Il dilagare della cancel culture / Basta. Ti cancello

4 Settembre 2020

È censura. No, attivismo. Uccide lo scambio di idee. Non c’è mai stata tanta libertà. È ricatto. È responsabilità. Il bello della cancel culture, la figlia più rissosa dei social media, quella di cui più si discute, è che inchiodarla a un’etichetta è impossibile – contiene tutto e il suo contrario. Invece di domandarsi cos’è vale allora la pena guardarla in azione. Perché la sola certezza è che in quest’estate americana sta scardinando il discorso pubblico. 

Mentre le manifestazioni per la giustizia sociale infiammano il paese e le statue razziste sono fatte a pezzi, sulle piattaforme social finisce infatti nel mirino chiunque – individuo, azienda, istituzione – si macchi di discriminazione, pregiudizio, odio. Per i colpevoli o presunti tali la pena è la messa al bando, la cancellazione. E dal virtuale al reale il passo è breve. 

Per ogni reputazione che va in briciole su Twitter, ci sono una carriera, un lavoro o un business che minacciano di andare in fumo. Le opinioni si pagano e spesso a caro prezzo. È la regola della cancel culture e il suo snodo più problematico. 

 

L’atto di “togliere supporto a figure pubbliche in risposta a loro comportamenti problematici o opinioni”, secondo la definizione del Merriam Webster, non è una novità. L’idea circola da alcuni anni sui social, diventa un hashtag scherzoso sul Black Twitter e prende piede sull’onda di #MeToo. L’interesse – secondo Google trends – rimane però stazionario fino a quest’estate, quando la pandemia chiude in casa milioni di persone e la socialità trasloca online. Le atroci disparità che il virus mette in luce e la mobilitazione di Black Lives Matter fanno il resto. 

La cancel culture si carica a questo punto di un’inequivocabile valenza politica. Aggiusta il tiro e diventa un’arma micidiale, capace di muovere equilibri e scenari finora intoccabili. È un sasso in faccia al sistema. Il potere che torna nelle mani dei cittadini. 

 

Il meccanismo squassa il mondo della cultura. I social media risputano vecchie immagini, commenti dimenticati, battute infelici. Tutto accade con una rapidità impressionante. La sete di cambiamento si mescola a voglie di rivalsa, frustrazioni, accanimento. Non è mai stato così facile esprimersi, allearsi, passare all’azione. Non è mai stato così facile farsi prendere la mano – i social premiano l’antagonismo, la polemica. 

Nelle redazioni fioccano i licenziamenti e le dimissioni. Spesso sono gli stessi colleghi a chiedere l’allontanamento o il richiamo all’ordine per scelte editoriali problematiche o comportamenti discutibili sui social. A Los Angeles l’Università della California apre un’indagine su un docente colpevole di aver letto in classe la famosa Lettera dal carcere di Birmingham di Martin Luther King: contiene la parola “negro”. 

Steven Pinker, uno degli intellettuali più famosi degli Stati Uniti, è cancellato dalla Linguistic Society of America perché minimizza le ingiustizie razziali e le voci di chi patisce violenze razziste e sessiste. I tweet nel mirino risalgono al 2004. 

Il curatore del Museum of Modern Art di San Francisco, Gary Garrels, che da anni si batte perché il museo acquisisca opere di donne e minoranze, deve andarsene dopo aver menzionato in una riunione la “discriminazione inversa”, quella che colpisce della maggioranza a favore delle minoranze. È stato il motto degli oppositori dei diritti civili. Un tabù. 

 

 

La reazione non si fa attendere. Il giornalista Matt Taibbi, non certo un fan di Trump, accusa la sinistra americana di “essere diventata un massa codarda di drogati di social media, Robespierre da Twitter che si spostano di disciplina in disciplina incendiano reputazioni e lavori con una casualità che toglie il fiato”. Qualcuno parla di cannibalismo liberal, qualcuno evoca i tribunali della Cina comunista. Dà l’idea degli umori e della posta in gioco.

 

A catalizzare l’attenzione è la lettera aperta firmata da 150 intellettuali di gran prestigio – fra cui Noam Chomsky, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Gloria Steinem, lo stesso Steven Pinker e JK Rowling. I firmatari denunciano un clima di intolleranza in cui “il libero scambio di informazioni e idee, la vita di una società liberale, sta diventando ogni giorno più ristretta”; ogni “trasgressione nel discorso o nel pensiero” è punita con severità; redattori sono licenziati per aver pubblicato articoli controversi, libri sono ritirati per “supposte inautenticità” e ai giornalisti si impedisce di scrivere di certi articoli. La cancel culture non è citata in modo esplicito ma che sia il bersaglio è evidente. JK Rowling, per la cronaca, era stata appena minacciata di boicottaggio per una serie di tweet considerati transfobici. 

L’appello, pubblicato su Harper’s a luglio, fa il giro del mondo e scatena un pandemonio. I firmatari sono tacciati di vittimismi fuori posto e ipocrisia. Li si accusa di temere l’obsolescenza, l’irrilevanza, la perdita delle loro posizioni di privilegio culturale. In ballo non c’è la libertà di parola, scrive l’autore indiano Pankaj Mishra. Il dibattito, sostiene, è molto più vivace di trent’anni fa, “quando uno o due scrittori che vivevano in Occidente erano incaricati di dare voce alle esperienze di intere nazioni e perfino continenti” (l’allusione esplicita è a Rushdie). 

 

È che grazie ai media digitali gli invitati al tavolo sono cambiati. Nuove voci, finora inascoltate o marginalizzate, si sono unite al coro. E il risultato è una cacofonia “rende più difficili ai famosi e potenti parlare senza essere interrotti”. 

Sulla spinta dei social l’industria culturale, storicamente a maggioranza bianca, di fatto inizia a cambiare faccia. I media tradizionali si aprono a nuove firme; prospettive e realtà diverse si fanno spazio. Due maggiori case editrici, Knopf e Simon&Schuster e Penguin Random House, hanno nominato due donne afroamericane, Lisa Lucas e Dana Canedy, a posizioni di vertice. 

E basta guardare le classifiche di vendita dei libri per vedere da che parte sta il pubblico. Lavori come How to Be an Antiracist di Ibram X Kendi o White Fragility di Robin DiAngelo occupano da settimane le prime posizioni.

Non è l’happy end. Il cambiamento è ancora incerto e con facilità si avvita nell’ossessione americana per la political correctness. Spesso è solo moralismo di facciata. E lo zampino del marketing è onnipresente. Non per caso dopo la morte di George Floyd le big corporation, da Amazon a Nike a Walmart, si sono profuse in solidarietà, assunzioni mirati e donazioni miliardarie per la giustizia economica e sociale. Se c’è una cosa che gli investitori detestano sono i boicottaggi. Vale per la cultura come per le scarpe di ginnastica. 

 

A guardarla in prospettiva, è una storia vecchia come l’umanità. La cancel culture non è che l’ultima incarnazione dei meccanismi di controllo sociale. Punisce lo scarto dalla norma, svergogna il colpevole e lo allontana. È la lettera scarlatta dei puritani che i social rifrangono all’infinito. E viene da chiedersi che effetto avrà, oltre le mode passeggere, sul discorso culturale.

La cacofonia evocata da Pankaj Mishra è un’immagine suggestiva, ma coglie solo una faccia della questione. Un’altra è il rischio di conformismo. JK Rowling è la seconda donna più ricca del Regno Unito. Può sopravvivere a un boicottaggio, sempre che qualcuno davvero decida di boicottare Henry Potter. E così Steven Pinker. 

Per i potenti e famosi si immagina una temporanea uscita di scena prima di un rientro orchestrato da qualche ufficio stampa. E gli altri? Nelle università e nei college chi ormai rischierà posizioni impopolari? La maggioranza dei docenti vive di contratto in contratto. E cosa accadrà nei giornali o nell’editoria? 

Più nel concreto, non si può ignorare il costo umano di certe cancellazioni. L’irruenza di chi prova ad abbattere storiche barriere d’accesso è comprensibile e la democrazia delle idee sacrosanta. Un licenziamento in piena pandemia e con la disoccupazione alle stelle significa però ritrovarsi senza assicurazione sanitaria e probabilità di assunzione sottozero. Le opinioni si pagano, ma è davvero questo il prezzo? 

In quest’estate di furibonde liti virali l’interrogativo non riguarda solo il mondo della cultura. È stato giusto massacrare on line e far licenziare Amy Cooper, la giovane che in Central Park aveva chiamato la polizia urlando che un afroamericano la stava minacciando? Perfino la vittima in questione, un pacifico bird watcher che l’aveva invitata a rimettere il cane al guinzaglio, dice di no.

 

Eppure, piaccia o meno, questo è il linguaggio con cui bisogna fare i conti. La cancel culture, con le sue critiche spericolate, il puritanesimo spinto, i toni urlati e la sete di assoluti, ci accompagnerà nella prossima stagione. Trump, che sulla ferocia dei tweet ha eretto la sua presidenza, ne ha parlato da poco come della “stessa definizione di totalitarismo”. Sarà senz’altro uno dei temi ricorrenti della prossima tornata elettorale.

Intanto, si può provare a minare il meccanismo dall’interno. Ritagliare nicchie social in cui ritrovare il senso del contesto e le sfumature. L’alternativa è combattere la cancel culture con le sue stesse armi. Cancellarla. Sfilarsi di scena. Jonathan Franzen lo fa da tempo e sembra trovarsi benissimo.

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