Buone ragioni per il Giorno della Memoria

27 Gennaio 2024

Dopo anni di discussioni sul senso, sugli effetti e sul ruolo assunto dal Giorno della memoria nella memoria culturale e civile, il 27 gennaio del 2024 segna un momento di particolare difficoltà e disagio. Dalle lucide analisi uscite in questi giorni emergono fondate preoccupazioni riguardo l'attualità civile e pedagogica del valore del Giorno della Memoria, e in generale della memoria della Shoah e delle persecuzioni nazifasciste nel Novecento, a fronte del clima politico generale e in particolare in relazione alla tragedia in corso a Gaza.

Con l'intenzione più di porre più domande che di dare risposte, quella che segue è una riflessione che riguarda specialmente la scuola e l'insegnamento, pensata da chi e per chi ci lavora.

 

Viviamo in un momento storico segnato dalla guerra e dal terrorismo in scenari di crisi diversi e complessi, come quelli di Israele e Palestina, dell'Ucraina e della Russia ma anche quelli meno noti e coperti mediaticamente come in Artsakh/Nagorno Karabach e nell'Africa sud-sahariana e centro-orientale, che coinvolgono sempre di più le società europee nel loro intreccio con il mondo globale. Se la guerra sembrava confinata in altre dimensioni del tempo e della storia, fatichiamo a comprendere pienamente il fatto che essa sia una realtà presente che caratterizza i nostri tempi, con una sua fisionomia allo stesso tempo 'classica' e per certi versi nuova e 'ibrida'. Tempi sfuggenti che non sappiamo ancora come chiamare e in cui la guerra non è così lontana.

A scuola, dove il presente fa fatica a trovare spazio e il secondo Novecento è una presenza flebile, nelle varie periodizzazioni insegniamo la storia della subalternità, della discriminazione, del razzismo, della schiavitù e del colonialismo; e quindi della deportazione politica e razziale nei campi nazisti, della violenza politica di massa, della Shoah e dei genocidi nel Novecento con l'obiettivo di aumentare la conoscenza storica e, in ottica di cittadinanza, per promuovere la difesa dei diritti umani, il rifiuto dei razzismi e il contrasto delle derive autoritarie nelle società democratiche. Lo facciamo per fare della scuola un luogo di affermazione dei valori costituzionali della democrazia, dell'inclusione e dell'antifascismo, e dunque una comunità in cui si costruisce la grammatica di base per il vivere insieme e per il padroneggiamento dei principali strumenti critici di lettura della contemporaneità.

La storia della Shoah con il suo carattere inedito e la sua specificità è diventata l'«idealtipo del genocidio», «prototipo della narrazione del Male» e «incarnazione del Male assoluto» (Flores, 2018), ha ricoperto il ruolo di paradigma inclusivo e tragico compendio della violenza politica del panorama novecentesco e ha assunto il ruolo di sineddoche etica di carattere universale. Questo è avvenuto con le migliori intenzioni e all'interno di una dolorosa dialettica di riconoscimento dei soggetti coinvolti e di un lungo processo di strutturazione della memoria culturale, mentre le retoriche del never again gli si sono strette intorno, avvitate all'industria culturale e alla cultura pop con effetti problematici e discutibili.

Approfondire e produrre momenti di formazione sulla storia del genocidio ebraico e rom-sinti, della deportazione politica, del lavoro schiavo e della persecuzione dei tanti soggetti considerati “estranei alla comunità”, della guerra ai civili e della repressione nazionalsocialista, fascista e sovietica – ma anche della cultura e della storia delle minoranze –, ha significato innovare le didattiche della storia in chiave interdisciplinare; e significa la possibilità di ampliare la sfera di interesse e intervento ad altri soggetti, luoghi e tempi indagati dalla ricerca storica e sociale secondo le più recenti linee pedagogiche e storiografiche di respiro internazionale. È a scuola che si raccolgono i tanti pezzi del discorso pubblico ed è qui che si vive con più fatica e corrispondente impegno l'educazione all'empatia verso l'altro e il lontano e, attraverso la storia, il contrasto alla diffusione dell'identitarismo e dei neo-postfascismi di ritorno; è qui che si disinnescano le offensive e surreali semplificazioni e analogie tra eventi storici di portata tragica che negli anni si sono viste circolare (e che durante la crisi Covid-correlata hanno raggiunto livelli davvero bassi), nelle strade come nelle accademie.

Partire da queste premesse porta inevitabilmente a riflettere sul cortocircuito nel rapporto tra passato e presente, che si genera in particolare ove non vi siano onestà intellettuale, coscienza critica, controllo del linguaggio e adeguate conoscenze storiche. Con grande realismo non si può non riconoscere come le estreme e sconcertanti scelte politiche, sociali e militari del governo israeliano nei territori palestinesi e nella striscia di Gaza, e in particolare quelle seguite alle brutali stragi e violenze terroriste di Hamas del 7 ottobre 2023 e alla crisi degli ostaggi, rischino di depotenziare, offuscare e minare il discorso pubblico sulla Shoah. A seguito di tali azioni di portata geopolitica e della catastrofe umanitaria che ne deriva, nelle opinioni pubbliche internazionali si incrociano e sovrappongono il discorso sulla memoria delle vittime ebree durante la seconda guerra mondiale e la critica delle pratiche di guerra di Israele – uno stato democratico in crisi interna, governato da una destra radicale e in stato emergenziale strutturale – il cui esito è il massacro di migliaia di civili palestinesi e una costante violazione dei diritti umani.

Sono diverse le distorsioni storiche e gli abusi di 'analogismo' in questo cortocircuito. Per dirlo nel modo più semplice possibile: un evento del passato avrà certamente effetti sul futuro, mentre i fatti del presente non possono modificare il passato ma al limite retroagire sulla sua percezione di quello, che proprio per questo motivo può essere oggetto di un uso ideologico. Così certamente gli effetti del campo gravitazionale della Shoah superano il suo tempo, ma gli ebrei di ieri non sono quelli di oggi e non coincidono con gli israeliani; senza dimenticare che il modo di vivere, interpretare o riferirsi a quell'eredità traumatica nel mondo ebraico, di Israele, della diaspora, delle diverse comunità, dei singoli, è multiforme, variegato e irriducibile a una visione unitaria della medesima storia.

La distruzione degli ebrei d'Europa è il culmine di una lunga storia di subalternità che dice molto sull'azione delle maggioranze e della violenza nelle società in cui vivono una o più minoranze. Si tratta di una storia che ci ha aiutato a capire la coestensività di fascismi e violenza, i meccanismi totalitari e le ambiguità della 'zona grigia', le contraddizioni della tecnica e della modernità occidentale anche negli aspetti burocratici ed economici; che ci ha spinto a cercare le differenze tra i giusti, i carnefici e gli spettatori, a gestire le difficoltà di tenere insieme i piani storici, quelli giuridici e quelli etici, con una lezione in cui si stringono attenzione alla complessità e sensibilità etica.

L'idea della “vittima che diventa carnefice” mi pare insufficiente e semplificatoria rispetto alle dinamiche della trasmissione intergenerazionale dei traumi e delle più complicate geometrie del potere che si esercitano ovunque un gruppo dominante e una parte trainante dell'opinione pubblica arrivino a desiderare società chiuse, omogenee e identitarie, nemiche di ogni pluralismo e rivolte a un passato mitico, da raggiungere con mezzi estremi e in nome di interessi superiori, ideologicamente legittimati. Nelle retoriche storico-politiche del presente il paradigma vittimario che fa degli oppressi – qualsiasi oppresso – una vittima idealizzata ed esclusiva è diventato anche un modo di strumentalizzarne la tragedia. Dove il discorso assume caratteristiche metafisiche o ideologiche e diventa una martirologia per il supporto di una identità politica, il sapere storico non potrà entrare né per comprenderne né per discuterne gli assunti. All'interno del conflitto di memorie, in tempi e in contesti anche molti differenti questo può avvenire in diversi modi, con un medesimo dispositivo che fa delle vittime del passato un sostituto simbolico per una qualche forma di 'risarcimento' della storia o di rivendicazione conflittuale nel presente.

Nutrendo dubbi sulla legittimità della categoria di nazione come marcatore di identità rigide ho sempre reagito con fastidio all'uso spregiudicato degli 'etnonimi', cioè nomi collettivi come 'tedeschi' e 'italiani', nei discorsi comuni e ancora di più se si parla di storia, dove i termini si associano più o meno inconsciamente a un teatrino di sapore eroico-evenemenziale fuori tempo massimo, su cui la metodologia del sapere storico ha molto da insegnare.

Nel discorso pubblico e nelle discussioni private spesso mancano accortezza e cautela proprio nell'usare lemmi come 'ebreo', 'israeliano' e 'palestinese', che più di altri si caricano di aspetti simbolici inesplicitati: di questi errori, di grammatica storica innanzitutto, si alimentano le macchine logiche e linguistiche che producono i tanti discorsi antisemiti o antiarabi che prendono vita sulla base di repertori consolidati all'interno di cornici storiche semplificate, di cui sono intessuti i “racconti del presente”. In base a un analogo uso pubblico della storia, la difesa di un governo nazionalista, identitario, militarista, di ultradestra da parte di altri Stati, serve all'interno delle agende politiche a confermare alleanze e difendere posizionamenti strategici nell'area o a ripulire le coscienze dal passato nell'ottica della autorappresentazione nazionale: il sostegno incondizionato al diritto alla difesa di Israele permette oggi alle destre mondiali di far dimenticare il fatto di essere state storicamente antisemite (e di continuare ad avere antisemiti nella propria base).

D'altro canto, l'antisemitismo e i luoghi comuni antisemiti – parole, immagini, allusioni – sono fortemente radicati nel discorso politico di ogni parte; ma è altrettanto vero che è molto facile accusare di antisemitismo ogni critica alla politica israeliana, togliendone ogni legittimità in partenza, indipendentemente da quali siano le ragioni e le intenzioni di chi le formula.

Nel mondo in cui viviamo, l'abuso della lingua praticato istituzionalmente (e talvolta sancito da leggi) e l'incapacità di usare le giuste distinzioni finiscono per risultare solidali nel disastro comunicativo che caratterizza la sfera digitale.

Se il Giorno della memoria si è consumato, lo si deve alla cristallizzazione comportata dall'obbligo memoriale sancito per legge e al modo in cui questo è stato trasformato in un dispositivo comunicativo spettacolare ed emozionale, codificato e standardizzato. Il suo nucleo incandescente però continua a bruciare. Per questo ha senso difendere le attività educative che derivano dal “buon uso” del Giorno dalla memoria, anche problematizzandone le manifestazioni più stanche, per salvarlo dal triste destino di ridursi a una retorica istituzionale e edificante, interpretata in modo goffo e interessato anche da chi ai valori di democrazia e tolleranza fa fatica a ispirare il proprio modo di vivere e pensare le relazioni. La storia della Shoah, per il suo significato nella storia mondiale e nella coscienza dell'Europa contemporanea, dell'Italia post-fascista e dell'ebraismo deve continuare a esercitare il tragico magistero civile dei diritti umani, dell’antirazzismo e della democrazia, per il quale vanno intensificati sforzi educativi e ampliati ambiti di azione. Proprio per l'oscurità dei tempi è compito della scuola e delle istituzioni educative sensibilizzare alla violazione dei diritti umani, civili e sociali, ovunque questo accada, al fine di promuovere un atteggiamento critico, volto al ripudio della guerra, al rispetto della persona e alla difesa della democrazia e del pluralismo; con particolare preoccupazione per il coinvolgimento dei civili e dei soggetti più fragili: donne e bambini sono da sempre prime le vittime della violenza. E dunque è auspicabile essere capaci di parlare delle troppe inquietudini e fratture del presente, beninteso con spazi, tempi, luoghi, toni e letture adeguate, per rispondere ai bisogni interpretativi di un mondo globale e post-coloniale.

A chi oggi ritenesse problematico o contraddittorio fare iniziative didattiche e commemorative per il Giorno della memoria nel 2024 risponderei che credere nel suo valore è pienamente coerente con la richiesta urgente e accorata di un Cessate il fuoco immediato e permanente in Medioriente; di pace e sicurezza; del ripristino del diritto sia negli Stati sia a livello internazionale; di una diplomazia volta alla risoluzione pacifica delle controversie sul piano geopolitico. E tutto questo, sapendo di dover lavorare per la promozione della sensibilità storica nell'opinione pubblica e condannando il consolidarsi, in Europa e nel mondo, dell’antisemitismo e dell’islamofobia, dei molti razzismi e di ogni espressione di una cultura escludente dell'identità.

Mantenere la memoria significa lavorare per un presente diverso: la comprensione del passato deve essere utilizzata per vigilare sull'oggi, secondo il senso che molti testimoni della Shoah e della deportazione nella galassia concentrazionaria nazista hanno voluto dare alle loro parole. Questo credo dica Primo Levi, quando scrive la lirica del Canto dei morti invano, in cui un esercito di trapassati di diversi tempi si rivolge ai potenti della terra affinché trovino con la negoziazione la soluzione politica per porre fine all'orrore; o quando, in uno dei saggi di L'asimmetria e la vita, constata quanto sia «oggetto di costante meditazione e di raccapriccio, vedere i semi del fascismo attecchire negli stessi paesi (…) a cui il mondo deve la sconfitta del nazifascismo».

 

Leggi anche

Per una rassegna degli interventi dedicati da Doppiozero alla Giornata della memoria, vedi, vedi la pagina che li raccoglie.
Tra gli articoli usciti in questi giorni a cui si fa riferimento all’inizio della ‘articolo, segnaliamo le osservazioni di Enzo Traverso del novembre scorso, e quelle più recenti di Anna Foa, di Carlo Greppi, di David Bidussa (sul Domenicale del Sole 24 ore), di Bruno Montesano e di Masha Gessen.
Sull’uso retorico e lo sfruttamento dell’industria culturale del never again è possibile leggere due articoli da Altre modernità qui e qui su Doppiozero.
Sugli insegnamenti della metodologia del sapere storico si vedano, per esempio, due recenti articoli di Repubblica e di Il tascabile.

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