Elegia di JD Vance

22 Luglio 2024

È arrogante. Ipocrita. Misogino. Un voltagabbana. “La figura più cinica della politica americana moderna”, per dirla con l’economista Paul Krugman. Il bersaglio di tanto veleno è JD Vance, il senatore 39enne dell’Ohio scelto da Donald Trump come candidato vicepresidente. Finora noto al grande pubblico come l’autore del best seller Elegia americana, il memoir che fra autobiografia e commentario sociale alla vigilia dell’elezione di Trump ha raccontato all’America la realtà di una delle regioni più povere e dimenticate del paese, l’area che nel nordest si spinge dai monti Appalachi alla Rust Belt, è oggi la stella nascente del Partito repubblicano e l’alfiere della Nuova Destra. 

Un quarantenne con due figli piccoli in un’America dove fino a ieri i due sfidanti alla Casa Bianca avevano 81 e 78 anni. Un volto nuovo, un sorriso accattivante e un buon senso dell’humor. Un politico capace di articolare senza retorica una visione conservatrice al netto dei risentimenti e le cupezze di Trump, come dimostrato dal magistrale discorso alla Convention repubblicana. Un populista di destra con una moglie figlia di immigrati indiani, Usha Chilukuri, madre di due figli e brillante avvocato, che gli ha già attirato gli strali dell’estrema destra. Un tradizionalista convinto che esibisce con fierezza la madre e il suo passato di tossicodipendenza (è “pulita da dieci anni”, ha annunciato alla folla festante che subito ha intonato un coro in suo onore). 

JD Vance è l’uomo che agli occhi del Paese oggi incarna la promessa del sogno americano – è la storia di chi malgrado tutto ce l’ha fatta, la favola dell’ultimo bambino d’America che diventa presidente (già si parla di una sua candidatura alle prossime presidenziali), la traiettoria virtuosa che dalla miseria l’ha proiettato fra i miliardari di Silicon Valley che oggi per lui spalancano il libretto degli assegni. Il bambino allevato dalla nonna in una depressa cittadina dell’Ohio, in una dimensione disperata di povertà e violenza, oggi è un venture capitalist che secondo Forbes vale 10 milioni di dollari. È amico di Donald Trump Jr. e fra i suoi sostenitori si contano Elon Musk e il fondatore di Paypal Peter Thiel. Il cardine del suo appeal politico restano però le origini che sbandiera con orgoglio alla minima occasione: è uno del popolo, uno dei noi ed è la sua forza.

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JD Vance.

Ha studiato a Yale e scritto un libro di successo ma non è un intellettuale come Obama che parlava come un professore o uno snob come Hillary di cui nessuno ha dimenticato il “deplorables” con cui nel 2016 aveva gratificato i sostenitori di Trump (“sono razzisti, sessisti, omofobici, xenofobi e islamofobi”, aveva aggiunto se casomai il messaggio non fosse chiaro). Al contrario, JD Vance non ha dimenticato la comunità da cui viene, flagellata dalla deindustrializzazione, dalla chiusura delle miniere e dalle morti per oppiacei (“c’è ancora così tanto talento e grinta nel cuore dell’America”). E poco importa che la sua non-profit Our Ohio Renewal sia naufragata nel giro di pochi anni perché l’importante è mettercela tutta. Si cade e ci si risolleva, nel suo caso nei panni di senatore, e non c’è nulla di più americano. 

JD Vance è un personaggio. È interessante ed è pericoloso. Subito dopo l’attentato a Trump si è affrettato a biasimare Biden; ha dichiarato che da vicepresidente il 6 gennaio 2021 avrebbe fatto quello che voleva Trump; ha raccolto fondi per alcuni imputati dell’assalto al Campidoglio. È contrario al divorzio anche in caso di matrimoni violenti ed è convinto che le madri stiano meglio a casa che al lavoro. In passato ha invocato un bando nazionale sull’aborto, anche in caso di incesto o stupro. In sintonia con il GOP che sul tema, uno dei più scottanti sul piatto delle prossime elezioni, sta sfumando le sue posizioni, ha però finito per dichiararlo una questione che pertiene agli stati – il che significa avvallare l’attuale terrificante situazione a macchia di leopardo. 

Ex marine e primo veterano dopo John Mc Cain nel 2008 a fare parte del ticket di uno dei grandi partiti, è un isolazionista, contrario agli aiuti all’Ucraina e convinto che l’Europa debba fare di più per la proporia sicurezza. Come Trump, invoca il completamento del muro al confine Sud e la deportazione di massa degli immigrati illegali che a suo dire abbassano gli stipendi, forzano i cittadini americani alla disoccupazione e rubano loro le case. I democratici lo detestano e non solo perché rappresenta una pattuglia di intellettuali e imprenditori di destra che stanno rimodellando la tradizionale ideologia repubblicana, da Reagan in poi fondata sul libero mercato, tagli alle tasse e una politica estera interventista. È perché prometteva altro – l’esatto opposto di quel che è accaduto.

Non è un caso se i veleni di cui sopra, a firma di autorevoli commentatori dei media liberal, sfiorano spesso la nota rabbiosa del risentimento. È il senso di offesa di chi si sente tradito, l’indignazione di chi vede un possibile compagno di strada imboccare una direzione inammissibile. Ed è un senso di allarme, perché JD Vance sa quello che fa, lo sa fare bene e l’ha già dimostrato. 

Otto anni fa Elegia americana, pubblicato da Garzanti nella traduzione di Roberto Merlini (2017, 211 pp.) aveva fatto scoprire agli Stati Uniti il territorio vasto e inascoltato che dalla Georgia si spinge alle miniere di carbone del Kentucky e al West Virginia e la crisi di quella classe operaia bianca, falcidiata dalla disoccupazione e dall’epidemia da oppiacei, che aveva votato in massa per Trump. È un racconto fresco, provocatorio fin dal titolo che in inglese è Hillbilly Elegy. “Mi identifico con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese che non sono andati all’università”, scrive Vance. “Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri, montanari), redneck (colli rossi) o white trash (spazzatura bianca). Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari”. La povertà bianca, uno degli ultimi tabù degli Stati Uniti a cui dopo l’elezione di Trump la storica Nancy Isenberg dedicherà un libro memorabile, White Trash: The 400-Year Untold History of Class in America (Penguin, 2016, 496 pp.), esce così allo scoperto in un racconto lucido e accorato. 

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L’uscita del libro, che vende un milione e mezzo di copie e dopo la nomina di Vance alla vicepresidenza è tornato in vetta alle classifiche di Amazon, è salutata da recensioni entusiastiche. Il New York Times lo definisce “un’analisi sociologica compassionevole e acuta della classe bianca disagiata che ha contribuito a guidare la politica della ribellione, in particolare l'ascesa di Donald J. Trump”. Il Wall Street Journal ne parla come di “uno splendido racconto autobiografico e un’analisi culturale dei bianchi della classe operaia americana… un libro affascinante”. “Sincero, concreto, straziante. Un libro superbo”, scrive il New York Post. Solo New Republic lo stronca liquidandolo come “poco più di una lista di miti sulle ‘regine del welfare', riadattati come introduzione alla classe lavoratrice bianca”. 

Il tema della welfare queen, il termine dispregiativo che dagli anni Settanta definisce uno stereotipo di donna che abusa del sistema di welfare e vive a spese dei contribuenti, è lo snodo che più spesso è riaffiorato in questi giorni come indicatore del suo orientamento politico. “In posti come Middletown – scrive JD Vance della città dov’è cresciuto – la gente non fa che parlare dell’importanza di essere operosi. Potete girare tutta la nostra cittadina, dove il 30 per cento dei giovani uomini lavorano meno di venti ore alla settimana, senza trovare una sola persona consapevole della sua pigrizia”. 

È la denuncia di una cultura della povertà innescata da cambiamenti strutturali profondi – in primis la delocalizzazione delle industrie e il declino del potere contrattuale dei lavoratori. La conclusione, in un’ottica conservatrice, è che spetti alla cultura e non alla politica invertire il corso – è la narrativa del self made man, dove lo scenario sfuma e la responsabilità appartiene all’individuo.

“La cosa davvero straziante è che ha confermato lo stereotipo”, ha detto di recente Barbara Kingsolver che all’Appalachia, dov’è nata ed è tornata a vivere, ha dedicato il suo ultimo romanzo Demon Copperhead (Neri Pozza, 2023, 711 pp.), vincitore del Pulitzer 2023. Elegia americana, sostiene la scrittrice, “è stato abbracciato dal resto dell'America perché odiano gli hillbillies”, continua. “Ci guardano dall’alto al basso. Siamo l'ultima classe di persone di cui le persone progressiste si prendono gioco. Molti di noi riconoscono il razzismo strutturale, il razzismo istituzionale. Ma il classismo strutturale semplicemente non viene discusso perché l'America è la società senza classi. E ci abbiamo creduto sul serio”. 

Allora il trionfo elettorale repubblicano, così sorprendente e indecifrabile per i media liberal, trova però in quelle pagine radici e ragioni. È una finestra preziosa sul populismo, “uno dei sei libri migliori per capire la vittoria di Trump”, scrive il New York Times. JD Vance, in qualità di interprete e profeta di quel mondo, fa così ingresso nei salotti buoni dei media mainstream – diventa opinionista per CNN, scrive sull’Atlantic e le interviste fioccano. La sua storia toccante fa il giro del mondo e mentre il libro diventa un film bruttino con Amy Adams e Glenn Close diretto da Ron Howard (Hillbilly Elegy, 2020), lui spara a zero contro Trump definendolo un “idiota”, “un’eroina culturale” che “promette una soluzione facile per ogni problema complesso” e in privato lo paragona a Hitler. 

Il flirt con i liberal non è però destinato a durare. La svolta si consuma con gradualità e il 2020 segna il punto di ritorno. Vance vota per Trump, che definisce il miglior presidente della sua vita (“Come molti altri conservatori e liberali di élite, mi ero concentrato così tanto sullo stile di Trump da ignorare il modo in cui stava sostanzialmente offrendo qualcosa di molto diverso sulla politica estera, sul commercio, sull'immigrazione”, spiega a giugno in un’intervista a Ross Douthat sul New York Times). 

Due anni dopo è eletto al Senato per l’Ohio con l’endorsement dello stesso Trump. Altri due anni e dalla Convention repubblicana arriva la consacrazione finale. In lui il GOP oggi trova un nuovo leader, amato da Big Tech, capace di radicarlo in una base elettorale più ampia e traghettarlo verso il futuro. Ancora una volta la letteratura sta cambiando il mondo e nel modo più inaspettato.

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