Micol Roubini: una montagna di amianto

31 Gennaio 2025

«L'auto girò l'ultima curva tra i castagni e davanti ebbe la montagna dell'amianto con le cime e le pendici scavate a imbuto, e la fabbrica compenetrata in essa. Quelle erano le cave, quelle gradinate grigie lucide ad anfiteatro tagliate nella montagna rossiccia di cespugli invernali; la montagna scendeva pezzo a pezzo nei frantoi della fabbrica, e veniva risputata in enormi cumuli di scorie, a formare un nuovo, ancora informe sistema montuoso grigio opaco».

È Italo Calvino a descrivere, su «L'Unità» in edizione piemontese del 28 febbraio 1954, quello che vede quando arriva nel Canavese per documentare lo sciopero dei cavatori e le mobilitazioni sindacali dell'Amiantifera. Il posto, sul Monte San Vittore nel territorio di Balangero e Corio in provincia di Torino, è il medesimo in cui ha trovato modo di lavorare, tra il 1941 e il 1942, il neo-laureato Primo Levi, assunto per sperimentare modi di estrarre nichel dalla roccia di serpentino: in Il sistema periodico, nel racconto che ha il nome dell'elemento, la pietra gli appare nella sua «durezza siderale, nemica, estranea».

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La miniera di amianto, considerata la più grande in Europa, è una cava a cielo aperto che è stata attiva dal 1918 al 1990, ed è nel presente, dopo profonde trasformazioni economiche e sociali, al centro di un progetto di bonifica e di restituzione del paesaggio di montagna alle comunità locali. A questo luogo, che è il precipitato materiale e simbolico di significati in cui si addensano storia e natura, è dedicato La montagna magica dell'artista e regista Micol Roubini: un’opera d'arte visuale del 2023 che ha avuto diverse esposizioni e fa parte della collezione del Museo di Arte Naturale di Nuoro; fruibile in due formati (4 proiezioni super 16 mm 24' e video mono di 60'), l'installazione ripercorre la storia della miniera e mette in luce la stretta rete di relazioni tra umani, ambiente e territorio di quel contesto.

Come il celebre Zauberberg di Thomas Mann (pubblicato 100 anni fa) ha saputo raccontare l'intreccio di vita e morte del suo tempo attraverso il Berghof di Davos e i personaggi che lo popolano, l'operazione artistica di Roubini (a cura di Gabi Scardi) racconta una storia, apparentemente minore e poco nota anche ai piemontesi, che si mostra in grado di far emergere dinamiche globali. Il lavoro ha preso forma di una pubblicazione: Micol Roubini, La Montagna Magica, 2024 NERO Editions, a cura di Gabi Scardi e con contributi, oltre che della stessa Scardi, di Giovanni Aloi, Francesco Carnevale, Elke Krasny, Riccardo Venturi e Fabrizio Zandonatti; ben più di un catalogo, in formato tascabile e ricco di immagini, il libro completa il progetto riprendendo in forma testuale (in italiano e inglese) e grafica l'opera ed esplicitandone presupposti, rinvii e contorni.

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Raccontare la cava di Balangero – seicento metri di lunghezza, duecento di larghezza e quattrocento di profondità – e di cosa sia diventato il posto con le sue alture, acque e boschi, significa, alla luce della sensibilità antropocenica, sottolineare il ruolo dello sfruttamento dei territori nel Novecento come paradigma di un capitalismo predatorio, incapace di pensare all'impatto ambientale e al futuro, per mostrare come il rapporto tra materiali estratti e lavoro abbia modificato, in modo traumatico le vite singole e comunitarie nel tempo; ma significa anche porgere attenzione al processo di rigenerazione del terreno contaminato con lo sguardo del tempo profondo e con un’accentuata sensibilità verso vegetali, licheni e piante, e fauna, uccelli, cerbiatti, daini, lupi e cinghiali, per ripensare il rapporto tra umano e le altre sfere dell'organico e dell'inorganico. In questo senso La montagna magica è un progetto multidimensionale espressivo e comunicativo di grande respiro che chiama a raccolta le risorse di un'arte empatica e riflessiva, configurandosi come un'inchiesta storico-antropologica-geografica su un territorio che è una interrogazione etica e politica sui modelli di sviluppo possibili e desiderabili, che, oggi più che mai, chiede un cambiamento di prospettiva, abitativo e relazionale con il paesaggio del proprio mondo-ambiente.

L'amianto è già di per sé un oggetto misterioso e mortale: materiale considerato miracoloso per le sue qualità merceologiche e industriali – eterno, indistruttibile, ignifugo –, a seguito delle scoperte mediche sulla pelle di chi lo ha estratto, raccolto e lavorato, è passato nella percezione pubblica «da portentosa meraviglia della natura a sostanza tossica» (Venturi), causa di infinito dolore e lutto per asbestosi e mesoteliomi in Italia e in tutto il mondo. Il testo di Zandonatti è dedicato alla vicenda della miniera canavesana e della sua gente, a delineare una storia sociale di contraddizioni tra sviluppo e lavoro, tra difesa della salute pubblica e dell'occupazione, tra provincia e città. Luogo remoto di produzione dell'amianto, la cava è nel tempo l'immagine di un mondo sotterraneo, meccanico, freddo, brullo e invernale, coperto di grigio e polvere, dal timbro funereo di lavoro forzato e concentrazionario; gli effetti sulle vite dei cavatori, dei lavoratori della filiera e delle loro famiglie e comunità sono altamente tossici e dilatati in un tempo inverosimile, con un picco di decessi correlati nei paesi industrializzati che si è realizzato tra il 2015 e il 2025, come riporta Carnevale nel saggio dedicato alla storia sociale, medica e giuridica dell'elemento minerale. Prodotto industriale vanto della modernità, l'amianto era presente in oltre tremila tipi di prodotto in settori molto diversi, dall'impiantistica alla cosmesi; il suo utilizzo, prima diffusissimo nell'edilizia privata e pubblica, è stato vietato con enormi problemi di smaltimento (e ciò nonostante ancora lavorato e utilizzato in gran parte del mondo attuale, che ha tempi di diffusione e consapevolezza della gravità della questione a geografia variabile).

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La modernizzazione industriale è un progetto fisico di antropizzazione e di parallelo disincanto del mondo che, insieme all'idea di progresso, ha comportato la recisione di legami tra persone ed enti non umani, tra vita e luoghi; tra i suoi effetti c'è stato l'oblio di come i paesaggi naturali siano vivi (o almeno lo siano stati per tempi immemori) e dotino i territori di una molteplicità di significati che innervano le esistenze e informano i modi di pensare. Caratteristica del lavoro artistico di Roubini e Scardi è la messa in comunicazione dei luoghi traumatizzati della montagna con le persone residenti nell'area e la ridefinizione collettiva della relazione tra materie e viventi attraverso una ricognizione sui loro sogni, a creare una panoramica sulla sfera emotiva e immaginativa che i luoghi proiettano sullo psichismo: le trame oniriche di chi abita nei pressi dell'ex-cava, raccolte nel tempo con interviste, sono parte dell'opera come un carotaggio dell'inconscio sociale capace di «rendere visibili le politiche e le storie di violenza che stanno ferendo e uccidendo il pianeta» (Krasny). Il saggio di Aloi chiude il libro con una riflessione lirica sulla generatività del trauma e sulle possibilità di guarigione insite nella dimensione materna del tempo, intergenerazionale e della lunga durata: una prospettiva lenitiva delle tante ferite di cui il nostro tempo ci ha dato tanto piena conoscenza quanto selettiva consapevolezza, e proprio per questo urgente ed attuale.

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