Isabella

28 Dicembre 2013

Sulla vecchia e un poco sgangherata, ma pur sempre capace Lancia Flavia dell’amico Piscopo, si andava spesso alla ricerca di avventure che avevamo il coraggio di definire «spedizioni», come se davvero si trattasse delle esplorazioni di Stephens in Yucatan o quelle di Wallace nell’arcipelago malese.

 

Per noi era già un grande passo superare il confine di stato, allora ben custodito dalla guardia di finanza e dalla polizia di confine. In uno dei nostri primi viaggi in Provenza alla ricerca delle farfalle, dei profumi e dei suoni di quella terra benedetta dal sole e frustata spesso dal Mistral, ci arrestammo a scattare qualche immagine dal ponte della Durance nei pressi di Embrun. Da qui si godeva della vista del magnifico lago artificiale color turchese di Serre-Ponçon che a noi, giunti dallo scontato Piemonte dopo aver valicato il Monginevro, già pareva luogo straordinario e remoto, quasi esotico con quelle acque dalle tinte ignote.

 

Scattammo un paio di fotografie con la mia anziana Lubitel sovietica acquistata per quattro soldi da un amico che era in contatto con chissà quale commerciante. Pare, infatti, che a quei tempi alcuni contrabbandieri avessero creato un proficuo sistema di commercio di materiale ottico e fotografico di un certo prestigio dall’Unione Sovietica.

 

Per qualche bizzarra ragione questa roba finiva nel Bresciano e di lì veniva poi distribuita tramite gli amici degli amici degli importatori : tutto in gran segreto e non bisognava dire nulla. Quando mi offrirono la Lubitel, la comprai al volo dato che il prezzo era imbattibile – poco più di una decina di gelati – e ci tenevo a competere con l’amico Piscopo il quale, assai più benestante di me, utilizzava una similissima, ma più snob, Rolleiflex che risaliva agli anni ’50 e che suo nonno gli aveva lasciato in eredità.

 

Ma torniamo a Embrun e alle fotografie del bel lago color turchese. Di corsa, per non perdere altro tempo, entrai in un’edicola per acquistare qualche cartolina. Infatti, avevo l’abitudine, in quei tempi lontani e in cui non esisteva computer, né Google e le sue immagini, né le stampanti domestiche, di raccogliere cartoline da usarsi per le nostre relazioni di viaggio. E qui, tra una riproduzione della vista del lago turchese ed una del villaggio di Embrun, notai una straordinaria immagine di una grande falena verde-turchese con code larghe come festoni che allungavano a dismisura l’ala posteriore.

 

Forse avevo già visto questa falena straordinaria su qualche libro di farfalle, ma non era parte della nostra fauna e la si era scordata non avendo in quegli anni molto interesse per le farfalle notturne. Presi la cartolina, che ancora possiedo come preziosa reliquia oggidì, la pagai due o tre franchi, e cominciai a leggere sul retro di che si trattava.

 

Il testo recitava : «L’Isabelle, rare, éphemère et sompteux papillon nocturne qui vit dans certains pins sylvestres des Alpes du Sud. La femelle meurt juste après sa fécondation et le mâle ne vit qu’environ cinq jours. Celui-ci peut voler 4 ou 5 kms, un soir de printemps, pour venir s’accoupler frénétiquement avec une femelle réceptive. Il est l’un des joyaux des Hautes-Alpes. Espèce protégé». Queste ultime due parole erano stampate in neretto, ben evidenti. Insomma, questa era una rara falena, effimera e sontuosa, il cui bruco vive di pino silvestre nelle Alpi del sud… un gioiello di quelle montagne, e « protetta » dalla legge.

 

Piscopo, vedendo la cartolina raffigurante quella meraviglia, e avendo già letto su di essa, mi ricordò che si trattava appunto di una falena spettacolare, ma rarissima e pressoché impossibile da reperire anche perché pareva in via di estinzione. In realtà, avevo anch’io già letto queste cose su un prezioso volume dalla copertina spessa, ben illustrato con tavole a colori e che risaliva probabilmente agli anni 1950. Lo avevo consultato da bambino in qualche biblioteca e la cartolina e le parole di Piscopo mi risvegliarono improvvisamente la memoria.

 

Da quel giorno, la Isabella era rimasta nella mia mente come qualcosa di straordinario e irraggiungibile. Mi ero documentato bene: il bruco vive solo di aghi di pino silvestre, si incrisalida nel terreno formando un bozzolo bruno chiaro, sverna in forma di pupa e l’adulto emerge e vola in primavera inoltrata. Questa magnifica specie si osserva esclusivamente in colonie isolate su alcuni monti della Spagna e lungo la valle della Durance nelle Alpi francesi, appunto nei luoghi dove avevo reperito per caso la cartolina. Negli anni successivi, se ne era parlato spesso con Piscopo dicendo che occorreva davvero tentare di vederla dal vivo e non solo su cartoline e libri.

 

Un giorno di maggio si decise infine di provarci, anche se ne sapevamo ben poco di habitat, abitudini e comportamento. Consultai un paio di volumetti e trovai un vecchio articolo scritto da un anziano ma esperto studioso francese, un certo Willemot. L’articolo citava per filo e per segno le aree in cui si poteva osservare la Isabella lungo tutto il corso del fiume Durance da poco sotto Briançon sino a Manosque e diceva come attirarla usando la lampada dopo l’imbrunire. L’autore menzionava che si tratta di una falena protetta e appartenente alle liste rosse europee e, in quanto tale, bisognava evitare di ucciderla. Fu una lettura affascinante che davvero ci diede la speranza di poterla incontrare in volo, nelle sue pinete.

 

L’articolo fu fotocopiato e una copia trovò posto nella nostra borsa da viaggio.
Il viaggio fu, come sempre, occasione di grande frenesia come quando, da bambini, si saliva verso Cascina Venalba per cercarvi la Circe nel prato dietro il cimitero che da sempre così si chiama nel nostro peculiare atlante entomologico del Biellese dai nomi grotteschi. Si scherzava e ridacchiava di questo o di quello, e intanto la tensione nervosa cresceva all’approssimarsi dei luoghi della Isabella. Dopo Briançon, si scese nella valle della Durance, una valle il cui nome era associato, per chi si interessasse alla criminologia, al famoso «Affaire Dominici» evento di qualche decennio prima, nell’immediato dopoguerra.

 

Avevo letto il libercolo di Jean Giono, scrittore provenzale del ‘900 che in poco più di 100 paginette descrisse il caso che turbò la Francia intera per anni con uno stile marcatamente impressionista e con un tono un po’ scettico nei confronti di chi fece le indagini non arrivando a capo di nulla. Così, mentre si scendeva verso Sisteron, cominciai a raccontare la storia a Piscopo, con quel gusto macabro e attento ai dettagli che si prova di fronte ai crimini di questa entità. La storia, raccontai, inizia in una notte stellata di inizio agosto nel 1952. Una coppia inglese che si trovava in vacanza in Provenza decise di passare la notte all’aperto per accontentare la figlioletta di 10 anni.

 

L’auto si arrestò lungo la route nationale 96 nei pressi della tenuta detta «Grand’Terre», la tenuta di Gaston Dominici, patriarca di questa rude gente di campagna ancorata a valori ancestrali, a silenzi inquietanti e contraddizioni che emergeranno come follie durante la lunga indagine giudiziaria. In quella notte avvenne qualcosa di tuttora inspiegato. La coppia inglese fu sterminata a colpi di fucile e la bambina, fuggita verso il fiume, fu massacrata brutalmente. Intanto, tra una parola e l’altra, viaggiando sul fianco des

 

tro della Durance, si giunse a Peyruis e poi a Lurs, il villaggio nei pressi del quale era la Grand’Terre. Decidemmo di visitare quei tristi luoghi. Sulla via sterrata che parte dalla route nationale e che, oltre il ponticello sulla ferrovia, finisce nei campi e nel letto sassoso della Durance, una rudimentale croce alta mezzo metro, un poco grottesca con fiori di plastica e pupazzetti a decorarla, ricorda a tutti che lì morì la giovane inglese. Chi andasse ogni tanto a ripulire quella triste testimonianza, decenni dopo gli eventi, era ignoto a tutti. Si respirava un’aria forte da quelle parti, l’aria di una tensione mai sopita di uno dei più feroci crimini della storia di Francia; c’era di che rabbrividire davvero. Intanto, qualche cavolaia volava sulla sterrata e l’aria di mezzogiorno si era fatta più densa: scaldava più che in Piemonte da queste parti.

 

Era ora di trovare un po’ d’ombra tra gli alberi delle alture circostanti, salimmo allora verso Ganagobie dalla bella chiesa medioevale e da cui si domina la piana della Durance. Seduti all’ombra delle farnie, iniziammo a mangiare i nostri panini come un vero e proprio rito: prosciutto e maionese, qualche oliva, funghetti e peperoni in agrodolce, e poi frutta fresca acquistata sulla piazza del mercato di Sisteron: fragole succose, ciliegie, e le prime pesche e albicocche di Provenza. Fu così che si continuò a discutere animatamente del Dominici, un nome che avremmo ripetuto cento volte quel giorno, tra un’oliva verde e un peperone.

 

Non vi era dubbio che l’Affaire Dominici ci impressionava parecchio. Ricordammo che un anno prima, di passaggio da queste parti, avevamo trascorso la notte in un hoteletto lì vicino ; c’era anche mio fratello con noi e, essendo la notte tra il 4 e 5 Agosto ovvero dell’anniversario dell’assassinio, io mi ero divertito a far paura al mio giovane fratello poco prima di prendere sonno a luci spente, ripetendo più volte un sibilante verso che evocava il fantasma dell’assassino. Ne ridemmo di gusto mentre ci rimpinzavamo di dolci ciliegie.

 

Ma ora si trattava di preparare la caccia, dato che il primo pomeriggio era giunto, e occorreva anche trovare un hotel presso cui fare base. Lasciata la route nationale, ci inoltrammo tra le colline calcaree che fiancheggiano la Durance ai due lati. Passati i campi coltivati, l’ambiente diveniva selvaggio, silenzioso e incontaminato ; c’erano gloriose e fresche pinete nelle piccole vallette laterali, e così cominciammo a comprendere perché la nostra Isabella sopravviveva in questa parte di mondo. Ma si trattava di capire esattamente ove cercarla e non avevamo indicazioni precise che andassero oltre i nomi dei villaggi della zona. (fine prima parte).

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