Tropici, farfalle, immigrati e clandestini
Fantastiche, le farfalle tropicali sono davvero fantastiche! Questo pensavo quando, da ragazzino, consultavo le pagine del piccolo manuale sulle farfalle che noi chiamavamo, affettuosamente, “il Martello”. Insetti enormi, coloratissimi, iridescenti, impensabili. C’erano le fotografie degli stupendi Morpho dell’Amazzonia – farfallone blu come il cielo e lucide come specchi – e delle ornitottere delle Molucche e della Nuova Guinea – insetti giganti, dai colori verdi, blu, arancio brillanti con bande nere opache: le più prestigiose tra tutte le farfalle, pagate a peso d’oro dai collezionisti e protette, oggi, dal commercio folle da parte dei Paesi che le ospitano. E ancora le eliconidi della foresta pluviale amazzonica – farfalle colorate di rosso-nero e bianco, che volano lievi come libellule; e le danaidi arancioni, quelle della stessa famiglia delle monarca, le farfalle notissime a tutti, che migrano dal Messico al Canada seguendo un istinto, che non si comprende appieno, da migliaia di anni. Vedendo quelle immagini, un po’ si soffriva pensando ai nostri praterelli collinari ove ci si imbatteva sempre e solo nelle banali cavolaie bianche. Le farfalle tropicali erano un sogno affascinante ma irraggiungibile a quei tempi, meglio scordarsele.
Tuttavia, ogni tanto, qualche accadimento risvegliava la mia attenzione per quelle bestie tropicali. Un giorno, ad esempio, un tipo che lavorava in Nigeria arrivò a casa con un papilionide magnifico, giallo e nero, non molto dissimile dal nostro macaone, ma senza codine e molto più grande. Lo aveva portato per il figlio dentro ad una busta di nylon, schiacciato e appiattito, ma incredibilmente affascinante. Invidiai quel ragazzino a cui delle farfalle non importava nulla: aveva il papilionide nigeriano nelle sue mani ed io le mie banali cavolaie. Infatti, ci stetti male per dei mesi; e quello non me lo diede.
E come non ricordarsi di un altro evento fantastico? Alla metà degli anni ‘60 del secolo scorso, il Topolino, che leggevo con grande passione ogni settimana, festeggiò il suo numero 500 e, a mio avviso, lo fece nel modo migliore. Ricordo che andai a comprarlo, come sempre il venerdì al ritorno dalla scuola, dallo “Stachio” (piemontesizzazione di “Eustachio”), il giornalaio della via centrale di Vallemosso, quello che vendeva anche le mitiche figurine dei calciatori Panini. Il negozio dello “Stachio” si riconosceva a distanza semplicemente guardando a terra sull’antestante marciapiede dove, nella stagione giusta, si potevano riconoscere centinaia di colorate bustine vuote gettate dai ragazzini impazienti dopo averne estratte le figurine, una sorta di marciapiede carnevalesco, dove i coriandoli che colorano il cemento erano rimpiazzati dagli involucri Panini. Ebbene, quel venerdì ci fu la grande sorpresa. Comprai il Topolino, ne ammirai la copertina particolare, mi accorsi che era più spesso del solito e poi, ansioso, lo aprii per vedere che cosa era la sorpresa annunciata. Il giornaletto conteneva al suo interno una bustina in carta trasparente dentro alla quale stava una sorta di fiore essiccato, di cui rimanevano solo le nervature, sul quale era incollato un rudimentale corpo di insetto in carta che sosteneva le 4 ali di una farfalla tropicale, a loro volta incollate al corpo cartaceo: uno stratagemma per appiattire il tutto e rendere la farfalla trasferibile dentro al nostro Topolino.
Così possedetti per la prima volta davvero una farfalla tropicale, o meglio, le sue quattro ali incollate. Era un pieride giallo dell’Asia, se ricordo bene, non molto grande ma alieno e del tutto nuovo per me. Ma il bello fu rendersi conto che nei vari numero 500 pubblicati in quel giorno, fausto per gli amanti delle farfalle (forse eravamo in due in tutto il Biellese), c’erano specie diverse, proprio come nelle bustine della Panini, e la caccia allora si indirizzò ai Topolini degli amici. C’erano, scoprii, i papilionidi verdi e neri della Tailandia, i quali valevano, a mio giudizio, almeno dieci volte i pieridi gialli e bianchi, oppure alcuni ninfalidi giallo–arancione. Furono giorni di grande eccitamento quelli: ad ogni amico la stessa implorazione: “su, dammi la farfalla...”. Così, portai a casa tre o quattro di quei fiori essiccati con le ali incollate, in cambio di qualche figurina o qualche favore scolastico.
E venne il giorno della prima antiopa. Non che questa fosse una farfalla tropicale, ma ne aveva tutto l’aspetto. Non la conoscevo affatto, la Nymphalis antiopa, questa grande vanessa dalle ali vellutate colore dell’ebano e dai grandi margini bianco-giallastri con piccoli punti blu lì vicino, che ama volare anche in alto, veleggiando come un aliante, tranquilla e maestosa se non disturbata ma robusta e possente non appena, spaventata, si allontana sbattendo vigorosamente le ali. Una grande volatrice, una specie che a me parve tropicale.
La vidi per la prima volta a Miagliano, dietro casa, nel praterello della valletta stretta tagliata in due dal piccolo rio detto “l’orial” e costeggiata, a quei tempi, da boschetti di gaggie, frassini, roveri e castagni radicati sulle ripe scoscese che salgono, dal rio stesso, al Castellazzo da una parte o alle “bazzere”, altopiano a felci e brugo, dall’altra parte. E’ questo un rio ben noto agli storici locali poiché si racconta, credo erroneamente, che da quelle parti fosse avvenuto il rogo della strega Giovanna da Monduro ai tempi di Fra Dolcino, 800 anni fa. L’antiopa mi apparve improvvisa, uscendo dall’ombra della boscaglia e posandosi sul tronco di una gaggia ben visibile. Le mie gambe cominciarono a tremare dall’emozione: forse questa era una farfalla tropicale, pensai, viste le sue dimensioni e quei colori ignoti. Forse viene dall’Africa anche questa. Furono pochi i secondi, mi avvicinai con il mio retino, glielo buttai addosso, ma quella fu ben più veloce di me e si involò rapida da un lato mentre il filo di ferro del retino urtava il tronco. Spaventata, la vidi alzarsi rapidamente e robustamente sino a raggiungere le cime delle piante sulla ripa che sale alle bazzere e sparire dal mio sguardo pochi istanti dopo. Restai con il naso all’insù, demoralizzato, deluso e sofferente, pensando che la mia farfalla tropicale se ne era andata verso l’Africa che di certo doveva trovarsi a sud, oltre le “bazzere”. Scoprii poi a casa, leggendo il mio Martello, che era un’antiopa, specie dell’emisfero nord che gli americani chiamano “mourning cloak”, mantello da lutto, dato il colore scuro, con i margini che paiono i risvolti di una camicia chiara. Ma per me era e rimase per molti anni una specie esotica.
Ma in tempi più recenti, per trovare una specie esotica non occorre più andare ai tropici o lavorare di fantasia, come si faceva da bambini con l’antiopa. Infatti, in quest’epoca di immigrazione e di grandi movimenti di uomini in molte parti della Terra, non fa specie che anche una farfalletta bruna e timida se ne sia fuggita clandestinamente dal Sud Africa per raggiungere le nostre spiagge mediterranee, penetrando piano piano nell’entroterra all’insaputa di molti. Malgrado l’attuale assenza di idioti movimenti xenofobi che ne farebbero un casus belli nel mondo delle farfalle e delle conseguenti propagande da quattro soldi contro l’insetto “straniero”, va detto che la nostra amica africana non è affatto benvoluta dai floricoltori. Questi se ne preoccupano non poco, dato che quando è ancora un bruco vorace, la nostra ha l’abitudine, poco apprezzata da chi cresce gerani, di nutrirsene avidamente.
Sapevo da un paio d’anni che se ne erano trovate alcune anche in Italia, ma la sorpresa fu di osservare il Cacyreus marshalli, la “licena bruna dei gerani”, anche ai Giardini Pubblici di Biella nel 2005. Questa specie appartiene alla nostra fauna europea da una dozzina d’anni, essendo originaria dell’Africa australe: Sudafrica, Mozambico e Zimbabwe.
Le sue dimensioni sono minute, intorno a 2 cm di apertura alare; la colorazione è sobria dato che il colore dell’interno delle ali è bruno scuro e l’esterno con larghe strie marrone e bianco su fondo nocciola; inoltre, possiede due sottili codine, non più grandi di un capello. Il suo volo è vivace e saltellante da fiore a fiore, tanto che per le piccole dimensioni, il colore mimetico e lo stile di volo passa facilmente inosservata. Arrivò in Europa tramite l’importazione della pianta ospite della larva, la quale si nutre a spese di gerani ornamentali coltivati dei generi Pelargonium e Geranium. In natura, la prima osservazione in Europa della licena bruna dei gerani avvenne nel novembre 1989 nell’isola di Maiorca, ove la farfalla giunse probabilmente con un carico di fiori importati uno o due anni prima. In pochi anni, la piccola farfalla si insediò in Spagna continentale diffondendosi rapidamente, dapprima verso ovest e quindi ad est dove raggiunse la Francia occidentale nel 1997. Di qui colonizzò progressivamente il resto della costa francese per raggiungere infine, turista non richiesta, la riviera ligure e poi diffondersi rapidamente verso la Toscana e le altre regioni più a sud. Dalla riviera ligure la farfalla penetrò in Piemonte nei primi anni 2000, e successivamente si diffuse in varie località a nord. Nel milanese giunse nel 2003, ed infine, nell’agosto 2005, passeggiando per i giardini pubblici di Biella, la vedemmo intenta al suo passatempo preferito: svolazzare tra i gerani. Le femmine infatti saltellano con attenzione intorno ai germogli per deporvi con cura le uova; i maschi, più piccoli, tra un pasto e l’altro cercano le loro compagne per accoppiarsi, naturalmente. E lo fanno con grande efficacia, dato che nessuno riesce a fermare la licena bruna. Dalle uova nascono le piccole larve, disperazione dei floricoltori. Infatti, le neonate larve si nutrono inizialmente divorando i germogli dei fiori e le foglie; poi, passano all’interno dei fusti scavando delle mini–gallerie come delle autentiche “minatrici”; infine, da grandi, escono all’esterno per completare il proprio sviluppo ancora a spese di foglie e fiori. A questo punto, un mese dopo la nascita, la larva si incrisalida sulla pianta o tra le foglie secche e, due settimane dopo, nasce la farfalla adulta, pronta a cercarsi il partner per ricominciare il suo ciclo che può ripetersi parecchie volte all’anno, specie se fa caldo.
E così, anche nel mondo magico dell’entomologia, abbiamo il nostro immigrato clandestino venuto a noi in cerca di “impiego”. Ma ce ne sono altri di immigrati, ormai alla millesima generazione, compresi i bachi da seta e i suoi molti cugini che giunsero dall’Oriente secoli addietro e che ormai parlano benissimo l’italiano. Baco da seta a parte, i cugini importati come schiavi dall’Asia, visto che i loro manufatti non erano apprezzati, ora sono stati abbandonati al loro destino ed alcuni di essi si sono impiantati nelle nostre foreste dove vivono da selvaggi abusivi, forse, ma tollerati. Si dice che siano tra le più belle falene che si possano trovare, razze splendide e di grandi dimensioni, un tocco di Oriente a casa nostra. E di questo, caro lettore, ne parleremo a breve.