La scuola come rete di giochi linguistici e iniziatici

20 Agosto 2012

Un recente scambio su queste pagine a proposito delle ‘tesine’ di maturità, sorto dall’intervento di Giorgio Mastrorocco, mi ha suggerito le riflessioni che seguono. Uno dei problemi della nostra scuola, evidenziato dagli argomenti scelti dai candidati, è il confrontarsi con contenuti stereotipati (all’interno di un canone da ridiscutere), in fin dei conti quasi sempre deludenti per chi li valuta e per gli studenti che ad essi si dedicano, spesso senza adeguate motivazione e strumentazione.

 

Il filosofo Ludwig Wittgenstein, nella fase matura della sua riflessione, dopo un periodo di insegnamento come maestro di scuola elementare e di lunga osservazione dei bambini, era giunto a formulare una teoria del linguaggio come utensile legato all’uso all’interno di un contesto: in tal senso ci muoviamo in una costellazione digiochi linguistici, sistemi chiusi e autoreferenziali all’interno dei quali, diverse forme di vita istituiscono e scambiano significati secondo regole e codici tendenzialmente predeterminati.

 

L’insegnamento praticato a scuola non è diverso. Quello che facciamo è insegnare a applicare regole su contenuti che sono sintesi più o meno vaste, narrazione di altre narrazioni, retoriche di un sapere esplorato che il docente conosce in tutta la sua superficie, all’interno della quale esercita un’autorità assoluta e che il discente impara a conoscere più o meno bene, comunque in posizione subordinata.

 

Beninteso, da un certo punto di vista questo non solo è inevitabile, ma anche desiderabile nella misura in cui un sistema formativo risponde all’esigenze del sistema sociale che lo ha istituito. Un sapere condiviso, in termini antropologici, è anche una forma di mitologia la cui funzione è la costruzione di identità secondo specifiche linee, all’interno di un più generale quadro di ‘memoria culturale’; questa è la memoria raccontata dall’insieme di forze che hanno il potere culturale di farlo, pur soggetta in una certa misura a modalizzazione critica da parte dei soggetti che se ne fanno mediatori.

 

Quanto tutto ciò però si discosti, a volte anche mostruosamente, dall’obiettivo di formare ‘teste ben fatte’ e personalità libere e critiche e capaci di ‘imparare a imparare’ è evidente. Di seguito un folgorante intervento pedagogico di Furio Jesi sulla scuola come iniziazione e esercizio di autorità, inserito ne Il linguaggio delle pietre, un testo di antropologia e archeologia che andrebbe ristampato per diversi motivi.

 

 

Un racconto mitologico indonesiano narra che ‘in principio’, nel tempo primordiale in cui tutto accadde per la prima volta, il cielo e la terra erano vicinissimi. La terra era abitata dalla prima coppia divina, il cielo da un grande essere divino, ‘Dio’, e questi calava con una corda i suoi doni agli uomini. Fissate all’estremità della corda, scendevano dal cielo cose gradevoli che da quell’istante gli uomini imparavano a conoscere. Ma un giorno Dio fece calare sulla terra con la corda una pietra: gli uomini non la trovarono buona e rifiutarono il dono. Poi scese dal cielo, sempre appesa alla corda, una banana: gli uomini la apprezzarono e gradirono il dono. Udirono però la voce di Dio che li ammoniva: “Poiché avete scelto la banana, la vostra vita sarà come la vita di questo frutto. Se aveste scelto la pietra, la vostra vita sarebbe stata come l’esistenza della pietra, immutabile e immortale”.

 

Questo racconto, uno dei numerosissimi materiali mitologici relativi all’origine della morte fra gli uomini è stato citato da sir James G. Frazer (1913, pp. 74-75) e commentato in particolare da M. Eliade (Historie des croyances ed des idées religieuses, I, 1976, p. 129) per illustrare la presunta, problematica concezione dei rapporti tra vita e morte in alcune culture preistoriche. […]

 

Il racconto mitologico indonesiano è per molti aspetti istruttivo. Eliade non lo dice ma ci sembra importante notarne il carattere di sillabario. Tutti ricordano il carattere delle scuole elementari: C, e la figura del cavallo; M, e la figura della mela... il ‘Dio’ indonesiano che cala dal cielo sulla terra con la sua corda oggetti ogni volta diversi, affinché gli uomini imparino a conoscerli, ricorda il maestro che indica con la bacchetta questo o quel cartellone e chiede agli scolari di ripetere a voce alta e poi di scrivere il nome dell’oggetto raffigurato. Certo, gli scolari sanno già che cos’è un cavallo, che cos’è una mela: da questo punto di vista non sono nella situazione della coppia primordiale che non aveva mai visto prima la pietra e la banana. Ma, se guardiamo bene, il maestro non chiede agli scolari soltanto di riconoscere il cavallo o la mela nelle rispettive figure; chiede loro di conoscere il cavallo e la mela, la pietra, la banana, entro il sistema di segni preordinato e chiuso in cui il cavallo è veramente e legittimamente un cavallo se è qualcosa che si scrive C-A-V-A-L-L-O e non, per esempio C-A-V-A-L-O. Il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è solo quella cosa che si scrive M-E-L-A. Questo, gli scolari non è detto che lo sappiano già: devono impararlo. Il ‘Dio’ indonesiano è un maestro scrupoloso e severo. Gli oggetti che egli fa scendere sulla terra sull’estremità della corda sono figure di realtà vere e legittime solo all’interno di un sistema di segni preordinato e chiuso; chi trasgredisce alle norme di quel sistema per il semplice fatto di ignorarle, ne ricava svantaggi. Non è solo svantaggiato: è punito, perché il sistema preordinato e chiuso è totalizzante e totalitario e l’ignoranza della legge non fa innocenti. Il ‘Dio’ indonesiano è un maestro scrupoloso e severo, che come ogni maestro scrupoloso e severo tende trabocchetti pedagogici agli scolari. Solo un mistico del destino che sovrasta gli dèi e gli uomini (ma la mitologia indonesiana non è l’Iliade), potrebbe cercare di farci credere che egli, quando appese alla corda la pietra e la banana, non sapesse di sottoporre gli uomini a una prova per la quale partivano assai svantaggiati siccome ignoravano le regole del gioco. [...]

 

Questo apprendimento può anche essere descritto come un’iniziazione; solo l’iniziato acquisisce la condizione in cui uno riesce a superare una prova pur restando ignaro delle vere, profonde regole del gioco.

 

I versi di Klopstock che W. Benjamin (Angelus Novus, 1962, p. 157) pone in epigrafe al suo saggio su Le affinità elettive, “Fumo sacrificale entra negli occhi / di chi sceglie alla cieca”, sono evocazione impeccabile dell’esperienza iniziatica: un esatto imparare a non sapere ciò che non si può sapere, ma anche: un un’esatta esperienza di rapporto con l’assolutamente diverso. […]

 

Per capire cosa possa significare iniziazione, in quanto esperienza di un codice, di un sistema preordinato e chiuso, totalizzante e totalitario, che impone domande dalle risposte prescritte e però esige anche dagli interrogati una risposta giusta senza che essi sappiano preliminarmente che quella è la risposta prescritta (solo allora la coincidenza fra la risposta dell’interrogato e la risposta prescritta è veramente esatta), bisogna rivolgersi a L. Tolstoj, all’ “uomo che strazia l’osservatore, ogni osservatore, poiché ognuno scopre incarnate in quella vita convinzioni che sono per lui capitali, strette ad altre che egli aborre sopra ogni cosa” (E. Canetti, Potere e sopravvivenza, 1974, p. 138). Com’è noto, Tolstoj nelle sue terre fece scuola personalmente ai bambini dei contadini. Prima, però s’era andato ad informare circa i metodi didattici più recenti presso scuole inglesi, francesi e tedesche. “Sprezzante e arrogante […] intimidatorio e riservato”, probabilmente non andava in cerca di modelli di adottare, ma di bersagli, ipnotizzanti come ogni bersaglio a cerchi concentrici: voleva conoscere da vicino la pedagogia di quel ‘Dio’ che calava dal cielo in punta una corda la pietra e la banana, test iniziatico cui uno poteva rispondere in modo giusto solo se ne ignorava le regole e, ciò nonostante, azzeccava. In un opuscolo stampata privatamente nel 1861 Tolstoj (citiamo da I. Berlin, Tolstoj e l’educazione del popolo, in “Tempo presente”, n. 9-10, 1960, pp. 630-1) diede “un resoconto divertentissimo e orripilante dei metodi impiegati da un maestro specializzato nell’ultimo sistema di insegnamento dell’alfabeto qual era stato elaborato dal più moderno Istituto magistrale tedesco. […] Il ‘maestro modello’ è armato dell’opera più recente e progressista, intitolata Das Fischbuch. Il libro contiene illustrazioni di pesci. ‘Che cos’è questo, cari ragazzi? ‘Un pesce’ risponde l’alunno più brillante. ‘No, no! Pensateci! Pensateci!’ E l’insegnante non si calmerà finché qualche ragazzo non avrà detto che quel che essi vedono non è un pesce ma un libro. ‘E che cosa contengono, i libri?’ ‘Delle lettere’ dice uno dei ragazzi. ‘No, no! – dice tristemente l’insegnante – ‘Dovete pensare a quello che state dicendo’. A questo punto i bambini cominciano a sentirsi profondamente demoralizzati: non capiscono che cosa dovrebbero rispondere. Hanno la sensazione oscura, e perfettamente esatta, che il maestro voglia far loro dire qualcosa che essi non capiscono, hanno la sensazione che un pesce non sia più un pesce e che, qualunque cosa il maestro si attenda da loro, essi non riusciranno mai a pensarla. […] Il maestro intima loro di concentrarsi, e continuerà a torturarli finché non li avrà costretti a dire che quel che essi vedono non è un pesce, ma un’illustrazione; e che l’illustrazione rappresenta un pesce”.

 

É ben difficile trovare un’illustrazione più chiara di una struttura iniziatica. Nell’ambito di un’iniziazione vi è un ‘maestro-modello’ che svolge funzioni analoghe a quelle del ‘Dio’ indonesiano, e vi sono degli ‘scolari’, dei neofiti. Per essere veramente iniziati questi devono dare una risposta giusta, ma senza avere preventivamente imparato a memoria un prontuario di domande e risposte, o senza essere stati preventivamente informati delle regole del meccanismo che il ‘maestro-modello’ – l’iniziatore – vuol fare scattare in loro. Le regole (le regole vere) non le scopriranno neanche dopo: non sono cosa per loro. Il terribile maestro che Tolstoj vide all’opera non voleva che gli scolari già sapessero quanto pretendeva da loro; voleva invece che essi imparassero a pensare “creativamente”. Non voleva che, necessariamente, comprendessero le regole del suo torturante gioco didattico; voleva che, da soli, arrivassero alla risposta. Nella pratica, “ i ragazzi veramente intelligenti […] capiscono che le loro risposte saranno sempre sbagliate,e gli stupidi, che di tanto in tanto danno una risposta esatta, non hanno la minima idea del motivo per cui sono elogiati” (I. Berlin, 1960, p. 631).

 

Questo è precisamente il risultato di una iniziazione riuscita: l’accesso a un mondo diverso, nel quale si sa di dare sempre risposte sbagliate, e quando si dà una risposta esatta non ci si rende conto del motivo per cui si viene elogiati.

 

 

da F. Jesi, Il linguaggio delle pietre, Rizzoli, 1978, pp. 13-20.

 

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