fatto. In maniera meno risoluta: se non ci fossero quelle leggi fisiche che abbiamo scoperto, se non esistessero quei valori nelle costanti di natura che siamo riusciti a misurare, la biologia, la vita e la vita intelligente non sarebbero possibili. Just simply as that

È il nucleo del principio antropico debole. È un teorema? – si chiede il John A. Wheeler che firma la Premessa, quel John Wheeler che collaborò con Bohr e Fermi, che lavorò al Progetto Manhattan, che coniò il termine “buco nero”, che con la formula “it from bit”, affermò il carattere dell’Informazione, come grandezza fondamentale, ovvero che non esiste realtà fisica senza prima una struttura informativa, che ebbe come allievi, Richard Feynman e Kip Thorne, tra gli altri – No. È una mera tautologia, equivalente all’affermazione banale: “Dal momento che noi esistiamo, l’universo deve essere tale da permettere a un certo punto della sua storia l’evoluzione della vita, in qualche luogo?” No. È un’affermazione verificabile sulla base delle sue previsioni? Forse. E allora come si colloca il principio antropico? A tale domanda ogni lettore di questo libro affascinante vorrà dare la proprio risposta”. L’incontro della filosofia con la scienza. Un incontro che si celebrò, tra le altre innumerevoli occasioni, anche in una memorabile edizione di Spoletoscienza del 1990, quando del e sul principio antropico debole, John Barrow discusse con Umberto Eco, che gli proponeva/opponeva l’argomento ontologico di Sant’Anselmo. Quando Barrow e Tipler scrivono, “I valori misurati di molte grandezze fisiche e cosmologiche che caratterizzano il nostro universo sono circoscritti dal fatto di dover essere osservati da un luogo dove esistono condizioni adatte per l’evoluzione biologica e in un’epoca cosmica successiva ai tempi astrofisici e biologici indispensabili per lo sviluppo della biochimica e di un ambiente capace di sostenere la vita”, cosa intendono nello specifico? Per esempio che “La classica scoperta di Hubble sull’espansione dell’universo indica che la sua grandezza è inestricabilmente connessa alla sua età. L’universo visibile ha un’estensione di 15 miliardi di anni luce perché ha un’età di 15 miliardi di anni. Un universo grande quanto una galassia conterrebbe materia bastante a formare più di 100 miliardi di stelle simili al Sole, ma la sua espansione sarebbe durata meno di un anno”. Troppo poco, per la vita. L’alchimia stellare basata sul carbonio richiede oltre 10 miliardi di anni: “…in un universo sensibilmente più piccolo non ci sarebbero astronomi. C’era bisogno di questa vastità perché fosse possibile l’evoluzione anche di una singola forma di vita basata sul carbonio”. La vertigine della versione “forte” è difficilmente eludibile: se il mondo è così, è perché così deve essere fatto. Nella versione che ci propone Raghuveer Parthasarathy, ogni organismo è plasmato dalle forze fisiche dell’universo; le ossa del leone e dell’antilope, per esempio, sono regolate dalla forza di gravità e il delfino potrebbe essere un delfino solo in una grande dimora liquida. “Aldilà delle apparenze superficiali, per quanto meravigliose, c’è una struttura profonda ed elegante che fa funzionare la vita e che ora cominciamo ad apprezzare”.

Recensire un libro, nuovo e interessante, che conta un po’ meno di 300 pagine, suggerendo la lettura di uno che supera le 700 (un volumone, per il quale scherzosamente, in esergo, gli autori riportavano una battuta del Duca di Gloucester, quando gli fecero omaggio del secondo volume di Declino e caduta dell’Impero romano: “Ah, Mr Gibbon, un altro bel malloppone. Ma quanto scrive, lei!”), oltretutto pensato e scritto alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, può sembrare una perversione, un po’ sadica, del recensore. Ma è invece l’espressione della felicità che ogni lettore condivide con chi scrive e con chi legge: la gioia altrimenti inspiegabile dei rimandi, delle citazioni, degli echi argomentativi, e più ancora della condivisione di tutto ciò. Quella stessa che, al paragrafo dei ringraziamenti, di un’opera come The Anthropic Cosmological Principle, mette insieme un parterre de rois che conta, tra i molti altri: Sidney Brenner, Brandon Carter, Paul Dirac (!), Francis Drake, Freeman Dyson, Martin Gardner, Stephen J. Gould, Steve W. Hawking (!), Fred Hoyle, John Maynard Smith, Ernest Mayr, Roger Penrose, Martin J. Rees, Carl Sagan, Denis W. Sciama (il maestro di Barrow), John Silk, e il John A. Wheeler già ricordato, tutti a fornire diagrammi, a leggere capitoli, a impreziosire la riflessione con suggerimenti e discussioni. Una festa. 

Chi scrive non sottovaluta la competizione che riguarda anche i protagonisti dell’impresa scientifica: ci sono interessi, a volte molto interessati, ci sono faide accademiche, malumori e dispetti personali, ci sono ego difficilmente contenibili, ci mancherebbe, ma rimane il fascino e la meraviglia di fronte a un’impresa di conoscenza che non ha eguali per condivisione e collaborazione. Nella spettacolare catastrofe della lettura di ciò che l’informazione ci seleziona quotidianamente, come sfondo delle nostre individuali esistenze, può venire utile un contro esempio cooperativo, uno spazio altro: “Nella mente di ogni essere pensante vi è uno spazio riservato, un museo delle meraviglie. Ogni volta che ne varchiamo la soglia, la nostra attenzione viene catturata dall’oggetto più straordinario in assoluto, questo strano universo nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”. Così per John A. Wheeler. Mi permetterei di aggiungere, quell’ancor più straordinario oggetto che è il cervello, senza il quale nulla può essere pensato, vissuto, esistito, nemmeno l’Universo. Che l’impresa condivisa di alcune delle migliori “menti” in circolazione, che la ricerca dei principi e degli inizi non conosca confini geografici, limiti di tempo, barriere linguistiche, differenze culturali, lascia ben sperare. Nonostante tutto. 

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