Girotondo sopra alle nostre teste
Cercammo senza sosta per tutto il pomeriggio aree ove si potesse collocare la grande lampada di cui disponevamo per attirarla nottetempo. Eravamo incerti se porla su quella straducola sterrata che avevamo scoperto e che era scavata tra infinite foreste profumate di resina di pino, oppure se scendere verso il lago artificiale e turchese e cercare uno slargo ben visibile che avrebbe attratto falene anche da lunga distanza. Si discusse a lungo senza trovare una soluzione, incerti come eravamo sulle abitudini di questa falena gigante e sontuosa. Ci fermammo in un vicino villaggio a dissetarci con una freschissima «panache», la classica birretta mista a gassosa che in Francia era una bevanda molto popolare. Piscopo, invece, che da sempre odiava la birra, si accontentò di una zuccherosa aranciata, bevanda piuttosto banale e disponibile ovunque nel mondo. Ma non ci fu verso di convincerlo ad assumere le migliori abitudini francesi. Seduti su di un comodo tavolino del bar che guardava verso i campi di petanque dove gli anziani e i meno anziani stavano giocando una partita accesa e piena di dispute, parlavamo della Isabella, ripetendo questo nome senza sosta.
Fu a quel punto che si avvicinò un anziano signore col basco sino a quel momento intento a godersi le discussioni dei bocciatori a pochi metri da noi. Ci chiese garbatamente in un improvvisato italiano se stavamo parlando, per caso, di farfalle e falene. Gli rispondemmo in francese : « Certe ! On est venu ce matin du Piémont pour chercher l’Isabelle ». L’anziano ed arzillo signore col basco si presentò : « Je m’appelle Alain Willemot et j’ai passé ma vie en cherchant papillons ! », disse con orgoglio. E aggiunse che ora non faceva piu’ granchè e che la sua collezione e la sua ricca biblioteca entomologica erano stati donati al museo di Gap, non lontano da questi luoghi. Eravamo affascinati : quello di fronte a noi, col basco, era proprio il Willemot dell’articolo di molti anni prima che ci aveva svelato i nomi dei luoghi della Isabella. Si accomodò con noi al tavolino, ordinò una panache e si cominciò a parlare continuando sino all’ora di cena.
Ci raccontò della sua giovinezza e della ricerca delle farfalle e falene di Provenza a cui aveva dedicato buona parte della vita, alternando spedizioni nella Francia del sud al lavoro in banca. Sapeva tutto, ovviamente, su ogni specie. Io annotavo ogni dettaglio in un quadernetto : dove aveva trovato la rara ed endemica Euchloe tagis, dove e quando volavano le Erebia epistygne e le Erebia triaria, tutte delizie di queste terre bruciate dal sole e battute spesso dal vento dove si respira il profumo del rosmarino e dell’origano. « Et l’Isabelle ? » chiese Piscopo assai nervoso e impaziente per non aver ancora avuto le notizie che ci servivano. Il Willemot si fece piu’ serio, e iniziò a spiegarci che la specie era rara, ma si poteva trovare. Ci disse che occorreva cercarla intorno alla Pentecoste, ovvero proprio in quei giorni : « C’est à la Pentecôte qu’elle vole, ma il faut aller dans certains endroits, mettre la lampe et attendre avec patience ». Ci svelò i luoghi segreti, uno a uno, chiedendoci di non ripeterli ad altri « car l’Isabelle doit être protegée ». Uno di questi luoghi era vicino a quello in cui eravamo stati nel pomeriggio : la sterrata tra i pini. Ci disse di lasciare la strada principale all’altezza del grande tornante, di andare avanti per un centinaio di metri, cercare uno slargo aperto verso la vallata sottostante che sta sulla sinistra, e li’ porre la lampada ed il telo : « Là vous la trouverez », concluse felice come il professore che ha finito la lezione di fronte a studentelli ignoranti.
Eravamo attentissimi e gli feci ripetere piu’ volte la storia della sterrata, dove lasciare l’auto, dove mettere la lampada e cosi’ via. Contento, il Willemot ripeteva la storia e le indicazioni. Intanto davvero giunse l’ora di cena. Il Willemot si congedò dopo che ci eravamo scambiati indirizzi e numeri telefonici. Piscopo ed io, eccitati piu’ del solito per avere ricevuto ora tutte le informazioni necessarie, raggiungemmo un vicino ristorante e cenammo inquieti pensando alla lampada e dicendoci che, con quelle informazioni, non potevamo fallire. Piscopo ricominciò con la storia del Dominici e cosi’, distraendoci un poco, gustammo il nostro pasto con coniglio al vino, frites e un’insalata, accompagnati da un buon rosatello di Provenza. Tramontato il sole di questa lunga giornata di fine maggio, era giunta l’ora dell’azione.
La sera era tiepida e piacevole, non c’era che una lievisssima brezza (il che era bene poiché le falene non volano quando c’è vento) e le stelle piu’ luminose erano ormai comparse sulla volta color indaco. Soprattutto non c’era la luna (il che era bene poiché, si sa, con la luna luminosa le falene stentano a venire alla luce artificiale). In auto raggiungemmo la via indicata dal Willemot sino al grande tornante, la lasciammo per immetterci nella sterrata, procedemmo per un centinaio di metri sino allo slargo e li’ ponemmo la lampadona come da manuale : rivolta verso la vallata in basso, appoggiata al telo bianco steso sul suo supporto, e collegata al vecchio generatore rumoroso assai per la verità. Occorreva attendere che la lampada si scaldasse per emettere le radiazioni luminose e ultraviolette necessarie ad attrarre le falene dei dintorni.
Abituati alla scarsità di falene ai bassi monti di Piemonte, non ci attendevamo quella folla di esseri volanti che invece riempie nottetempo, invisibile, i cieli di Provenza. Decine e decine di falene, tipule di varie taglie ma anche grosse come un pugno, maggiolini dal volo grossolano e altri piccoli esseri alati apparivano ronzando o sibilando intorno alla lampada. Molti si arrestavano sul lenzuolo per verificare che stava succedendo e poi ripartivano sparendo alla vista; altri prendevano a roteare follemente intorno alla forte luce della lampada senza arrestarsi ; altri ancora si posavano permanentemente sul lenzuolo restando li’ immobili per tutta la serata. Comparvero alcune belle arctie che non avevamo mai visto, falene dalle ali anteriori tigrate in bianco e nero e da quelle posteriori giallo e rosse. C’erano dozzine di geometridi grigi e ocra, nottuidi dall’intricato disegno rosa e nero. Ma la Isabella non appariva. Come sempre capita in questi frangenti, l’apprensione si stava impossessando di noi per la paura di un fallimento che ci avrebbe deluso profondamente, considerate le energie che avevamo messo in gioco per questa spedizione piena di speranze.
D’improvviso, una enorme falena color verde turchese giunse dalla vallata sottostante volando rasoterra. Fu questione di un attimo, tanto che stento a ricordare cosa avvenne: il tutto si racchiude in qualche decimo di secondo, il tempo necessario per mettere a fuoco l’immagine volante e trasmettere la visione alla parte di cervello che traduce l’immagine stessa in qualcosa di logico e comprensibile. Ma piu’ rapido di tutto fu il colpo di retino che sferzai sull’immagine ancora non razionalizzata. Ovviamente, l’abitudine ad agitare il retino è tale, quando si va in cerca di farfalle e falene, che ben prima che il cervello realizzi che sta accadendo, il riflesso condizionato prevale e permette l’operazione rapida del braccio proteso a colpire con la rete. E tale rete non è che un prolungamento artificiale del braccio stesso con un terminale non-umano, ma rotondo e dotato di tulle o simile per intrappolare l’insetto. Insomma, per farla breve, si trattava di un maschio stupendo e fresco di Isabella che cadde nel retino. La visione della grande falena color turchese che si dibatteva nel tulle era qualcosa di inimmaginabile, tanto che il cuore, da novello Wallace, prese a battere in modo impetuoso confondendo il cervello.
Ci vollero alcuni secondi per uscire da quello stato di trance successivo all’ottenimento della specie tanto desiderata. Si fece grande festa, si elevarono inni di lode al Willemot che ci aveva istruiti in questa caccia rara e straordinaria. Poco dopo, una bella e grande femmina comparve alla lampada, e poi un’altra ancora. Fotografammo le Isabelle sui tronchi di pino dopo averle un poco calmate con l’uso un pò audace di un anestetico quale l’etere (che occorre dosare con cura per evitare che uccida la povera falena), le ammirammo nella loro robustezza mista a bellezza senza pari, dato che la tinta turchese semitrasparente non ha eguali tra le falene europee. La serata trascorse veloce come sempre avviene quando si ottiene ciò che si desiderava e si festeggia felici e gai come scolaretti all’inizio delle vacanze estive. Trattenemmo una Isabella femmina sino al mattino, immobizzandola entro una busta di soffice carta per non lederle le ali.
Al mattino di una notte trascorsa a sognare di Isabelle e di pinete, ci risvegliammo e raggiungemmo, dopo una sana colazione francese con café au lait, pane, burro e marmellata, il luogo della caccia notturna per ammirare ancora i colori della nostra Isabella viva nel suo ambiente, ma questa volta alla luce del sole timidamente emergente dal fitto della foresta fra i rami irregolari dei pini silvestri. La vedemmo muoversi lentamente quando fu liberata dalla busta in cui si trovava immobile da ore. Posata su di un grande ramo di pino, iniziò a passeggiare lenta e con eleganza sulla pelose zampe color panna cosi’ esponendo le grandi ali ai giochi di luce dei raggi solari, a volte apparendo trasparente e verdina e a volte color turchese intenso ed opaco. Dopo qualche minuto, e dopo essersi riscaldata facendo vibrare le poderose ali, si involò maestosa planando tra i pini non prima di aver compiuto un ampio girotondo appena sopra alle nostre teste.