Furio Jesi: il mito ha cinquant'anni

25 Agosto 2023

Mito di Jesi viene pubblicato per la prima nel 1973 nell’Enciclopedia Filosofica Isedi, per poi essere ristampato diverse volte, fino all'attuale edizione curata da Andrea Cavalletti (Quodlibet, 2023) e arricchita da un testo inedito di tema egittologico (La nascita dello spazio-tempo). In questo testo, il critico torinese traccia le linee di una storia culturale della scienza del mito, dal mondo antico fino all’età contemporanea, per poi mettere a fuoco un metodo critico e decostruttivo, in ultima istanza politico, che rappresenta il suo tratto originale e la sua eredità principale. 

Da lontano, nel tempo

La distanza caratterizza la ricezione moderna dai miti: è impossibile quel rapporto vivo con l'esperienza del mito, a cui modelli teorici metafisici, post-idealisti e fenomenologici largamente diffusi tra Otto e Novecento guardano con nostalgia. Radicalizzando il magistero di Kerényi (di cui quest'anno ricorre il 50° anniversario dalla scomparsa), Jesi sottolinea la separazione tra ‘mito’, l'inconoscibile quid dell’origine, e ‘mitologia’, i racconti storici sull’origine. L'excursus parte dalla Grecia: mythos è racconto che esprime una forma elementare di rapporto con il non-visibile, “voce dei morti” che istituisce una religione della comunità; da qui il significato di “parola efficace”, carica dell’«autorevolezza di un passato consacrato» e dell’«intrinseco valore dell’evocazione del tempo trascorso». Dopo Platone, inventore del genere di racconti «intorno a dei, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà» (Rep, 392 a), si innesca il processo di elaborazione del mito come antagonista della ragione, disseminato tra storiografia, filosofia e letteratura. Tale plasticità e disponibilità alla risignificazione ne spiegano la durata nel tempo nelle diverse costellazioni culturali.

Dal Settecento il canone della mitologia classica, già primizia dell'umanesimo europeo, è l'immenso repertorio culturale coestensivo alla costruzione delle identità nazionali; il linguaggio mitico diventa il prototipo del sapere di “selvaggi” e “primitivi”, diversi la cui definizione serve a stabilizzare l'identità bianca europea, ma anche codice iniziatico per le correnti esoteriche dentro la razionalità occidentale; nell’Ottocento, anche in reazione alla trasformazione della società industriale e ai paradigmi meccanicistico-materialisti, la mitologia si risacralizza trasformandosi in voce di verità originaria e profonda, secondo la concezione estetica e metafisica che soppravvive nel Novecento. Su tali premesse, l’accesso moderno alla mitologia non può che configurarsi come studio dei diversi modi di rapportarsi a quell’oggetto: «nell’ambito della “storia del mito” l’unica scienza oggi possibile è la storia della storiografia». 

Il mitologo dovrà porsi fuori dal cerchio magico del mito, per disinnescare il valore con cui le sue parole diventano parole di potere. La forma mitica è sempre stata infatti efficace per affermare il valore di verità che si vogliono indiscutibili e l’ipostatizzazione del mito è il presupposto della “tecnicizzazione”, del suo uso strumentale che ogni discorso politico, e in particolare la cultura di destra, mette in circolo e consegna al legame indissolubile con il potere. Così Jesi nei primi anni Settanta elabora il concetto di «macchina mitologica», alla cui genesi e al rapporto con le prospettive teoriche di Jesi è dedicata la post-fazione di Cavalletti. Un modello gnoseologico che delinea i meccanismi di funzionamento delle manifestazioni mitiche depotenziandone il fascino che deriva dalla “fame di mito”, il desiderio di mistero & segreto che solca la tradizione umanistica. Il cuore della mitopoiesi è una scatola nera, luogo inavvicinabile da cui si genera il racconto. Per questo in Mito la macchina mitologica è presentata come una «immagine [...] per definire la forma di un congegno che produce forme di epifanie di miti e che nel suo interno, di là dalle sue pareti non penetrabili, potrebbe contenere i miti stessi – il mito –, ma potrebbe anche essere vuoto». Questo congegno – storicamente determinato ma tenace nel negare di esserlo – fabbrica “materiali mitologici” che in quanto tali si presentano come originari, duraturi ed eterni e al tempo stesso produce l'illusione di celare nel suo interno invisibile la segreta sostanza che li garantisce. In questo modo può promettere l'originarietà, durevolezza ed eternità che stanno alla base di ogni istanza di fondazione metafisica.

Jesi formula così una serie di istruzioni esorcistiche per sottrarsi al “mito del mito”, che rendendo possibile la sua tecnicizzazione estrema ha caratterizzato la cultura europea nel Novecento con la manipolazione ideologica operata dalle culture conservatrici, reazionarie e fasciste che se ne sono servite come strumento di legittimazione e di proiezione palingenetica verso il futuro. 

Arrestandosi ai primi anni Settanta, Jesi mostra il progressivo venire in chiaro nel Novecento di prospettive metodologiche (su tutti Freud e Jung, Benjamin, Lévi-Strauss, Kerényi, Dumézil) che studiando i processi mitodinamici con una prospettiva umanizzante si oppongono alla concezione della destra tradizionale, in funzione difensiva rispetto a quelle posizioni intellettuali che (come nel caso di W.F. Otto, Eliade, Heidegger) hanno fatto del mito uno strumento dell'«interpretazione mistica della storia» strettamente intrecciata con le culture politiche. Lo studioso torinese, in sintesi, intende infrangere le certezze metafisiche di chi vede nel mito una sostanza ma anche mettere in crisi la sicurezza positivista e storicista che ha fatto del mitico il paradigma dell'errore, senza coglierne meccanismi, funzioni e significatività – temi su cui seguiranno le pagine di Esoterismo e linguaggio mitologico (1976) su Rilke e dei Materiali mitologici (1979) su Wittgenstein. La critica del discorso mitico si articola dunque nella presa di distanza dal fondale metafisico del mito e al tempo stesso nella messa in luce delle sue risorse immaginative: Jesi tratteggia un modello teorico del mitico, tale da evidenziarne le modalità di funzionamento meccanico e gli automatismi stratificati nella storia e nel linguaggio.

Di ciò che non c'è

«Quanto più – dunque – ci si avvicina al tempo presente, tanto più si ha modo di osservare che la “scienza del mito” tende a configurarsi nitidamente come paradossale scienza di ciò che per definizione non cè», scrive Jesi. Il mito è imparentato con ciò che resta del “miracoloso” come esperienza umana della relazione «con ciò che paradossalmente è perché non è». Quella del mito è scienza di ciò che ci non-è, dell'inesistente che in qualche modo insiste sull'esistente. I miti circolano tra le persone negli spazi e nei tempi, evocano verità di ordine superiore, presentificano cose che sanno di ulteriorità, consolidano identità individuali e collettive, generano conseguenze realissime. Forte di un’immagine che induce a pensare a un marchingegno e ad automatismi obbligati, la macchina mitologica designa dunque l’elaborazione teorica sulla scienza del mito, l'insieme di teorie e immagini che nel corso del tempo sono state fornite sulla mitologia, la rete di miti e riferimenti che si collegano tra loro nella ricezione, il tipo di vertigine e fascino prodotto e che induce a occuparsene. 

Jesi ha così spostato l’attenzione dal mito alle forme mitologiche e da lì alle modalità che producono i materiali che si qualificano come mitologici. Miti, finzioni e luoghi comuni sono racconti dotati di una presenza nell'immaginario che, con la sua capacità di generare orientamento e coesione sociale, alimenta pratiche e incide sul reale: i fatti mitologici pur dichiarando una provenienza super-umana sono nella storia, in quanto tali portatori di interessi di ordine materiale e politico, e contribuiscono a determinare, stabilizzare, diffondere le basi dei contesti che li producono. La mitocritica dunque interroga ciò che si presenta come naturale, eterno e dotato di legittimazione sacralizzante per mostrare chi e cosa lo ha prodotto, per quale fine e in quale modo.

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Il lavoro di Jesi (che negli ultimi anni ha insegnato lingua e letteratura tedesca) si interrompe tragicamente con la sua improvvisa scomparsa nel 1980 e, radicato nel lungo dibattito sul mito generatosi dagli anni Sessanta, confluisce nella più generale svolta decostruttiva che nel decennio successivi (penso in particolare ai lavori di Detienne, Veyne, Dubuisson, Strenski) al crocevia tra critica letteraria, antropologia, semiotica e critica dell'ideologia. 

Le forme di Proteo

«Per quanto la progressiva secolarizzazione e laicizzazione della cultura contemporanea sembra aver messo in un angolo i temi del mito e del sacro, questi due fenomeni sono rifioriti lontano dai luoghi deputati: nella musica, nelle droghe estatiche, nella paraletteratura, nelle fantasie new age, nelle tecniche del corpo, nelle filosofie pratiche dell’anima, in quella cultura popolare che è un grande calderone in cui bollono senza sosta molti ingredienti che solo settant’anni fa appartenevano all’“alta cultura” o alle esperienze di piccoli gruppi elitari. La “macchina mitologica” [...] continua a funzionare anche in assenza dei miti tradizionali» (Belpoliti, 1999). La meccanica della “macchina mitologica”, grazie alla messa in luce del bricolage ideologico attivo nei processi comunicativi, aiuta a decodificare le dinamiche mitopoietiche del presente. Il suo portato critico è ancora vitale, non solo in ragione del fatto che il repertorio ideologico delle destre nel presente deriva dal riferimento mitico a quelle del passato: negli ultimi decenni, le destre di governo si sono date all'arrembaggio dell'egemonia culturale, forti di un consenso che arride sia dalla versione neoliberale-mercatista che da quella populista-metafisica. Dall'altro lato, le sinistre ufficiali in crisi di identità sembrano incapaci di elaborare un discorso efficace, autonomo e nuovo in assenza di un’idea di futuro (spesso vivendo sul proprio nostalgico immaginario e capitalizzando la dimensione estetizzata del proprio passato): uno degli aspetti più interessante dell'analisi di Jesi consiste nel mostrare come la cultura di destra, per stile e linguaggio, sia radicata in tutti i linguaggi monumentali, identitari, retorici (anche di chi si ritiene di sinistra).

Nelle società contemporanee i sistemi di comunicazione ipermediale, la diffusione di “post verità”, la manipolazione degli stati emotivi degli spettatori-attori spingono a confermare le credenze di partenza dei soggetti. «Dalla psicologia delle masse alle teorie del complotto, dalle infografiche di Instagram alle stategie di personal branding: ci confrontiamo ogni giorno con un immaginario collettivo sempre più affollato di miti, meme e iperstizioni», «narrazioni dotate di grande potere performativo» (Guariento, 2022) che costituiscono la versione post-moderna della magia cerimoniale, discorsi di potere in grado di produrre effetti a distanza in particolare grazie alla capacità simbolica di determinati segni o immagini di catalizzare processi di valore emotivo e cognitivo. Le iperstizioni sono capaci di produrre soggettività nei termini “profezie che si autoavverano” tali da spingere con un surplus di determinazione psico-motoria individui e gruppi a creare le condizioni per la realizzazione di ciò che è creduto. Come la macchina mitologica è al centro di un discorso che si regge sul rinvio al mistero, ogni regime di credenze si organizza attorno a un rinvio all'opacità e si fonda sull'iper-concentrazione di valore del simbolo, tanto più potente quanto è muto; in questo senso, il mitico chiede ai soggetti di aggiungere il non-detto richiamando repertori e palinsesti già consolidati.

Tra gli effetti delle macchine mitologiche attive nella storia figurano l'invenzione della diversità e la normalizzazione delle asimmetrie di diritti (che legittimano la violenza), come nel caso delle retoriche della razzializzazione e dell'antisemitismo, che nella storia sono un tratto di lungo periodo e sono caratteristiche – sebbene non esclusive – della cultura di destra. Analoghe nella forma e dei contenuti all'“accusa del sangue” e ai Protocolli dei savi anziani di Sion, sono recenti i casi dei fantomatici “piano Kalergi” o “QAnon”, fantasie di complotto che, attorno ai temi delle migrazioni o dei “poteri forti” crescono intorno al prototipo della denuncia di una realtà nascosta. Questi fenomeni hanno elementi da culto, dinamiche da setta e da gioco di ruolo, e presentano tratti paranoidi (nella loro narrative esisterebbero élite mostruose e demoniache di soggetti diversi dalla gente normale, votate al male e alla perversione): in queste epiche degenerate che prendono la forma di “rivelazioni” o “risvegli”, si rifugiano persone colte da ipertrofico senso del disvelamento che favoleggiano modalità persecutorie e vittimarie ai danni di soggetti presentati come innocenti e impotenti, in cui queste si rispecchiano. Tipici della mitologia sono contenuti e meccanismi narrativi con cui le fantasie di complotto si diffondono: dietro l'affabulazione complicata e lo shock da rivelazione morboso-scandalistica si muovono manipolazioni progressive e interventi di attori con finalità diverse, con reversioni di schemi tradizionali e luoghi comuni, o fraintendimenti di frames iniziali che assumono nuovi significati nel processo memetico (come scherzi e iperboli prese in senso letterale), con un iniziale carattere intenzionale che viene poi alimentato in modo casuale dalla circolazione virale. Questo vocabolario mitologico, che del mito antico mutua i tratti della concentrazione di significatività, eccezionalità e tortuosità, è una rete di senso che sostiene narrazioni improbabili, le fa apparire come più-vere secondo il paradigma gnostico-ermetico, cambia il senso comune sul passato e le letture della storia (come ormai avviene da tempo con la massificazione della contro-storia). Una lingua tecnicizzata e levigata dal tempo è a disposizione per essere utilizzata e consumata da soggetti incuranti di fatti, prove e verosimiglianza, dalla comunicazione politica alla cultura pop accomunate da un unico linguaggio degli affetti.

Jesi ha saputo intravvedere l'assorbimento del dispositivo della cultura di destra nella società del mercato e dei consumi, la sovrapposizione con i linguaggi della pubblicità e la capacità di penetrazione della “metapolitica” di fine XX secolo. Non solo per l'effetto di sdoganamento e legittimazione di forze politiche un tempo impresentabili, ma anche per la reciproca compenetrazione tra valori di mercato e spiritualizzazione. Reputazione, hype e coolness – elementi centrali nell'economia della fama – sono fenomeni neo-mitologici. Nella società dello spettacolo, del consumo e dell'intrattenimento continuo la comunicazione di massa si è caratterizzata sempre più per ostentazione, “autenticità” esibita, kitsch, trivialità, infantilizzazione, fanatizzazione, sia in chiave letterale che con l'alibi dell'ironia e dello humor, secondo una dinamica di disintermediazione radicale e di diffusione dell'eccezionalità un tempo destinata ai pochi prescelti di un'élite dai tratti divini: tali elementi sono portati all’estremo dai meccanismi di polarizzazione e dalla viralità garantita dagli algoritmi dei media sociali, facendo da collante per istanze comunitariste online e offline.

La sfera pubblica segmentata in bolle, nicchie e camere dell'eco, è satura del brusìo di una versione contemporanea del “chiacchiericcio” di cui scriveva Arendt: una poltiglia di segni caratterizzati dalla riformulazione ipertrofica e stilizzata di rapporti, relazioni e prassi del passato intorno ai temi della nazione, dell'etnia, del genere e dell'eroismo vagheggiati per superare le difficoltà e le contraddizioni del presente, in funzione di propaganda elettorale e nelle agende politiche. I racconti identitari del presente, continuamente ripetuti dai flussi personalizzati quotidiani di dati, come i racconti mitici di un tempo assolvono la funzione di ridurre la complessità per società perennemente in crisi e affamate di stabilizzazione, selezionando, distorcendo, indirizzandone gli elementi di leggibilità.

I dispositivi tecnologici sono divenuti talismani magici, forze soggettivanti che hanno potenti effetti neurochimici in grado di dare dipendenza; così le dinamiche impresse dai social media tendono a radicalizzare i loro effetti con efficacia, grazie alla moltiplicazione di piattaforme specializzate nelle varie dimensioni della vita, dal lavoro al tempo libero, dalla socialità alla creatività. Il tempo denso dei laptop e dei cellulari illumina le esistenze, le rimaterializza in uno spazio di individuazione teso tra gli estremi della distinzione e della pressione sociale, che assume tratti redentivi. Mutevoli e infiltranti, i nuovi fatti mitologici sembrano essere ancora una volta racconti di esonero dai dolori e dalle fatiche del presente.

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