Il passero coraggioso di Mario Lodi
Un piccolo passero, senza paura e molto curioso, incurante delle tante raccomandazioni della madre, esce dal nido e si avventura nel mondo. Entra in una casa e viene catturato da alcuni bambini, da cui si libera fortunosamente. Fa nuove amicizie, impara a conoscere clima e luoghi, fiori e gatti, cacciatori e gli altri suoi simili. Cresce, si innamora, costruisce un nido che deve difendere dalla tempesta e dalla neve, diventa genitore e deve insegnare ai piccoli come difendersi dai tanti pericoli, le trappole degli uomini o le astuzie dei predatori. In particolare, un gufo ingannatore fa strage di passeri, fingendosi loro amico. Attento e lucido, Cipì comprende l'inganno e si batte perché tutti, nel tetto in cui abita, siano al sicuro e per questo si mette a discuterne con gli altri abitanti, con cui si confronta, anche aspramente, in un clima di sfiducia generalizzata. Ci sono perdite, c'è del dolore, ma alla fine la pace è conquistata, collettivamente. La lotta è la condizione ineliminabile per volare liberi. Questa è la trama essenziale di Cipì – se qualcuno non ne avesse mai sentito parlare – un piccolo libro che ha segnato una stagione educativa.
Pubblicato la prima volta nel 1961 dalla Edizioni Avanti! e più volte ristampato dopo l'edizione Einaudi del 1972, il testo è «uno dei classici più letti nella storia della letteratura per l'infanzia»: la sua nascita si deve all'osservazione di una famiglia di passeri, fuori dalle finestre di una classe di scuola a Vho di Piadena, che diventa «la storia di ogni bambino che viene a questo mondo, delle scelte che la vita gli impone, dei sentimenti e delle idee che egli matura nell'esperienza» (Rodari). Ma soprattutto è il risultato della scrittura collettiva dei bambini e delle bambine della scuola in cui insegnava Mario Lodi, uno dei frutti di diverse simultanee rivoluzioni che riguardavano chi scrive, di cosa scrive, perché lo scrive e come lo scrive. Con Il passero coraggioso, Laterza 2022, Vanessa Roghi, storica della società contemporanea, documentarista e autrice Rai, continua il percorso di esplorazione della scuola e dell'educazione in Italia. Dopo i lavori dedicati a don Milani e Gianni Rodari e un libro di storie di scuola per ragazzi/e, Roghi mette dunque a tema la figura forse meno nota di Lodi, per raccontare, a cento anni dalla nascita, il maestro che con la sua classe è stato l'autore, oltre che di Cipì, di saggi come C'è speranza se questo accade al Vho (1963) e Il paese sbagliato (1970).
Cipì è qui inteso come una metonimia storica, la manifestazione di un processo più ampio, che include il Movimento di cooperazione educativa (dal 1951), la ricezione italiana della pedagogia attiva di Célestin e Élise Freinet, la sperimentazione e la condivisione di pratiche e in definitiva la messa in discussione del sistema di istruzione nell'Italia del lungo secondo dopoguerra, in relazione alla contestazione delle sopravvivenze autoritarie dentro il mondo scolastico e alle trasformazioni sociali che la Repubblica della Costituzione affrontava faticosamente. In termini ancora più pratici, Cipì è il precipitato concreto della messa al centro del processo educativo di studenti e studentesse e mostra quale debba essere il ruolo dei docenti e quali possono essere gli strumenti di attività condivise.
Nel libro trovano posto accanto a Lodi, Rodari, Milani e altri (tra loro Maria Maltoni, Giuseppe Lombardo Radice, Ernesto Codignola e Lamberto Borghi, Giuseppe Tamagnini, Anna Fantini, Ada Marchesini Gobetti, Bruno Ciari, Aldo Pettini, Nora Giacobini); una lista lunghissima, che sarebbe incompleta se non si affianca a quella di chi scopriva l'inchiesta sociale e l'attivazione “dal basso” per dare voce al mondo dei subalterni in tutti gli aspetti della società, nel lavoro come nella famiglia.
Roghi continua e approfondisce il discorso avviato nei lavori precedenti. Parte da un testo per allargare lo sguardo ai contesti della sua produzione e ricezione, per mettere a fuoco diversi aspetti della storia italiana dagli anni Cinquanta. Accanto a teorici e animatori di dibattiti, i veri protagonisti del libro finiscono così per essere maestre, maestri, professori e professoresse che si confrontano sulla ricerca di pratiche per una didattica efficace e differente da quella consuetudinaria, avvertita come inaedeguata e insufficiente. Di converso, la scuola mostra anche una massiccia ostilità alla diffusione di reali posture democratiche, per svariati motivi, accomunati dalla forza di inerzia che sanno avere le strutture istituzionali burocratizzate complesse e dalla rigidità nei confronti del cambiamento mostrata dal personale che ci lavora. Altro fattore decisivo è il campo di forza politico che partendo dal bisogno di defascistizzare la scuola vede il confronto tra la cultura comunista, quella cattolica e quella dei partiti laici, soggetti per i quali la dimensione pedagogica è stato terreno di confronto etico e valoriale, indissolubile dalla questione della famiglia e dell'educazione di una comunità: un’educazione diversa quanto diversi sono i modi di intendere la comunità, con processi puntualmente mappati e storicizzati nel libro da convegni, pubblicazioni, provvedimenti amministrativi.
Il 1962 è un anno chiave per la riforma della Scuola media unica, di cui ricorre – tendenzialmente trascurato – il sessantesimo anniversario. La scuola media unificata che nasceva allora, non senza polemiche e resistenze, è stata una vera e propria riforma sociale che aboliva i precedenti due differenti canali di istruzione dopo la scuola elementare. Con la nuova legge scompariva la biforcazione sociale e classista, dettata dalla provenienza socioculturale, tra la scuola umanista come preparazione verso il Liceo, l'università e le professioni di prestigio e l’avviamento professionale, di fatto addestramento tecnico, peraltro in una fase di espansione economica e forte offerta di lavoro. Su questo tema si gioca una partita ideale decisiva su come si intende costruire il futuro della scuola della Repubblica: incubatore di sviluppo della personalità del discente oppure ripiegamento concreto e ultrarealista alle esigenze economiciste più immediate?
Dal 1963-64 un milione e seicentomila studenti e studentesse hanno avuto una inedita possibilità di ulteriore formazione che ha permesso la breve finestra di mobilità sociale in Italia che si apre negli anni Sessanta, tocca il culmine nei Settanta e comincia a chiudersi con gli Ottanta. Anche in questo frangente un dato che emerge nell'analisi storica, oltre la retorica progressista e l'ingenuo ottimismo, è lo stridore che le esigenze della didattica provocano nei docenti chiamati a ricoprire nuovi ruoli nella scuola media non più “dei signori” ma per un nuovo pubblico studentesco, fatto di soggetti che dispongono di un differente capitale culturale e di un altro mondo di riferimenti rispetto a quello dei docenti.
Roghi sottolinea come già a metà degli anni Cinquanta (nel 1954 si tiene a Ginevra il Bureau International dell'Unesco) un problema cruciale fosse la formazione del personale insegnante: detto con le parole di Aldo Visalberghi, «l'unico importante paese d'Europa dove non ci si curi affatto della preparazione professionale degli insegnanti secondari è l'Italia». La formazione di maestri e maestre passava attraverso l'insegnamento negli istituti magistrali, e da lì la questione della prassi pedagogica si scontrava con la realtà. Il bisogno di confronto è alla base dell'associazionismo degli insegnanti e all'origine delle reti di contatto e di attenzione verso la cooperazione educativa. Nei contesti la libertà astratta e le buone intenzioni post-idealistiche mostravano i loro limiti, si sostanziavano e prendevano corpo: nella coscienza democratica, nello sviluppo della personalità, nel senso di comunità, nello studio individualizzato, nella collaborazione tra studenti e tra insegnanti; in questo è decisivo il riferimento specifico a pratiche di scrittura e discussione collettiva, come il testo libero e il “complessino tipografico” (secondo il modello di Freinet), che individuano modalità e strumenti di lavoro scolastico, programmaticamente in rapporto con i mezzi di comunicazione. È da questo momento che l'attività scolastica si apriva al cinema e al fumetto e a una cultura “bassa” e di consumo, allora un universo sostanzialmente inedito nella dimensione di massa e ei decenni successiva in rapida espansione.
Il cuore di Il passero coraggioso sta dunque nel parlare in termini storici della scuola, con un duplice effetto: il primo consiste nell'illuminare un passato e mostrarne dibattiti, tensioni e conquiste attraverso un trentennio, fornendo uno spaccato della dimensione dell'impegno pedagogico e rivoluzionario di una generazione di educatori/trici; il secondo riesce a fornire materiale per una discussione sul presente della scuola e dell'educazione, i cui i nodi sono oggi ossessivamente al centro di reti discorsive pubbliche, ma in cui la competenza e la cognizione di causa sembrano insufficienti e sono sostitute da ideologizzazione o approssimazione.
Il libro mostra un afflato etico-politico che si rivolge all'archivio per individuare pratiche e non monumenti, esempi di stili praticabili e non eroismi missionari da additare o citare per il discorso edificante. Nella storia della cooperazione educativa e della scuola democratica la questione è per l'appunto non tanto l'esperienza singola quando la sua replicabilità e diffusione, nella forma di un adattamento al contesto e nella sua essenza. Il punto non è rifare Cipì o replicare Barbiana, o riassumerli, cantarne le lodi e farne santini, quanto cogliere bisogni e domande dei contesti problematici in cui esempi come Cipì e Barbiana sono state risposte, per fare proprie quella dimensione di ascolto e progressiva messa a punto di strategie.
Di fronte all'autoritarismo sempre risorgente, come convinzione o come scorciatoia educativa, e al paternalismo che ne è una versione, emerge in modo netto la differenza tra stare «in classe in modo democratico» o essere insegnanti «con idee democratiche». In questo senso, la pedagogia concepita in modo idealistico e trasformata in retorica viene svuotata di contenuti e perde significato, come emerge già dal dibattito di allora. Ancora oggi la formazione pedagogica, largamente insufficiente nella preparazione dei docenti di scuola secondaria, è guardata con sospetto da molti, anche se qui è opportuno operare delle distinzioni. Da un lato c'è la critica – a mio avviso legittima – di chi vede i pericoli del “didatticismo” accademico, in cui soggetti che non entrano in classe da anni dettano linee guida con modalità trasmissive che contraddicono il loro stesso dettato. Una critica non alla pedagogia in quanto tale ma fatta in nome di un'altra posizione pedagogica, radicata nella sociologia e nella dimensione pratico-esperienziale. Una critica quindi anche alle sopravvivenze filosofico-idealistiche che continuano a informare i discorsi sulla scuola con banalità, moralismi, ma anche folgorazioni teoriche difficilmente sostanziabili, anche perché slegate dai contesti in cui dovrebbero essere calate.
È esperienza comune per i docenti assistere a corsi di formazione trasmissiva in cui con decine di slide e in tempi molto lunghi, viene spiegato che la didattica frontale è poco efficace, per poi venire valutati con testi a crocette on line, al termine di corsi sulla valutazione come processo ermeneutico. Per tacere dei concorsi più recenti per il reclutamento, che hanno fatto del nozionismo capzioso la loro caratteristica principale, fino al divieto di poter produrre bozze o svolgere calcoli con carta e penna. Si tratta dunque di una critica condivisibile, mossa in nome di istanze che hanno a cuore la dimensione attivistica, il dialogo educativo e cooperativo, l'aspetto di ricerca di soluzioni a problemi, e che dunque rifiutano astrattezza e rigidità teorica perché ne constatano i limiti.
D'altro canto, le critiche più feroci o lapidarie alla pedagogia, principalmente a quella democratica, continuano invece a venire su posizioni reazionarie e classiste da settori della cultura che considerano l'unica scuola valida come quella basata sul modello della lezione esemplare, dell'interrogazione e del circuito imitazione-studio-performance (anche qui in nome di un retaggio idealistico). Non sono pochi i profeti dell'apocalisse alfabetica che non potendo dichiarare guerra alla società in cui vivono perché ne sono integrati, corresponsabili e ne godono i privilegi di rendita, preferiscono attaccare la scuola, di cui ignorano la storia sociale, o prendersela con gli studenti, di cui trascurano psicologia ed evoluzione cognitiva. Questo corrente diffusa, che ha tra i suoi esponenti opinionisti sui quotidiani e intellettuali di vaglia, è una vera e propria fede nella «retrotopia» della scuola del passato che trova anche seguito tra insegnanti, di diverso credo politico, che sembrano trovare consolatorio, rispetto ai problemi del presente e all'immane fatica che comporta occuparsene, concludere che l'epoca della barbarie è ormai giunta, o tempora o mores, après nous le déluge.
Tra i fili che ho scelto di evidenziare merita ulteriore spazio la storia della cooperazione educativa in relazione al movimento studentesco e al lungo Sessantotto, dove, ancora una volta, la questione appare più complessa e articolata di come la si racconta. Una seconda ondata di riflessione della scuola democratica sceglie di spostare l'obiettivo della critica verso la struttura capitalistica della società, optando nel clima del tempo per l'assalto al cielo e lo spontaneismo come alternativa alla quotidiana e controllata sovversione della prassi scolastica. Come sintetizza Roghi, negli anni delle militanze l'iniziale attenzione alla didattica e alla ricerca viene sostanzialmente accantonata, in vista di obiettivi più politicamente remunerativi e la promozione della dimensione cooperativa lascia lo spazio all'azione rivoluzionaria: significativa in tal senso diventa la questione del voto numerico, simbolo dell'azione di selezione classista operata dalla scuola, che tende a superare la tecnica delle didattiche, anche a un livello di significato simbolico. Senza dimenticare o sottovalutare l'importanza dei Decreti delegati del 1973-74, frutto di quella stagione di numerose innegabili conquiste, nel 1977 la sostituzione del voto numerico nella scuola elementare con i giudizi sarà anche il frutto di questo processo, così come la loro reintroduzione nel 2008 racconta di un processo di segno diverso.
Il passero coraggioso è dunque un repertorio in si trovano risorse e idee didattiche, come le attività di lettura in classe e a casa, ma anche di problemi, come i libri di testo spesso inadeguati o datati, o ancora l'esperienza laboratoriale e il tempo-scuola, alla base di annose questioni che riguardano l'impatto dell'educazione anche fuori dalla scuola e che sono particolarmente sentite dalle famiglie.
Nodi di lungo periodo, guardando i quali si incontra un Paese che cerca se stesso nello specchio della scuola che dà ai suoi figli e figlie. Sostanzialmente sbagliando per parafrasare Lodi. In questo senso, oltre il suo specifico dettato, Il passero, coraggioso è un libro di attualità capace di fornire prospettiva sul presente. Colpisce il lettore come, pur in presenza di un contesto sociale molto diverso, i punti del dibattito ieri come oggi siano analoghi, per non dire gli stessi. La scuola democratica sognata per decine di anni fatica a essere veramente tale mentre si presentano nuove emergenze e scenari – migrazioni e cittadinanze, mezzi di comunicazione di massa e socializzazioni, stili cognitivi e gestione del tempo – che ci interrogano su come si può insegnare e apprendere in modo efficace e soddisfacente.
La scuola, nella transizione tra infanzia e età adulta, è ancora per molte persone un posto che spegne entusiasmi e mortifica le intelligenze in cambio di una formazione, un'integrazione e la promessa di un posto nel mondo i cui contorni sono sempre meno visibili o desiderabili. Come genitore e docente coinvolto nella scuola secondaria, in fase pandemica e post-pandemica ho avuto la sensazione sgradevole di essere inserito di una struttura anacronistica e incapace di cambiare, nella sua maggioranza poco attenta ad alcuni bisogni fondamentali dei suoi abitanti principali, ovvero studenti e studentesse.
La crisi del 2020-22 ha allargato le crepe della scuola e ha evidenziato il bisogno di cambiamento, chiamando in particolare gli insegnanti a esserne i principali agenti. Non si sono ancora viste risposte adeguate in tal senso, quanto piuttosto, insieme alle comprensibili manifestazioni di disagio crescente, un ritorno alle consuetudini pre-crisi invocate come rassicurante normalità, una serie di retoriche svuotate di contenuto reale nelle prassi e nelle normative, una ripresa di parole d'ordine di (legittima) rivendicazione sindacale ma di basso cabotaggio. Il tutto condannato ad affogare in un dibattito pubblico di livello mortificante, a spegnersi nelle zuffe via web e a consumarsi in conflittualità a geometria variabile presidi-docenti-studenti-genitori.
Ora, guardare alla conoscenza del passato e ai conflitti di altri momenti della storia repubblicana aiuta a riconoscere linee culturali e pratiche operanti nel presente e permette di individuare risorse e indicazioni che brillano ancora nitidamente. C'è un lavoro ineludibile quotidiano fatto di relazioni da costruire o ricostruire, che si tiene nelle classi e lì si tratta di stare, rimettendo in discussione le basi del proprio agire. Difficile dire meglio di Gianni Rodari (1976) quale sia il compito dei docenti:
«noi siamo i gradini della scala che il bambino sale. Non c'è niente di mistico in questo. Di fatto siamo quei gradini anche quando non ce ne accorgiamo: allora, s'intende, siamo gradini sconnessi, pericolanti e pericolosi».
Riscoprire i libri di Lodi, è un modo per conoscere esperienze, studiare radici, ragioni e strategie della didattica democratica in cui il suo lavoro è inserito. Ieri come oggi l'urgenza del presente, connessa a uno spaventoso cedimento del sistema educativo, invoca a ogni livello della scuola un confronto sistematico sulla didattica tra insegnanti, e chiede la capacità di stare in posizione di ascolto e di promuovere la partecipazione attiva degli studenti, prima di tutto il resto. Quando sembra tutto irrimediabilmente sbagliato e l'insoddisfazione è comune, la cosa più immediata da fare a scuola è iniziare a guardare fuori dalla finestra, chiedendo ai bambini e alle bambine di raccontare insieme cosa vedono.