Rarissime erebie
Superato il confine di stato poco oltre Domodossola ci si trova nelle imponenti gole di Gondo dalle pareti verticali che scendono a picco sulla via scavata appena sopra al letto del torrente Krumbach nei pressi della sua congiunzione con lo Zwischbergenbach. A mezzora di strada sta il Passo del Sempione, su in alto a 2000 metri di quota, mentre poco oltre Gondo si aprono ad ovest due vallette: dapprima la Zwischbergenthal e poi la Lagginthal. Lungo quest’ultima, una straducola si inerpica per qualche centinaio di metri prima di finire in una sterrata che è poco più di un sentiero. È qui che fu scoperta alla fine dell’’800 una farfallina rarissima che fu chiamata Erebia christi dal suo scopritore in onore di un certo Christ. Da allora nacque un mito destinato a durare nei decenni successivi sino ad oggi.
A questa farfalla accennai in precedenza nel parlare del genere Erebia descrivendo le nostre processioni di paese verso il Santuario di Oropa. Tra gli insetti apparentemente insignificanti di questo genere, Erabia christi è la più rara tra quella cinquantina di specie che popolano le nostre Alpi e le altre montagne europee sino alla tundra del nord della Scandinavia e della Russia. Sono farfalle di piccole dimensioni, non molto attraenti, bruno scuro con macchie arancioni o piccoli ocelli spesso con pupilla nera e punto bianco al centro. Fu questo aspetto morfologico oscuro ad ispirare il nome di questo genere di farfalle satirine; infatti, nella mitologia greca, Erebos ( Ἔρεβος), figlio di Chaos e fratello della Notte (Nyx), rappresenta l’oscurità dell’antro del regno dei morti.
Dato, poi, che le erebie sono tutte molto simili tra di loro, fare la diagnosi corretta è spesso impresa difficile anche per l’entomologo esperto. La nostra erebia della Lagginthal non fa eccezione: infatti, è molto simile ad una cugina più comune ovunque sui monti europei, Erebia epiphron. E qui davvero ci vuole l’occhio dell’esperto per valutare come si allineano le sottili strie color arancio alle ali anteriori e identificare la presenza di un puntino nero nella macchia più in alto, sole differenze rilevanti rispetto alla cugina comunissima ovunque.
A causa della sua rarità, proprio come accadde al magnifico carabo di Olimpia dei monti biellesi, collezionisti e raccoglitori di insetti cominciarono a frequentare i suoi luoghi d’origine nella Lagginthal e a cacciare la rara farfalla. Nel 1985, le autorità cantonali del Vallese, preoccupate, decisero allora di mettere la parola fine a tutto ciò: proibirono la caccia alle farfalle nella valle di Laggin e addirittura di passeggiare muniti di retino per questi luoghi. In questo modo, si cercò di proteggere la rara specie e di far sì che il pericolo di estinzione fosse mitigato. E probabilmente gli svizzeri ci sono riusciti, anche se non si sa molto di cosa stia avvenendo poiché nessuno lo può verificare con certezza data la rigidità assoluta delle guardie elvetiche, ben note per non concedere alcuna flessibilità a chi incorra in irregolarità contro la legge.
Quindi, a quel punto il sogno di vedere la rara erebia in volo e non solo secca e stesa ad ali aperte nelle collezioni più sofisticate poteva appunto rimanere tale. Ciononostante, tentammo di salire alla Lagginthal usando sotterfugi per nascondere retini ed affini, ma il maltempo una volta e le condizioni della via sterrata un’altra, ci frenarono. Persa la speranza, con il passare degli anni tuttavia apprendemmo, parlandone con un noto entomologo e collezionista torinese, che probabilmente la rara erebia volava anche entro i confini italiani, lassù dalle parti della val Formazza, non molto distante dal Sempione. Febbrilmente, cercammo notizie più precise, ma la letteratura non diceva granché al riguardo.
E si cercò ancora sinché, entrati nell’era di internet, leggemmo una corrispondenza rivelatrice su di un sito gestito da un appassionato fotografo inglese che gira il mondo ritraendo farfalle. Costui aveva pubblicato magnifiche fotografie della rara erebia con tanto di immagini dell’ambiente in cui l’aveva trovata: su queste immagini si poteva scorgere, sullo sfondo, un lago dal color azzurro come il cielo e con le sponde ricche di frassini, pini e cespi montani.
Naturalmente, l'inglese si guardava bene dal rivelare il nome del luogo; infatti, conoscendo l’importanza del suo reperto e la necessità di salvaguardarne il segreto, parlava solo di «Alta Val d’Ossola». Questa è una lunghissima valle di almeno 40 km, verdissima e selvosa nella parte più bassa e ricca di pascoli alpini oltre i 2000 metri di quota sopra la cascata del torrente Toce, una delle più spettacolari in Italia.
Trovare dunque il sito ove cercare la rara specie è impresa ardua. Ma lo fu per poco, dato che sondammo le precisissime cartine dell’Istituto Geografico Militare fino a identificare alcuni luoghi candidati ad ospitare la rarità. Uno di questi, in particolare, attirò la nostra attenzione anche grazie all’avventurosa maniera di raggiungerlo: era una Valletta apparentemente isolata con laghetto alpino sita oltre i 1000 metri di altezza. Pareva proprio che l’unica via praticabile per arrivarci consistesse in un vecchio tunnel scavato per ragioni idroelettriche e dimenticato anche sulle cartine geografiche dettagliate che non fossero quelle dell’Istituto Geografico Militare.
Così, in una serena e calda giornata della prima settimana di luglio, accesi dal solito adolescenziale entusiasmo, salimmo verso quel luogo sospettato di ospitare l’habitat della nostra rara erebia. Per arrivarci, dopo parecchia strada nella valle principale, lasciammo la via che percorre parallela il torrente Ossola e ci inerpicammo su di un bastione laterale che era una vera e propria parete rocciosa.
La strada salì dapprima attraverso freschi boschi di frassini e faggi, e poi, più in alto, zigzagando nel bel mezzo di pascoli con genziane, timo e cardi. Ora una strada sterrata e sassosa era l’unica via per continuare. Anche questa non compariva chiaramente dalle carte. Si procedette lentamente a causa delle condizioni della via, con sassi e ciottoli di grandi dimensioni che rumoreggiavano al contatto con gli pneumatici della vecchia e sgangherata Volkswagen dell'amico Piscopo.
Dopo alcuni chilometri, questa sterrata irregolare e difficile terminò all’imbocco di un oscuro e stretto tunnel il cui accesso era vietato da cartelli segnaletici che invitavano chiunque fosse giunto sino a lì, a tornarsene a casa. Il segnale stradale era chiaro: «Vietato l’accesso ai non addetti». Ci si fermò a meditare sul da farsi, anche perché il tunnel era sbarrato a metà da un vecchio cancello arrugginito ma tuttavia non bloccato. Che fare? Avevamo raggiunto il luogo a fatica e il desiderio di cercare la nostra erebia era tale che decidemmo di procedere, malgrado lo spaventoso buio, la lunghezza ignota del budello in cui stavamo per cacciarci, e la strettezza della via.
La galleria, rudimentale nel suo scavo, consentiva solamente ad una piccola auto come quella di Piscopo di transitarvi giusta giusta sfiorando un’enorme condotta d’acqua che occupava metà dello spazio disponibile. L’auto affrontò questo antro buio e umido lentamente e con cautela, mentre l’amico Piscopo alla guida dava il meglio di sé per mantenere la giusta direzione ed evitare di toccare la rocciosa parete a destra o la grande condotta a sinistra. Non ci nascondemmo una certa claustrofobica ansia: bastava, ad esempio, che un’auto percorresse il tunnel in senso opposto al nostro per provocare un disastro in quanto uscire in retromarcia da un luogo così stretto sarebbe stato impossibile per chiunque. Lentamente e con cautela, e intanto si era percorso un buon chilometro, si cominciò a scorgere la luce del sole alla fine della galleria. La speranza di uscirne indenni ora aveva preso il sopravvento dopo la preoccupazione delle prime centinaia di metri e c’era infine aria di festa nella nostra piccola auto.
Quando uscimmo dalla galleria, ci trovammo alla base di un grande sbarramento in cemento grigio che si ergeva gigantesco sopra le nostre teste: era una diga che chiudeva la valle in questa strettoia naturale delle rocce, mentre la valle stessa si perdeva dunque in basso, oltre la diga, senza essere visibile da alcun lato al suo esterno in quanto chiusa tra bastioni granitici ricoperti, qua e là sui gradini rocciosi, da ciuffi di larici.
Dunque ora ho compreso, dissi a Piscopo: questo era un posto dimenticato da tutti e raggiungibile solo attraverso questa piccola galleria nascosta e non segnalata; arrivarci era un’avventura, un po’ come nelle storie di Tex Willer che, in un modo o nell’altro, scopre regolarmente anfratti segreti tra i canyon del West americano ove vivono strane tribù sconosciute in un mondo sovente surreale.
Così pareva essere il caso della nostra erebia rarissima. Salimmo all’altezza del coronamento della diga attraverso un erto sentiero al suo fianco trovandoci ben presto di fronte allo spettacolo verde e blu della valle segreta che faceva da bacino a un lago color turchese. A monte e ai due lati erano pareti rocciose selvagge attraverso le quali non c'era via di uscita. Alla base di tali pareti, dove la valle si allargava, stavano pietraie che si perdevano nelle macchie di verdi larici a interrompere vasti pascoli ornati da gigli bulbiferi di luminoso color arancione e genziane lutee alte due piedi.
Ci incamminammo lungo il sentiero che si snodava a pochi metri dal lago, da questo separato solo da una sottile fascia alberata di frassini e bassi cespi, mentre sul lato opposto del sentiero stretto e tortuoso riconoscemmo presto l'ambiente ideale per la erebia così come stava descritto sui testi: dossi ripidi e rocciosi con cespi di festuca ovunque. E qui cercammo con attenzione ogni farfallina scura che si levasse in volo al nostro passaggio o che scendesse dall'alto lungo i dossi. Vi erano astute e veloci melitee e bolorie ovunque: ne riconoscemmo alcune come la scura diamina o la elegante titania, ma un’altra più scura era invece una specie che non avevamo mai visto.
La identificammo nella rara Clossiana thore che vive in oriente, dalla Cina all'Europa orientale, e che qui in Val d'Ossola raggiunge il suo sito di volo più occidentale. Era una specie rara certamente e che nessuno sospettava di reperire oggi. Con il suo colore di fondo aranciato e macchie nere soffuse ovunque, è una sorta di copia sbiadita di altre clossiane più comuni e dai disegni più netti.
Ne fummo contenti, ma noi cercavamo quell’altra più piccola e bruna di specie. Vedemmo ancora alcune grandi arginnidi come la robusta adippe intente a suggere ghiottamente il delicato nettare di alte composite viole, svolazzando agili e litigando fra loro per il fiore più fresco. Della erebia, per ora, non c’era traccia malgrado fossimo attorniati da cespi di festuca ovina, l’erba tagliente e robusta di cui si nutrono le sue larve. Si continuò allora su questo sentiero fino al punto in cui si perdeva tra le rocce sciogliendosi in alcuni ruscelletti che lo invadevano cancellandolo, mentre sopra di noi stavano dossi ripidi e irraggiungibili.
Ai nostri piedi, dove l’acqua non aveva eroso, comparvero bei cespi di profumato timo. I nostri veloci passi sul terriccio e le piccole pozzanghere d’acqua fresca dei ruscelli facevano alzare in volo alcuni grigi esperidi del genere Pyrgus che, intenti a suggere i sali del terreno, subito si allontanavano rapidi e spaventati. Ecco che, confusa tra gli esperidi, improvvisamente avvistammo una farfallina lenta e timida che se ne stava posata sul timo. Costei prese a svolazzare vicina al suolo per posarsi di nuovo su di un altro cespo del profumato fiore e poi alzarsi nuovamente in volo.
Il colore era quasi nero, il volo era quello tipico delle erebie: incerto e saltellante in modo irregolare. Non ci volle granché all’occhio addestrato per riconoscere una vera candidata ad essere la nostra rara erebia. La inseguimmo per qualche metro e poi, con un balzo, le fummo addosso: un colpo di rete e fu nostra. Subito, come si conviene in queste occasioni felici in cui la farfalla ambita fruscia nel retino, la prima cosa è cercare di capire se si tratta della specie desiderata. Con le erebie è cosa dura e nel caso di Erebia christi, il riconoscimento è ancora più arduo visto che ha delle cugine fortemente simili.
Eppure, in pochi secondi, la farfalla era tra le mani e la riconobbi dalla forma delle macchie arancio ben allineate e con piccolo puntino nero presente in tutte. «È la christi, è la christi» urlai a squarciagola, «è lei, è lei senza alcun dubbio». Riconoscerla fu più facile del previsto, tanto erano chiare le sue caratteristiche macchie arancio e le ali posteriori grigiastre anziché brune e scure come quelle delle specie affini.
Scattammo fotografie attese da anni di questo e degli altri tre esemplari osservati in quella giornata serena di inizio estate. Era una farfalla rarissima e difficile da reperire, e l’emozione era forte anche se la sua oscura livrea e le dimensioni ridotte non avrebbero impressionato alcun osservatore inesperto. Ma tant’è. Spesso, nel nostro speciale mondo entomologico, non contano il bel colore e le grandi dimensioni, ma la rarità dell’endemismo. E vi assicuro che non è affatto facile trovare in Europa una specie più rara di questa.