Ancora qui, sulla nave di Argo

10 Ottobre 2016

Sulla copertina italiana de Gli Argonauti dell’americana Maggie Nelson (il Saggiatore, 2016) c’è un disegno a guazzo e matita colorata su carta di Louise Bourgeois: Pregnant Woman, 2008. A lettura ultimata, la potenza muta del sanguigno torso femminile abbozzato dall’artista mi sembra il solo modo adeguato di descrivere la massa filamentosa, ‘sporca’, agerarchica, di pensieri, esperienze, teorie, ipotesi, sperimentazioni racchiusa nel testo di Nelson. 

 

“Voglio che tu sappia che ti abbiamo creduto possibile – mai certo, ma sempre possibile – non in un momento qualsiasi, ma per parecchi mesi, persino anni, di tentativi, di attese, di invocazioni. […] due animali umani, uno dei quali viveva la benedetta condizione del non essere né maschio né femmina, mentre l’altra è femmina (più o meno), hanno profondamente, tenacemente e selvaggiamente desiderato la tua esistenza.”

 

 

Diario, memoir, saggio, racconto autobiografico, o testo deliberatamente queer che rifiuta – fin dal disporsi delle parole sulla pagina e dalla conseguente struttura del discorso – di stare dentro un solco già tracciato? O tutto questo insieme? Mentre cerco di classificarlo, mi domando da dove nasca questa mia ostinazione a definirlo. E se fosse semplicemente un mio bisogno, la denuncia di un disagio che preferisco spostare su un piano formale, forse per non ammettere che queste pagine mi hanno messa in difficoltà e entusiasmata, appassionata e mortificata, illuminata e imbarazzata?

 

Cosa racconta dunque questo libro che ha scalato le classifiche di vendita nordamericane e il cui titolo rimanda al mito dei cinquanta eroi greci che a bordo della nave Argo andarono, insieme a quel fedifrago di Giasone, alla ricerca del ‘vello d’oro’? La risposta fattuale è semplice: lei, l’autrice (donna, femminista, scrittrice, non propriamente lesbica) sposa Harry Dodge (artista e filmmaker, nato anagraficamente donna e migrato a una sapiente terra di nessuno sessuale, dove maschile e femminile convivono senza escludersi, nascondersi o obliterarsi). Oltre a fare da madre al bimbo di tre anni che Harry ha avuto da una precedente relazione, Maggie vuole un figlio suo, carne della sua carne, uscito dal suo corpo e dal desiderio condiviso con Harry. Lo concepisce, lo mette al mondo e lo cresce. Fine.

 

Detta così, si potrebbe pensare alla forza normalizzante del modello familiare eterosessuale: si ha un bel cambiare sesso o genere ai suoi componenti, se ruoli, desideri, fantasie e figure del maschile e del femminile non cambiano. Trans, omo & Co come Vandea sessuale, come ultimo baluardo contro le aporie della coniugalità riproduttiva. 

E invece no. E la forza di questo libro sta proprio nella capacità di dimostrarlo senza mai cedere a principi astratti, ideologie, teorie assunte come verità. Maggie e Harry sanno che il nemico più insidioso della libertà, della sperimentazione, cioè di quel costante divenire che è la vita è proprio l’assertività, l’ingabbiamento in una struttura discorsiva fissa, totalizzante, che “procede calpestando la specificità”. 

 

Scrivere un libro parlando di sé e della propria sfera più intima (pensieri, gesti o atti sessuali che siano) potrebbe essere – e di solito è – un’operazione narcisistica ad alto tasso di autorità. Tipo “chi può sapere di me più di quel che so e voglio dirne io”? Una sorta di autoreferenzialità esibizionistica, che mette il lettore in posizione da voyeur e lì lo abbandona. Le librerie nordamericane sono piene di queste confessioni asfissianti, titillanti, commoventi, sempre e comunque aliene. Nelson fa qualcosa di diverso e di preziosamente inedito: scrive di sé per ragionare su come si scrive della propria esperienza senza monumentalizzarla e fissarla una volta per tutte. Lo fa ad alta voce, non si camuffa e non si censura. Usa le parole per mettersi a nudo.

 

Per lei le avventure del corpo – la gravidanza, il parto, l’allattamento, le pratiche sessuali e le perversioni che a ciascuna di esse si accompagnano, il trattamento a base di testosterone del suo compagno, la malattia e la morte – non sono meno eloquenti della teoria. Il problema è come lasciarle parlare. Come far sì che il loro impermanente discorso si costruisca per poi evaporare in cicatrici, ricordi, e forse soltanto “casino”, perché non è detto che per tutto ci sia una soluzione definitiva. Bastano, le parole, per farlo? Sì, conclude Nelson, le parole possono bastare se “la scrittura è costellata da tic d’incertezza”, se i tentennamenti stanno al discorso come le cancellature stanno al disegno.

 

Ad accompagnarla, in una sorta di controcanto che è interlocuzione e confronto, mai volontà di trovare e imporre un punto di vista vincente, le voci di tante “madrine multigenere del mio cuore” – James Schuyler, Allen Ginsberg, Lucille Clifton, Eve Kosofsky Sedgwick, Annie Sprinkle –, ma anche di Gilles Deleuze, Roland Barthes, Michael Ondatjie, Judith Butler, Paul Preciado, Audre Lorde, Deborah Hay, Jane Gallop, Rosalind Krauss, Luce Irigaray e altri, e soprattutto dello psicologo D. W. Winnicot, “uno scrittore che ritiene le parole ordinarie più che sufficienti”.

 

Ecco, il libro di Nelson è una tessitura a più fili perfettamente reversibile. Il rovescio della teoria increspa il diritto dell’esperienza e viceversa. La testa è sulle spalle, le spalle sono sul corpo, il corpo poggia sui piedi e i piedi sulla terra. Il punto di vista dell’autrice è situato e non potrebbe non esserlo. La sua ermeneutica queer e il suo femminismo nascono da qui e fanno luce.

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