Catena

6 Agosto 2015

“Quelle catene di ragionamenti, lunghe, eppure semplici e facili, di cui i geometri si servono per pervenire alle loro più difficili dimostrazioni, mi diedero motivo a supporre che nello stesso modo si susseguissero tutte le cose di cui l’uomo può avere conoscenza” (Cartesio, Il discorso sul metodo, 1637).

 

Il progetto della Ratio cartesiana si affida alla procedura inferenziale del dimostrare matematico: conquistata l’evidenza prima, la certezza di una “salda roccia” su cui fondare la verità, secondo il modello assiomatico e deduttivo della geometria euclidea, le regulae del pensare si snodano  seguendo una consecuzione monodroma, passando anello dopo anello da premesse a conseguenze. Che era poi già l’intento del sillogismo aristotelico, di cui ancora si ricorda la prefazione di Primo Levi a Se questo è un uomo: quando la convinzione latente nell’animo umano, per cui “ogni straniero è nemico”, diventa «premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager». Anche nel metodo, Cartesio segna il trionfo del meccanicismo: le modalità del conoscere rispecchiano la successione lineare del nesso causale, grazie al quale in natura il contatto fra i corpi produce la “macchina” degli eventi. Come nell’esempio humiano, l’urto provocato da una palla da biliardo ha per effetto il moto di un’altra, e così via, come perle lungo il filo di una bergsoniana collana o pedine di un domino che si rovesciano le une dopo le altre.

 

Enrica Passoni

 

Nella sua fase di rigoroso interprete dello strutturalismo (con modalità prossime a Lévi-Strauss), Michel Serres ha indicato nella metafora/modello della catena lo schema dominante dell’età moderna (quella che i Francesi chiamano l’età classica). Struttura elementare di riferimento, la catena disegna il fronte morenico del Paese d’Enciclopedia del Seicento: essa rientra in quell’invariante strutturale che Serres definisce il punto fisso di riferimento, i cui avatar percorrono tutti i domini del sapere teorico o pratico. Il punto fisso può essere punto di equilibrio o di appoggio della statica, nella bilancia e nei bilancieri d’orologio (Roberval e Huyghens) come in idrostatica (Galileo e Pascal); centro di gravità, vertice del cono da cui si disegnano le sezioni, punto di vista da cui si proiettano solidi o si tracciano ombre (Desargues), in ogni sistema di rappresentazione, si tratti di teatro o di teorie della conoscenza. Il Tempo e la storia hanno un’origine, il cosmo possiede un punto fisso, fede comune a tolemaici e copernicani: che sia la Terra o il Sole, non si cancella comunque la convinzione che quel punto ci debba essere, non necessariamente centrale (gli storici della scienza, come Thomas Kuhn, ci ricordano che la teoria copernicana era eliostatica più che eliocentrica). E così, non è senza ragione che Severo Sarduy (Barroco), fra altri, ha potuto sostenere che la vera rivoluzione non è quella copernicana, bensì quella kepleriana, dove il centro si dis-perde tra i fuochi dell’ellisse barocca.

 

Si tratta in generale di fissare un punto d’origine (come negli assi che, impropriamente, diciamo cartesiani) che sia riferimento per la rappresentazione e la misura, solida base e fondamento di verità: elemento irriducibile di stabilità, sostanza (sub-stare) che diviene con Descartes il soggetto (sub-jectus), l’Io che di sé può dire “penso, dunque sono”. E vi possiamo forse leggere un’eco lontana di quel punto da cui transita l’asse del mondo che Mircea Eliade designa come l’ombelico dello spazio sacro in tutte le religioni arcaiche: terra purificata su cui si è fatta tabula rasa. Quel primo termine è l’ancoraggio da cui partono le sequenze dei fatti e le conseguenze dei pensieri, chiodo a cui è fissata la catena delle ragioni, e punto archimedeo: “Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un sol punto fisso e immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile” (Descartes, Meditazioni metafisiche).

 

Chi occupa questo luogo privilegiato è nella postazione del dominio. È il primus che conosce soltanto successori, nulla lo precede o gli sta sopra, sogno del regno sempre perseguito dalla filosofia, ultima istanza e dunque supremo organo di giudizio: dall’alto per gettare la propria luce chiarificatrice, da sotto per dare fondamento (episteme: quel che si regge in virtù della sua evidenza) ed essere garanzia di verità, magari di fronte al tribunale della ragione. La catena disegna una struttura d’ordine, in senso matematico, scandisce un prima e un poi, un sopra e un sotto, una causa e un effetto, ma anche una gerarchia di potere. Lungo il ruscello che scorre irreversibile verso valle, il lupo affamato sta più in alto dell’agnello; ma è il primo che può accusare l’altro d’intorbidargli l’acqua che beve, o di aver sparlato di lui, e se non è stato l’agnello a farlo, sarà stato suo padre, e così via lungo l’altra catena, quella delle generazioni. La favola di La Fontaine (che riprende Fedro ed Esopo) mette in figura l’ordine invincibile del monarca assoluto: chi sta in alto, vicino alla sorgente, primo termine della catena numerica, controlla il corso per intero, fa degli altri solo dei successori. Così, la Ratio cartesiana, stando alle spalle di tutti, può giudicare del vero e del falso: l’Io ha conquistato il posto del lupo, e la sua forza della sua ragione è la ragione del più forte. 

 

L’epigrafe che Paul Valéry volle apporre al suo Monsieur Teste, incarnazione di un redivivo Cartesio, ricorda che “Vita Cartesii est simplicissima”, eco del detto scolastico, “simplex sigillum veri”. Il semplice, quel che alla lettera si piega una sola volta, racchiude al suo interno il minimo di opacità: tutto può essere agevolmente di-spiegato, reso trasparente sul modello della res cogitans. E per esercitare la propria mente a procedere con metodo, nulla di meglio, suggerisce la decima Regola per la direzione dell’intelletto, che dedicarsi a quelle pratiche semplici e ordinarie in cui si rintracciano comunque ordinamenti regolari. Cartesio ricorda «gli artigiani che tessono tele e tappeti», le «donne che ricamano o intrecciano fili con infiniti modi di varia contestura»; e poi tutti i giochi dei numeri (oggi, il sudoku o i cruciverba), fino al ritrovamento del codice con cui si comunica un messaggio segreto, «leggere uno scritto occultato in caratteri ignoti». Ma noi scorgiamo in queste attività, in grado di addestrare l’intelletto alla perspicacia, modelli già più complicati rispetto alla linearità unidimensionale della catena, disposizioni in reticoli calati in uno spazio bi-dimensionale.

 

E se il soggetto si rivela custode infedele di una verità sfuggente, non per questo può rinunciare alla ricerca di un riferimento stabile, per la morale e per la verità, evitando il relativismo che rende mutevoli i criteri al di qua e al di là dei Pirenei: “Chi vive in modo sregolato dice a chi vive nella regola che è lui ad allontanarsi dalla natura, mentre egli è convinto di seguirla; simile in questo a coloro che si trovano su una nave e credono che quelli che sono a riva stiano fuggendo. Il linguaggio è uguale da tutti i lati. Bisogna avere un punto fisso per giudicare. Il porto giudica quelli che sono sulla nave; ma dove troveremo noi un porto nella morale?” (Pascal, Pensieri 383/697). L’ideale è mantenere un’invarianza pur nel mutamento, perché sia possibile una conoscenza universale, sia pure, come in Leibniz, dal punto di vista onnicomprensivo di Dio, monade suprema: “Queste verità eterne sono il punto fisso e immutabile sul quale tutto scorre”.

 

Un metodo, una “via per”, un per-corso, suggerisce l’etimo, disegna appunto un cammino, ci indica come procedere, quali procedure seguire. Il metodo cartesiano è una via diritta: la via che il Discorso suggerisce al viandante smarritosi nella foresta, quella con cui sconfiggere la paura di restare prigioniero del labirinto intricato e oscuro delle ramificazioni. Procedere sempre in linea retta, seguendo il cammino più breve, riducendo a zero ogni perturbazione, ignorando ostacoli che obbligherebbero a scartare: la riflessione, in senso mentale, vorrebbe far propria la strada che segue la riflessione, in senso ottico. La luce obbedisce a leggi di minimo, l’immagine allo specchio segue il percorso più breve, quello in cui l’angolo d’incidenza è uguale all’angolo di riflessione. La via cartesiana, concatenazione di maglie nella catena, serie strutturata dalla relazione d’ordine, obbedisce all’economia della natura, sarto avaro (diceva Ernst Mach) che non spreca tessuto: la strategia è ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, correre come una luce che non getta ombra, per conseguire la massima chiarezza nella comprensione e la massima efficacia nell’azione. Sta in questo, ricorda Serres, il trionfo dell’età classica: la strategia direttissima è diventata l’unica ragione che conosciamo. Si tratti di viaggiare per terra o per mare, di apprendere la matematica, di sfruttare il tempo, o di entrare in guerra, applichiamo sempre la tattica degli extrema, con la quale ci vantiamo di ottimizzare le nostre pratiche. La ragione, l’efficacia, la violenza giacciono insieme sotto questa legge economica, diventata norma necessaria e normalità condivisa.

 

Enrica Passoni

 

All’ipotiposi della catena si è fatto ricorso anche per disegnare le variazioni che si rintracciano nel mondo naturale, per illustrare la disposizione delle specie, fisse e non modificate dal tempo della creazione divina. I corpi si succedono come anelli della “grande catena dell’essere” che conduce dai minerali all’uomo (e forse agli angeli); pensata in senso verticale, essa equivale alla scala naturae, dove ogni forma possibile nella mente di Dio finisce per passare all’atto, secondo il principio di pienezza. È la dottrina che dal Timeo platonico giunge alla cosmologia medioevale, ha spiegato lo  storico delle idee Arthur Lovejoi: la perfezione del divino artefice si espande per la fecondità del Bene che gli è propria e, in virtù del principio di continuità di matrice aristotelica, lungo la Catena si procede per variazioni minime e sfumature impercettibili. Nel V secolo, Macrobio, nel suo Commento al ciceroniano Somnium Scipionis, espone le dottrine plotiniane lasciandole in eredità alla cristianità medioevale; e alla metafora della catena associa quella dello specchio. La luce divina illumina tutto e in ciascuna cosa si riflette, «come un solo volto potrebbe riflettersi in molti specchi successivi»; tutte le cose si dispongono in successione continua, per cui risultano tutte fra loro connesse, legate senza lacune, «dal sommo Dio fino all’ultima feccia delle cose […]. E queste è l’aurea catena di Omero che Dio […] volle pendesse dal cielo alla terra». La natura non fa salti, dirà ancora Leibniz: fra le cose naturali vi è una transizione insensibile, gioco di sfumature più che di nette campiture di colore. E nella sua ontologia, ogni monade è appunto uno specchio, un centro di energia e di rappresentazione (di rispecchiamento più o meno chiaro) dell’intero universo, fino a giungere a Dio, l’integrale dei punti di vista: «è necessario che tutti gli ordini di esseri naturali non formino se non una sola catena, in cui le diverse classi, come altrettanti anelli sono […] strettamente connesse le une alle altre». E dunque da un qualunque anello si può risalire all’intero, ogni prospettiva particolare e parziale è uno sguardo sul tutto cui appartiene, al modo di un ologramma.

 

Fin dal Settecento, ha mostrato con dovizia di particolari lo storico del pensiero scientifico Giulio Barsanti, il modello della Catena/Scala si indebolisce, e lascia il posto all’immagine dell’Albero (poi ripresa dalle dottrine evoluzioniste), grazie alla mediazione di una terza immagine, la Mappa. Appare, in effetti, sempre più arduo disporre tutti gli esseri lungo una linea retta, data l’esistenza di molteplici affinità tra i corpi; e poi la gerarchica continuità della Scala è indebolita dall’incerta esistenza di anelli intermedi (i famosi anelli mancanti, in particolare fra animali e uomo) che dovrebbero garantire l’assenza di vuoti e un’ordinata transizione fra  i regni naturali. Quando Linneo, a metà Settecento, cercherà di accostare gli esseri non uno dopo l’altro, ma uno accanto all’altro, dovrà sostituire alla Scala l’immagine della Mappa geografica; la natura è una sorta di labirinto, fra le specie si svelano affinità molteplici, si tessono relazioni incrociate che si possono disegnare in forma di grappoli. Abbandonata la linearità unidimensionale della catena, saranno mappa, rete, tessuto o tavola (come diranno prima Buffon e poi Mendeleev) a fornire i  modelli con cui il naturalista-cartografo dispone gli elementi su di un territorio aperto, a due dimensioni, dove appaiono costellazioni nuove e impreviste.

 

Ma che la natura si disponga a forma di catena può rassicurare anche in termini morali. Rousseau invita l’uomo che voglia essere saggio e felice ad accontentarsi del posto che gli è stato assegnato nella grande catena dell’essere. E Italo Calvino, in cerca di un’ottica non antropomorfa in cui l’uomo si guardi come animale più evoluto in mezzo ad altri animali, confida che il nostro senso di responsabilità verso l’universo venga accresciuto dal riconoscimento che “siamo anello di una catena che parte a scala subatomica o pre-galattica”. Solo così possiamo dare ai nostri gesti e ai nostri pensieri il senso della continuità con ciò che ci ha preceduto e ci seguirà.  

 

Alla catena restano fedeli quanti immaginano un universo regolato, dominabile dalla razionalità umana, come nel caso del romanzo giallo che induce il lettore, osservava Leonardo Sciascia, alla “condizione di assoluto riposo intellettuale”. Siamo  tranquillizzati dal sapere che ci sono dati gli elementi per scovare il colpevole, a differenza di quanto accade nella realtà, molto simile al “più assoluto giallo che sia mai stato scritto, un giallo senza soluzione” (è sempre Sciascia a notarlo), cioè il gaddiano Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957). “L’indagine poliziesca è una buona metafora della ricerca filosofica e scientifica”, ha osservato Renato Giovannoli. La geometria del “giallo” classico presuppone un universo obbediente al detto hegeliano che fa coincidere reale e razionale: così il Dupin (altro avatar di Cartesio) di Edgar Allan Poe può risolvere l’enigma della rue Morgue stando nel chiuso della sua stanza, lo Sherlock Holmes di Conan Doyle può risalire al responsabile dagli indizi lasciati sul luogo del crimine, nello Studio in rosso. L’indizio è una traccia rilevabile da cui può muovere una catena di abduzioni, di passaggi logicamente fondati, che conducono inevitabilmente alla scoperta del colpevole, perché, afferrato un anello, ci si può muovere verso tutti gli altri. Il razionalismo conandolyano utilizza spesso l’immagine della catena, e la si ritrova anche nel Poirot di Agatha Christie; ma in realtà, Holmes presuppone un mondo in cui tutte le cose siano tra loro connesse, in cui “tutto si tiene” (idea leibniziana, e prima ancora stoica), per cui basta afferrare un solo anello per risalire all’intera catena.

 

Come i lettori del giallo classico, speriamo che la legge del mondo obbedisca all’ordine narrativo, che «l’opprimente varietà della vita» si riduca ad una sola dimensione, in senso matematico. Ci sentiamo più tranquilli, notava Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità di Musil, quando possiamo dire “dopo che fu successo questo, accadde quest’altro”: tutto sembra allora scorrere lungo un filo, il famoso filo del racconto, dove quel che accade assume parvenza di regolarità. La successione semplice degli anelli della catena dà l’impressione che il “corso” della vita sia protetto dal caos; ma ormai gli eventi del nostro tempo non seguono più un “filo”, si allargano in una superficie sterminata. Siamo non-cartesiani, in un senso nuovo dopo Bachelard: alla sequenza di segmenti lineari, all’ordine univoco delle ragioni, abbiamo definitivamente sostituito una molteplicità di catene, collegate le une alle altre fino ad intrecciarsi in cammini aggrovigliati. Siamo passati da Cartesio a Leibniz, dall’ipotiposi della catena a quella della rete, suggeriva l’altro ingegnere-filosofo-scrittore del Novecento, Carlo Emilio Gadda, nella Meditazione milanese.

 

 

Per saperne di più leggi:

 

Giulio Barsanti, La Scala, la Mappa, l’Albero, Sansoni 1992;

Carlo Emilio Gadda, Meditazione milanese, 1928, Einaudi;

Elio Giovannoli, Elementare, Wittgenstein, Medusa 2007;

Arthur Oncken Lovejoy, La Grande Catena dell’Essere, 1936, Feltrinelli;

Robert Musil, L’uomo senza qualità, 1930-42, Einaudi;

Sarduy Severo, Barroco, il Saggiatore, 1980;

Michel Serres, “Il messaggero”, trad. it. in G. Polizzi e M. Porro (a cura di), Serres, «Riga», 2015;

Michel Serres, “Point, plan (réseau), nuage” in Id., Hermès IV. La distribution, Éditions de Minuit 1977;

Michel Serres, “Le jeu du loup” in Id., Hermès IV, idem;

Leonardo Sciascia, “Breve storia del romanzo poliziesco”, in Id., Cruciverba, Adelphi 1988.

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