La storia congelata

28 Ottobre 2022

I cento anni dalla marcia su Roma, l'evento che ha aperto il Ventennio fascista, coincidono con la fase acuta di una lunga stagione di grande reviviscenza di populismi, autoritarismi, neo e post-fascismi in Europa e nel mondo. La ricorrenza in Italia è concomitante con le prime settimane del primo governo guidato da una premier donna che è uscita vittoriosa dalle elezioni con un programma di destra radicale, apertamente conservatore, etnonazionalista ed erede della tradizione fascista. Le più alte cariche dello Stato, Senato e Camera, sono ricoperte da figure politiche di forze partitiche diverse ma alleate e convergenti che hanno un valore simbolico quasi paradigmatico per le correnti politiche a cui afferiscono.

Come si percepisce chiaramente nell'opinione pubblica l'indagine storica viene sollecitata dal momento e si rendono indispensabili strumenti di lettura che sappiano andare oltre le letture presentiste, la cronaca giornalistica e il brusìo emotivamente dopato sui social network. Non è una novità: da tempo coesistono sradicamento forte dal passato, appiattimento sul presente e un’inflazione di messaggi storici elementari e distorti; come mostrano le ricorrenti polemiche, a guidare l'orientamento delle varie bolle di consumatori di informazione sono principalmente temi di uso pubblico della storia.

Tra i molti titoli dedicati al centenario del fascismo due libri volti a indagare le radici profonde della cultura di destra novecentesca risultano particolarmente significativi. Con strategie differenti i lavori di Mimmo Cangiano, Cultura di destra e società di massa (Nottetempo 2022) e Federico Finchelstein, Mitologie fasciste (Donzelli 2022) offrono una prospettiva di lungo periodo e di profondità e ragionano sul piano della storia delle idee, della cultura e della psicologia sociale, indagando le condizioni che rendono possibile il concretarsi delle culture politiche della destra moderna che culmina nel fascismo.

I due studi ne interpretano la genesi in base alla continuità di presupposti e alle contraddizioni esistenti all’interno della società del Novecento e con radicamento nel linguaggio, nella psicologia e nelle rappresentazioni sociali fornite dalle élite nei decenni precedenti. Mostrano in definitiva cosa sostanzi e legittimi le retoriche e le pratiche del fascismo, nel suo prima e nel suo dopo, in particolare in rapporto al consenso di cui ha goduto; individuano in aspetti culturali, come il mito, un'offerta cognitiva, emotiva e spirituale che in epoca di crisi il fascismo ha saputo dare ai gruppi sociali e alle masse che hanno voluto promuoverne o accettarne l'affermazione.

Cangiano, critico letterario e comparatista dell'Università di Venezia con formazione negli Usa, realizza una vasta panoramica della cultura conservatrice che attraversa l'Europa dal 1870-1939, tra Hoffmannstahl e Malaparte, fornendo una imponente bibliografia di riferimenti critici e analizzando fonti letterarie, filosofiche e socio-politico-economiche in cui trovano posto decine di autori “classici” (Spengler, Schmitt, Jünger, Drieu La Rochelle, Gentile, Evola...) e molti altri, meno noti, di rilevanza significativa per la costruzione degli scenari ideologici.

Cultura di destra e società di massa mette in luce anche il contributo di autori italiani e spagnoli e mostra la dimensione europea di un fenomeno di reciproca alimentazione e influenza: proprio a partire dalla centralità dell'idea di nazione evidenzia il suo paradossale superamento nella matrice comune ai diversi nazionalismi. L'offerta di temi, titoli, sfumature nelle posizioni è ricchissima e restituisce un quadro nitido in cui il pensiero di destra risulta meno compatto e coerente di quanto i regimi o la sintesi post-fascista abbiano saputo mostrare, alla luce di una tendenziale compattezza sui nuclei mitici di base.

Il testo ha un deciso impegno teorico, affrontato con una impostazione tematica che riannoda capitoli monografici attorno ai temi centrali della cultura di destra: a partire dai concetti di forma e cultura, e dunque di una ampia ricostruzione del nodo Kultur vs Zivilisation, il fuoco centrale è individuato nel tipo di comunità proposta e idealizzata «in relazione allo sviluppo atomizzante della società di massa» (11) e di «modi (e velocità) dello sviluppo industriale» (12).

Nella coincidenza di dimensione artistica e politica, cultura e mito si sovrappongono ed emerge la compresenza di miti classici e nazionali, come segni del rifiuto della società borghese-capitalista, e lo «scendere a patti» della destra anti-capitalista con la cultura borghese, secondo la dinamica di «tecnicizzazione del mito» teorizzata da Furio Jesi, di cui Cangiano riprende in modo originale la ricerca (citata fin dal titolo).

Il fascismo, indipendentemente da come si sia raccontato, è stato infatti un amalgama di correnti ideologicamente orientate (nazionalismo, superomismo, razzismo, anticapitalismo etc.) in un compromesso costante tra dimensione spirituale e urgenze materiali, tra interessi di ceti, classi e settori della società diversificati, che ha visto in gioco intellettuali compiacenti, militanti e cortigiani, istituzioni (monarchia, esercito, chiesa...) interessi economici privati, clientelismo e corruzione sistematica.

La Grande guerra è lo spartiacque tra la fase ottocentesca e novecentesca della cultura di destra, in cui una prima delineazione di classe dell'élite si confronta sempre più con le masse e dietro di esse con il progresso industriale e tecnologico, fino agli anni Trenta e all'inizio della seconda guerra mondiale in cui esplodono le aporie della rivoluzione conservatrice: una mitologia regressiva antimoderna costruita con gli strumenti modernissimi della comunicazione di massa.

Ampia parte della cultura europea ottocento-novecentesca ha alimentato una ricostruzione mitica del passato assorbita nella prassi politica: tòpoi radicati nel culto della (neo)classicità e nelle reinvenzioni della tradizione hanno servito l’idea di rigenerazione e un culto della morte capace di evocare splendore passato e speranza di continuità con la (presunta) origine perduta. Tali idee sono da leggere come una risposta politica alla modernità, avvertita come rottura dell’equilibrio precedente dalle classi dominanti e rivolta all'intero corpo sociale; idee che in questo modo si sono fatte strumento e simbolo di un’identità da realizzare nel futuro attraverso la completa nazionalizzazione razzializzante delle masse, in quanto profezie di una costruzione mitologica e sacralizzante. 

mTra i temi messi in luce trova ampio spazio l'analisi dell'antisemitismo, cartina di tornasole del rifiuto dei processi di emancipazione e di modernizzazione: nelle pagine di Èdouard Drumont gli ebrei sono descritti come «la concrezione materiale di tutte le tensioni create dal passaggio all'età industriale, […] non solo l'unico elemento estraneo alla comunità, ma quello stesso elemento che sta distruggendo quel rapporto identità-Kultur» a causa della loro identificazione con il capitalismo (65).

Dalla fine del XIX secolo in poi, all'incrocio di diverse correnti culturali l'immagine storicamente demonizzata degli ebrei viene associata allo spirito mercantile sconnesso dal vincolo comunitario, alla democrazia e al socialismo dissolutore della nazione e dell'élite, alla tecnica e alla meccanizzazione del mondo (di cui farebbero parte finanza, materialismo e marxismo) all'arte standardizzata della modernità cosmopolita (cinema, design industriale, realismo ed espressionismo).

Cento anni fa, a sincrono con l'affermazione del fascismo in Italia, usciva la versione completa di Il tramonto dell'occidente di Spengler, che di questa nebulosa ideologica destrorsa è un elemento centrale. In Spengler, scrive Cangiano, «lo storicismo si liquefa a contatto con principi formali che irrigidiscono la Kultur in destino»: idee come la teoria dei cicli di civiltà (dalla nascita alla decadenza) trovano ascolto presso la rivoluzione conservatrice (e da lì nel fascismo e nel nazismo) e suggeriscono l'idea di un a-temporalità assoluta che tende a «ipostatizzarsi nelle immagini del popolare (forma eternizzata del Volk), del classico (universo valoriale suppostamente immobile), del mito» (106-107).

La cultura della forma e la concezione estetica precipitano nella politicizzazione del radicalismo conservatore, con l'ancoraggio del molteplice a una “verità” metastorica ed eterna in aperto contrasto alle trasformazioni che la modernità industriale, urbana ed economica comportava nella società di massa. Le reti discorsive della mitologia etno-nazionalista, all'intreccio di estetica, antichità e morfologia, attribuiscono alle forme artistiche, storiche e sociali i tratti naturali dell'archetipicità, caricandole politicamente nel senso di un ordine metafisico fondativo di comunità.

Tale realtà anti-moderna negli esiti, una vera e propria “retromarcia verso il futuro”, è modernissima per i mezzi che usa e si realizza nel progetto di un ordine gerarchico che si vorrebbe antidoto al nichilismo, all'atomizzazione sociale delle masse, allo sradicamento del cosmopolitismo: elementi contro cui polemizzano ancora oggi gli epigoni identitari e sovranisti dello spenglerismo.

Mitologie fasciste di Finchelstein colloca il mito al centro dell'analisi del mondo mentale fascista: lo studioso argentino, docente alla New School for Social Research e all'Eugene College di New York, indaga il fascismo come fenomeno apicale di una storia e politica dell'irrazionale, come recita il sottotitolo. Il fuoco del discorso in questo caso è proprio il fascismo storico, italiano e tedesco, visto nella sua rappresentazione realizzata nella teoria di Carl Schmitt e nella critica antifascista di due interpreti di eccezione come Sigmund Freud e Jorge L. Borges. Anche qui formazione e provenienza dell'autore mettono in campo un respiro internazionale per il punto di vista non eurocentrico e la bibliografia.

Per il fascismo, scrive Finchelstein, «non esistevano distinzioni tra mito, potere e violenza»: si tratta di «una filosofia dell'agire politico che attribuisce un valore assoluto e mitico alla violenza e alla guerra, teorizzando che la sfera politica affondi le sue radici negli istinti primordiali e nella violenza» (5). Il riferimento al mito permette il superamento della condizione esperienziale e terrena e il rinnovamento della tradizione religiosa in senso secolare con una «nuova trinità composta da capo, nazione e popolo» (26). In Schmitt si trova la rivendicazione di un fondamento divino nella storia, con la nota tesi di un modello di politica irrazionale basato sulla teologia e realizzantesi nella storia nei termini dell'«oscura escatologia» controrivoluzionaria che cerca le incarnazioni mitiche del potere e le riconosce nell'espressione della volontà del capo, la giurisdizione del Führer o del duce in quanto miti politici viventi. 

Dal primo dopoguerra la galassia di parole, segni e immagini sintetizzate dal fascismo consolida abiti e prassi politiche, utilizza passati diversi e enfatizza la storificazione del presente per guardare al futuro con la costruzione di una fede di timbro metafisico. Il mitico, sottolinea Finchelstein, riguarda la concezione vitalistica e dinamica dell'esistenza che si oppone a una ragione “decadente” in nome di un'intuizione e una determinazione psico-motoria che attiva pensieri e azione. La dimensione inconscia gioca dunque un ruolo determinante nella politica e con essa la psicologia delle masse, come ben coglie Freud in tempo reale con l'affermazione del fascismo in Italia (anche Psicologia della masse e analisi dell'io ha da poco compiuto cento anni).

La dimensione sacrale e metastorica è per il fascismo «la fonte della sovranità politica» (21) e la figura rinnovata dell'eroe diventa cruciale: «il mito dell'eroe classico, la cui violenza è pura, riemerge e si trasforma in un programma politico del capo» (24), oggetto di un investimento energetico e libidico da parte delle masse che si illudono di celebrare se stesse. L'ideologia fascista non si serve semplicemente del mito per il suo potenziale comunicativo, ma assume qualità mitologica nella misura in cui offre una visione circolare del mondo che «reiterando acriticamente i propri assunti di fondo […] trasforma i propri miti in realtà» (45) e realizza una pulsione di morte che tende a una redenzione mediante la distruzione, tale da connettere «la morte, il desiderio e le dinamiche persecutorie fasciste» (51).

Il fascismo si rivelava dunque agli occhi di Freud come una «ideologia psicotica» (101) legata allo scatenamento di pulsioni che cercano un soddisfacimento completo e non riconoscono la realtà e l'alterità, abdicando totalmente alla sublimazione e alla rinuncia pulsionale che costituiscono i processi di incivilimento e uscita dalla natura; analogamente, in Borges «l'esaltazione fascista dell'io sfociava in un intreccio reciproco di sottomissione e di dominio» (143) alla base di un meccanismo di potere inteso come una regressione arcaica e come ritorno alla barbarie, a cui si contrappone una visione umanistica e cosmopolitica del mondo.

Il testo di Finchelstein delinea la partecipazione di Borges ai dibattici che lo contrapponevano ai fascisti argentini e agli antisemiti cattolici, così come la sua interpretazione del nazismo – che emerge nei racconti – come tradimento della cultura tedesca ed europea che egli idealizza. Presa in considerazione da una condizione periferica rispetto ai grandi conflitti mondiali, la violenza realizzata dal fascismo europeo si qualifica come «annullamento della pacificazione dello spazio sociale» (166): una esperienza antropologica che nel distruggere le sue vittime annienta l'umanità stessa dei carnefici, inscrivendo la storia nella dimensione del trauma.

Scegliendo il mito come vettore della sua espansione, la cultura di destra sembra voler immobilizzare il divenire storico mediante la cristallizzazione di valori pensati come eterni: il linguaggio monumentale del mito, capace di influenzare le retoriche della mobilitazione e la propaganda dei regimi riguarda non solo la legittimazione dell’esistente ma anche la garanzia di una loro durata nel tempo storico e la delineazione del futuro della comunità mediante il recupero del (presunto e idealizzato) passato.

Il mito politico si conferma come principio dinamico che ottiene effetti concreti di azione in una prospettiva antropologica e storica: le culture di destra e la visione fascista del mondo hanno svolto funzioni di orientamento e di collocazione nel tempo e nello spazio, perseguendo con la violenza l'integrazione gerarchica e la subordinazione di vaste porzioni di società europea nella direzione, utopica e regressiva, di una comunità etnicamente e razzialmente intesa. La potente narrazione metastorica e identitaria che le accomuna spiega anche la loro capacità di sopravvivere nel tempo e di alimentare le destre post-moderne che, in orizzonti storici differenti, utilizzano quelle culture come referente mitico.

L'indagine sulle persistenze e sulle pulsioni che rendono possibili il fascismo, le sue trasformazioni e permutazioni, è un prezioso antidoto al veleno della semplificazione che affligge la storia pubblica e si riflette nella crisi della democrazia. Il pensiero mitico della cultura di destra ha promesso illusorie scorciatoie per società in crisi: la sua decostruzione assume grande valore per la promozione di una diversa ragione politica sempre più necessaria nel tempo presente.

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