Storia poco stupefacente della scienza
Da Platone a Friedrich Nietzsche, da Avicenna a Oliver Sacks. Incassato, si presume, il successo di Storia stupefacente della filosofia (del 2022), Alessandro Paolucci torna in libreria, a distanza di un anno e poco più, con la seconda puntata, dedicata alla Storia stupefacente della scienza (Il saggiatore, 2023): un prodotto editoriale. Qualora fosse altrettanto premiato, si indovinano ulteriori puntate: sulla musica, sulla letteratura (troppo facili?), magari sull’economia e la politica. Alla domanda dell’introduzione, “che cosa c’è di più ufficiale e istituzionale (e falso) di questa immagine stereotipata dello scienziato nerd?” – per intenderci, quella di Talete che cade nel pozzo, quella offerta da cinema e televisione, con il Doc Brown di Ritorno al futuro fino allo Sheldon Cooper di The Bing Bang Theory, in sostanza l’immagine dello scienziato “Cenerentola al contrario, che più ne sa e più è imbranato, disadattato, strano” – Paolucci prova a rispondere sostenendo che la Scienza “è un secolare lavoro di gruppo portato avanti dalla comunità globale degli scienziati per il progresso dell’umanità, scienziati che però sono molto meno tranquilli di quel che si creda, sono competitivi e si marcano a vicenda, hanno degli interessi, magari qualcuno cerca di confutare la teoria dell’altro per motivi poco scientifici (invidia, antipatia, forse anche ossessione) […] magari combinando dei guai”. Pur ribadendo che, alla fine, le teorie che non reggono cadono mentre quelle solide resistono. Di qui, e il salto non è immediato, la conferma che anche tra gli scienziati, come tra i filosofi, ve n’è stato e ve ne sono di coloro che usano sostanze stupefacenti ogni volta che ne vedono l’utilità, giocando fino in fondo il gioco della scienza, “perché la purezza dello scienziato conta solo per chi cerca i santoni, per chi non ha capito cosa è in gioco davvero”. Di qui l’’interesse di Paolucci per gli imperfetti, gli irresponsabili, gli scatenati tossici della scienza. Di qui, infine, l’affermazione – si presume ironica – per cui “dentro” la scienza c’è poca roba, “un algoritmo, una ricetta una serie di passaggi che funzionano, una catena di montaggio che produce sapere affidabile […] tutto qua”, mentre dentro gli scienziati “… ecco: dipende da cosa assumono”.
Forse, e prima di tutto, il titolo più corretto sarebbe stato “storie di alcuni scienziati con gli stupefacenti” – anche se il recensore non ha dubbi che, così titolando, l’appeal editoriale crolla –, che scomodare “la Storia” per una saltellante carrellata che da Abu Ali Ibn Sina – Avicenna, fine X secolo, passa a Paracelso (Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim), all’inizio del XVI, a Benjamin Franklin giusto due secoli dopo, a Humphry Davy, vissuto a cavallo tra XVIII e XIX, fino sostanzialmente ai giorni nostri, con il matematico ungherese Paul Erdos, il chimico Albert Hofmann, il difficilmente definibile John Lilly, l’astrofisico Carl Sagan, il Nobel per la chimica Kary Mullis, e il neurologo, psichiatra e superbo divulgatore scientifico Oliver Sacks, gli ultimi sei (su dieci complessivi protagonisti, tanti quanti i capitoli del libro), tutti vissuti nel ‘900… beh, tanto valeva, forse, limitarsi al XX secolo: il respiro della storia è un po’ più profondo e articolato. I capitoli ci raccontano delle comuni passioni di tutti i sopra menzionati per le droghe e, in genere, gli eccessi, il vino, l’oppio, il sesso sfrenato, con l’idea di dissacrare le loro figure allo scopo di renderle più umane: compito rivendicato dall’autore in alcune interviste a presentazione della prima puntata sui filosofi, quello di dire la verità, in luogo di perpetuare un’immagine stereotipata, istituzionale, e “falsa”, come all’introduzione già citata. Se l’obiettivo sia raggiunto, è giusto che a giudicarlo sia il lettore, magari interrogandosi sull’effettiva necessità del compito stesso. Sulla quale necessità, chi recensisce, ha già fatto intuire più d’un dubbio. Senza perciò compiacersi dell’alzata di sopracciglio, ché le ragioni per cui un lettore possa avvicinarsi alle vite di uno o più scienziati (o filosofi), possono essere le più imprevedibili e personali, e tutto ciò che porta nuovo pubblico in libreria è da salutarsi con attenzione.
E però, l’occasione è buona per una riflessione più generale. Che significato ha rileggere la storia (qualche storia) non tanto con la consapevolezza dell’oggi – che è tema che interroga spesso molti storici di professione – ma con la lingua, il gergo, i modi del discorso della attuale quotidianità? Raccontare di Avicenna, con riferimento all’eccesso di desiderio sessuale, scrivendo “stando al gossip, sembra che questa fosse proprio la sua condizione”, ce lo avvicina? Riferire di una supposta leggenda dell’antimonio (un metallo) reso celebre da un presunto monaco tedesco del XV secolo, Basilio Valentino, che vedendo ingrassare dei maiali che se ne cibavano, lo avrebbe dato ai suoi compagni monaci che ne morirono intossicati, “da qui deriverebbe antimoine, che voleva dire anti-monaco”… per poi concludere, “È probabile che questo aneddoto sia inventato come l’esistenza dello stesso Basilio Valentino, ma l’accaduto è verosimile, l’antimonio non è esattamente uno snack e disgrazie del genere potevano capitare facilmente a quei tempi”… in che senso l’accaduto è verosimile? quale verità ci rivela un aneddoto molto presumibilmente inventato? Nell’informare che Paul Erdos ha lasciato ai posteri 1526 paper, “come dicono gli esperti”, ovvero “per dirla sempre in modo tecnico, è tanta roba”, a chi si strizza l’occhio? Usare parole del gergo dell’odierna quotidianità, come nerd, gossip, influencer, petaloso, piacione, blastare, crash test, scoop, avere “la fregola” (per la chimica), “stavano per volare gli stracci” (con riferimento a una bufala che riguardava Francis Crick, anche questa, in quanto bufala, confermata da Paolucci), dire che Avicenna “era alla soglia dei sessant’anni, eppure ancora ci dava dentro”, in che modo traduce storie di altri tempi nella nostra?
Dire di Carl Sagan che “quel drittone già da qualche anno era un devoto dell’erba”, del DNA, che “è la chiave della vita, nel senso della chiavetta USB con dentro un corposo manuale in pdf con tutto quello che occorre sapere”, di Freud che “aveva puntato tutto sulla cocaina”, quanto aiuta la migliore comprensione dell’impresa scientifica? Davvero la “meravigliosa truffa pseudoscientifica” del farmaco meraviglioso, che altro non era che oppio messo a macerare nel vino, “dall’antica Roma attraversò i secoli, passando da un influencer all’altro” ? Come dire, da Galeno alla Ferragni!?
Se l’idea è quella di intrattenere, divertendolo, qualche lettore che non disprezza la traduzione nel linguaggio “gggiovane” di storie e personaggi del passato (anche recente), qualche siparietto fa affiorare il sorriso, e Paolucci – nelle interviste che rilascia, con riferimento alla sua popolarità sui social con l’account Dio@ – si conferma un quasi giovane divertente e sufficientemente disincantato. E però l’idea, o la trovata editoriale, qualche rischio lo corre. Non è tanto questione di snobismo lessicale, che chi scrive continua a non capire perché si debba usare gossip in luogo di pettegolezzo o maldicenza (e vogliamo dire dell’ormai incontenibile “spoilerare”?). Più che altro, nell’individuare come nerd un pensatore o uno scienziato del passato, più o meno remoto, si lascia intendere che le parole e le categorie con le quali interpretiamo (o almeno proviamo) il presente, sono quelle ultime, che “non potevano non essere”, come se l’esito di cui siamo la testimonianza, sia l’unico attendibile – per essersi avverato –, mentre l’interesse e il piacere di leggere la storia dovrebbe risiedere, principalmente, nel trovare tutti quegli snodi, molti di quei momenti decisivi che avrebbero potuto portarci in un'altra direzione, altrettanto legittima.
Quando Umberto Eco, nel raccontare le “esperienze di traduzione”, titola il suo libro del 2003, Dire quasi la stessa cosa, già nella copertina ci avverte che la traduzione è per forza di cose una riformulazione, che aggiunge significato quanto non ne può che togliere. E se si traduce da lingua a lingua, lo si fa anche da lingua specialistica, quella dei paper scientifici, a una più adatta al grande pubblico, mai riuscendo a dire “la stessa cosa”: se va bene, quasi! Allo stesso modo, la traduzione letterale di ciò che è stato in tutto quello che oggi è e che c’è, appiattisce la profondità del passato in un generico discorso di attualità, che non ci restituisce altro che una forzatura, una lettura impropria e fuorviante. Senza contare che se la storia non ci conferma altro che il nostro presente, a che scopo interessarsene? Tanto vale concentrarsi solo su ciò che accade. Che è, infatti, quello che accade.
La necessità di desacralizzare, con l’idea di rendere più umano, chiunque abbia conquistato notorietà, sembra anch’essa figlia del nostro presente. Può sembrare opportuna per molti personaggi televisivi, per quasi tutti gli eroi della rete: svelare le debolezze del “potente” o del “famoso”, magari spiando dal buco della serratura, può soddisfare colui che quella notorietà la crede usurpata. È una “postura”, come si usa dire di recente, piuttosto alla moda, così magari rivelando l’impostura che, vi e si, nasconde. E può essere una chiave, certo, che però meriterebbe una ricerca più attenta, una raccolta delle fonti, il confronto delle testimonianze, la ricostruzione filologica, la messa in prospettiva, l’avvertenza bibliografica e quella che continuamente ricorda il rischio deformante della lettura ex post. Serve l’attitudine e la professione dello storico. Altrimenti, forse, meglio accontentarsi di raccontare qualche storia, magari, perché no, ricorrendo all’immaginazione. Basta saper scrivere. Che non c’è, tra i non pochi chimici raccontati da Paolucci, nessuno che si presenti più interessante, irregolare, irresponsabile, scatenato e divertente di Walter White – Breaking Bad.