In canoa sul Mississippi

14 Settembre 2023

“Non ho mai avuto paura del ridicolo, né mi spaventa l’insuccesso. Ho dunque deciso di discendere in canoa il Mississippi e scoprire di che pasta sono fatto”. Eddie L. Harris ha trent’anni quando s'imbarca nell’impresa. Non è uno sportivo e non ha idea di cosa lo aspetti, sa però che è tempo di andare. La sua vita è in stallo e così il sogno che rincorre da anni di diventare scrittore. Si fa prestare una canoa, racimola qualche attrezzatura e parte. In tasca ha 45 dollari. Due mesi e tremila chilometri dopo, ha svoltato per sempre. Quell’avventura diventa un libro che ormai è un classico, Mississippi solo (1988) e per lui si schiude una lunga e brillante carriera di autore di viaggi. 

Da poco in italiano per La Nuova Frontiera (traduzione di Nazzareno Mataldi e Clara Serretta, 336 pp.), quel memoir mantiene intatta la sua freschezza e ancora oggi regala uno sguardo inconsueto sugli Stati Uniti. Dal Nord industriale Harris arriva al profondo Sud, in un percorso che dalle sorgenti del fiume, nel lago Itasca in Minnesota, si conclude a New Orleans, sull'immenso estuario nel Golfo del Messico. 

Lungo il Mississippi, la spina dorsale della nazione, incontra il significato stesso dell’America: il suo profumo ricco e speziato, la sua storia e le contraddizioni, il suo immaginario. E mentre la navigazione procede, si compone il racconto di un giovane uomo che nella bellezza primordiale della natura, nella solitudine e nella fatica del quotidiano si misura con se stesso scoprendosi infine diverso e più forte.

Harris è cresciuto a Saint Louis, alla confluenza fra il Missouri e il Mississippi. Il fiume è per lui una presenza familiare, carica di memorie, ed è l'orizzonte del mito e della letteratura. “C’è il fiume della leggenda, il Padre delle Acque. Il fiume dei battelli a vapore e dei giocatori d’azzardo. Il fiume che scorre con le lacrime e il sudore degli schiavi. Sento il battito di tamburi indiani e il canto degli schiavi che riposano all’ombra dei salici delle piantagioni sulle sponde dell’Ol’ Man River. Il fiume è vivo nella mia testa, i paesaggi, i suoni e gli odori del fiume della mia immaginazione”. 

È un tessuto fitto di suggestioni dove dominano le figure di Mark Twain e di Ernest Hemingway, il cantore della vita all'aria aperta, l'ossessione di "ogni scrittore americano di sesso maschile". Scendere il fiume in solitaria è anche fare i conti con questi riferimenti, con lo spettro del fallimento e un futuro che fatica a prendere forma. E cosa c'è di più americano che immergersi nella wilderness per sanare le proprie ferite e ritrovare la strada?

Eddy L. Harris è afroamericano e oggi sarebbe il perno di questa storia. Un Nero in canoa in un paese dove tuttora le attività all'aperto sembrano appannaggio bianco, un Nero solo e vulnerabile nel Deep South dove il razzismo resta una realtà palpabile. I rischi non mancano. Glielo ricordano gli amici che cercano di distoglierlo dal progetto, glielo ripete lo zio Robert che pure lo incoraggia: “Da un posto dove non ci sono neri a uno dove ancora non siamo molto amati. Non so tu, ma io sarei un po’ preoccupato”.

Quanto a lui, non sottovaluta la questione ma rifiuta di farne l’elemento centrale. "Per me – scrive – il colore della mia pelle non ha mai costituito un problema, è più una caratteristica fisica, un po’ come il fatto di essere alto: un segno particolare per la polizia. È parte della mia identità, non ciò che sono”. 

È un'affermazione che oggi suona impensabile. Black Lives Matter, la denuncia delle violenze poliziesche e la questione razziale sono state al centro delle ultime presidenziali e i temi dell'identità ormai dominano il dibattito pubblico. I tempi sono cambiati e così i toni e la sensibilità. Appena si guarda alle date emerge però un'altra storia.

Il 1988, l'anno in cui esce Mississippi solo, è quello in cui Toni Morrison riceve il Pulitzer per il romanzo Amatissima, dove la protagonista è una donna che si ribella alla schiavitù. È il culmine di un lavoro letterario che nel decennio precedente, con Sula e Canto di Salomone, ha contribuito in maniera decisiva al nuovo canone afroamericano. Senza dimenticare che sei anni prima lo stesso premio è andato a Alice Walker per Il colore viola, intensa ricostruzione della vita di una giovane donna alle prese con la violenza di una società patriarcale e razzista.  

Alla luce di questi precedenti, quella di Harris non è un'ingenuità ma il tentativo di scavalcare il recinto dell'identità per gettare sul mondo uno sguardo personale, aperto e curioso. "Troppo egoista? Troppo semplicistico?", si domanda e la risposta è nei lavori successivi dove finirà per aggiustare il tiro. “Lentamente ho realizzato che non sono l’uomo di una volta, l’uomo che un tempo credeva di essere ciò era interiormente, che la nerezza della mia pelle era un mero attributo fisico come avere la barba o essere alto”, scrive nel libro South of Haunted Dreams (1993), che lo vede viaggiare in moto nel profondo Sud per esplorare il retaggio persistente dello schiavismo.

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L'anticonformismo resterà però il suo tratto distintivo e se c'è una voce fuori dal coro è la sua. Ancora oggi Harris rifiuta la dicitura African American e si definisce Black American, dopo che un lungo soggiorno in Africa l'ha convinto della fondamentale diversità di due esperienze che il discorso corrente invece sovrappone. E nel generale tono apocalittico spicca il suo ottimismo sulla condizione dei neri d'America e sugli Stati Uniti ("con tutti i problemi che abbiamo in questo paese, in qualche modo abbiamo fatto meglio di chiunque altro"). Non per caso i suoi ultimi libri sono usciti solo in Francia dove da vent’anni felicemente vive – ultimo esponente di una diaspora intellettuale afroamericana che in passato ha annoverato scrittori quali Richard Wright o James Baldwin. Il suo non è un approccio militante e oggi, soprattutto in America, sono quelli i libri che funzionano.

Proprio quest'irriverenza fa di Mississippi solo una lettura che incanta. Il viaggio di Harris non nasce per diventare un libro né è il resoconto di un'avventura sportiva. È un memoir che prende forma strada facendo per tradurre in parole un carico travolgente di sensazioni, emozioni, affetti. Harris è uno storyteller nato e sa che in questa traversata epica, come in ogni pellegrinaggio, lo straordinario si nasconde nel quotidiano. 

Ci porta dunque con lui mentre viaggia di giorno e di notte si accampa come può sulla riva. Lo accompagniamo mentre impara a governare la canoa e attraversare le chiuse, a fermarsi quando il tempo volge al brutto, a schivare le spaventose onde sollevate dai rimorchiatori e dalle chiatte. Questo non è solo il fiume di Huckleberry Finn. È una delle grandi arterie commerciali d'America dove ogni anno si movimentano 500 milioni di tonnellate di merci.

I giorni passano e il Mississippi cambia. A tratti scorre placido, trattenuto dalle dighe, a tratti si slancia tumultuoso, si allarga a dismisura, si sdoppia e si restringe. Lungo il suo corso, Harris trova una solitudine mai conosciuta prima, la paura di non farcela, la tentazione di mollare e la sorpresa di una felicità perfetta. Ci sono mattine gloriose di sole e nebbie fitte di misteri, aironi in volo e silenzi così profondi da sentire i pesci che gorgogliano a filo d'acqua. E poi cittadine dove il tempo sembra essersi fermato, pasti deliziosi e amicizie fuggevoli che si scolpiscono per sempre nella memoria. 

Ovunque prevalgono la curiosità e la voglia di dare una mano. "La gente in questo paese – scrive – ha solamente bisogno di un'opportunità per essere gentile e mostrare la sua sensibilità". È la solidarietà spontanea della gente di fiume, che conosce la meraviglia del Mississippi e la micidiale potenza delle sue acque. La lingua comune che ancora oggi lega le comunità dell'America rurale – la consapevolezza che nell'inondazione, l'incendio, l'uragano siamo tutti sulla stessa barca e se non ci si aiuta fra vicini si fa naufragio. 

Quello di Harris non è però un viaggio trionfale. C'è qualche brutto incontro (dove il colore della pelle, racconta, non c'entra). Ci sono passaggi dove le acque risultano visibilmente inquinate dagli scarichi industriali. E c'è il Sud che per lui, cresciuto a Nord, arriva come un pugno nello stomaco, "sporco e povero come il terzo mondo, buio come un posto sperduto in aperta campagna e decrepito come un ghetto urbano". 

Qui, lungo le sponde del fiume, dove un tempo si affacciavano le piantagioni schiaviste e le raffinate dimore padronali, si susseguono immensi stabilimenti industriali. È la Cancer Alley, il Vicolo del cancro, un tratto in Louisiana fra Baton Rouge e New Orleans, dove l'80 per cento degli afroamericani vive in quartieri inquinati e la mortalità per tumori è ormai cinquanta volte la media nazionale. Harris non ne scrive ma oggi non potrebbe farne a meno. 

Mentre il traguardo si avvicina, una malinconia contagiosa pervade le pagine di Mississippi solo. È il dolore per la fine di un viaggio che Harris sa irripetibile. Immergersi due volte nello stesso fiume è impossibile, ma soprattutto esperienze del genere sono in via di estinzione. "Oggi la vita è un evento mediatico. Sentieri ben pubblicizzati, ben segnati, ben tracciati, e tutte le cose giuste da fare e i posti da vedere ben indicati". 

È partito per uscire da una dimensione dove tutti possono assistere "con la vita vera fuori della nostra portata, al sicuro in una gabbia", ma sa che il processo è inarrestabile e "tra vent'anni saranno questi i bei vecchi tempi". Mai previsione è stata più azzeccata. Imprese come la sua, allora così fuori del comune, oggi popolano i social e anche l'ultimo angolo del pianeta sembra essere stato fotografato, filmato, narrato. L'avventura è diventata una merce e Instagram è il suo profeta. Siamo spettatori e siamo sazi. 

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