Chi ha fermato il carrarmato?

10 Agosto 2023

Il carrarmato è all’entrata del kibbutz Degania, nel nord d’Israele. Lì dove nel maggio 1948, nel pieno dell’attacco siriano sulle alture del Golan, un uomo arrestò la sua corsa di morte con una molotov fermando l’avanzata nemica. Così dice la leggenda ma questa storia ha cinque versioni e ognuna ha il suo eroe come svela Assaf Inbari, una delle voci più interessanti della letteratura israeliana, in Il carrarmato (Giuntina, 2023, 300 pp.), il romanzo che precede Verso casa, appassionante epopea della nascita del kibbutz, uscito un anno fa per lo stesso editore. 

Da poco in libreria nella bella traduzione di Alessandra Shomroni, Il carrarmato smonta la vicenda e con pazienza la ricompone finché i nodi più segreti e dolorosi vengono allo scoperto. Quello che al visitatore distratto può sembrare uno dei tanti memoriali che punteggiano questa parte del paese rivela così un retroscena complesso che chiama in causa i meccanismi della memoria, la costruzione del simbolo e del mito e il tessuto stesso dell’immaginario collettivo. 

Come in un giallo, la domanda è: chi è stato? In questo caso, chi è l’eroe? Chi in quei giorni convulsi ha fermato la colonna di tank siriani alle porte di Degania, “la madre di tutti i kibbutz", il primo insediamento collettivo dell’allora neonato Stato d’Israele? È stato davvero Shlomo Hochbaum come si dice? E se non è andata così, cos’è successo? La risposta non è scontata, avvisa l’autore fin dall'esergo. "Nel secondo libro di Samuele (21,19) Golia fu ucciso da un uomo di nome Elchanan” si legge e non si può fare a meno di chiedersi chi sia Elchanan e soprattutto dove sia finito David con la sua fionda.

Sulla base di un’accurata ricerca documentaria, Assaf Inbari ricrea i fatti in chiave di fiction seguendo i protagonisti nel tumultuoso periodo fra la guerra del 1948 e la guerra di Kippur del 1973 – due snodi centrali nella storia e nella coscienza d’Israele. 

È il ritratto affascinante di una società in trasformazione per mano di un autore che appartiene alla generazione dei nipoti dei fondatori dello Stato, quella che oggi si trova a fare i conti con il prodotto di quelle scelte. Un caleidoscopio di volti, voci, emozioni dove il racconto si ricompone nella memoria e come nella Bibbia, che in queste pagine è un rimando costante, le versioni divergono e gli accenti si spostano. Nessuno mente ma la verità rimane un miraggio – sempre a portata di mano e per sempre inafferrabile. 

Ecco dunque l’eroe ufficiale. Shalom Hochbaum, sopravvissuto a Bergen Belsen e membro del kibbutz Degania, che il 20 maggio 1948 ha bloccato la colonna siriana lanciando una bottiglia incendiaria contro il carrarmato. È la storia che ripete ogni volta che fa da guida ai visitatori ed è la narrativa del mito che sedimenta quei fatti nella coscienza del paese. Poi ci sono le storie di Itzhak Eshet, Shlomo Anshel, Borka Bar-Lev e David Zrachia e ognuna schiude un’altra prospettiva. La molotov diventa una granata anticarro o forse due o forse più; la guerra si mostra in tutto il suo carico di disperazione e morte e da solitario il gesto si fa collettivo, chiamando in causa superiori, commilitoni, addestramento e considerazioni tattiche. 

Il carrarmato non è però un teatro dell’assurdo né un flusso di memoria dove i contorni della realtà si deformano e sfumano. La cornice non potrebbe essere più realistica, la trama così serrata da restare ipnotizzati e l’unico assurdo è l’orrore della guerra (la descrizione del caos e della sofferenza nelle retrovie durante la guerra di Kippur dall’inusuale punto di vista di un meccanico di carrarmati è di quelle che lasciano il segno). 

Se gli scenari sono quelli che il lettore ha imparato a conoscere da Amos Oz, il segno non potrebbe essere più diverso. Dove Oz portava in primo piano la condizione esistenziale, quei paesaggi dell’interiorità di cui è stato uno dei grandi narratori, Inbari sceglie di confrontarsi con la realtà del paese. L’attenzione si sposta dunque sui temi da cui, scrive nel saggio The kibbutz novel as erotic melodrama (2012), l’esistenzialismo e il surrealismo hanno a lungo esentato la letteratura israeliana: la “complessità di una società binazionale, multiculturale e composta da immigrati, con la sua storia e la sua attualità, con la condizione israeliana che non è soltanto ‘la condizione umana’”. 

In questa direzione, si ricollega alla tradizione ebraica dove dal Talmud alle storie dei Hassidim il racconto non riporta i fatti ma trasmette memoria. Il racconto educa e insegna. Non è storia e non è fantasia. È la costruzione di un patrimonio collettivo di saperi, spesso discordanti, che si tramanda e rinnova lungo le generazioni. È il filo che da secoli tiene insieme un popolo disperso fra i continenti e annoda il senso di una continuità. Ed è il terreno dove prendono forma il simbolo e il mito. 

In questa luce, la vicenda del tank si rivela il frammento di un racconto ben più articolato dove la lettura del passato ha il compito di orientare il futuro – un impegno tanto più cruciale nella società in costruzione di quegli anni, come capisce Shlomo Anshel, uno dei protagonisti di Il carrarmato. “È questa la lezione? Il messaggio che si vuole trasmettere? David e Golia? I siriani si stanno avvicinando, ma andrà tutto bene … fidati di Hochbaum”, sbotta. “Ci attaccano con carri armati ma noi ce la caveremo con quello che abbiamo a disposizione, improvviseremo una fionda. È questo l’insegnamento?”.
È il perno attorno a cui ruota il carosello delle versioni. Qual è la lezione da tramandare? Qual è il simbolo? David che sconfigge il gigante con la sola forza dell’astuzia o, come dicono altri, gli insorti del Ghetto di Varsavia che scagliano una molotov contro un blindato tedesco nel maggio 1943? Si trasmette la memoria dell’oppressione o quella della libertà? L'eroe è chi ferma il carrarmato o chi l’ha indotto a fermarsi? La discussione può suonare datata ma basta scorrere le cronache per realizzare che non lo è. I miti hanno lunga vita, a tratti s’inabissano ma come un fiume carsico poi riaffiorano e dilagano nel presente.

La difesa di Degania, uno dei punti di svolta di quel bagno di sangue che fu la guerra del 1948, lascia un segno indelebile nell’animo dei protagonisti. E mentre altre guerre impongono il loro pesante tributo, in queste pagine vediamo Israele cambiare a un ritmo tumultuoso. Il sogno di una società egualitaria viene meno e un’altra classe politica occupa la scena; la spinta all’industrializzazione genera nuove ricchezze e l’austerità dei padri fondatori cede il passo al consumismo. La descrizione del collegio di Ben Shemen dove studia Shimon Peres e si forma l’élite colta e snob del partito laburista e i retroscena dell’operazione Entebbe sono fra le pagine più gustose e pungenti del libro. 


In questo ritorno alle origini della società israeliana Assaf Inbari rintraccia i semi dell'attualità e non è un mistero dove vadano le sue simpatie. Nato nel 1968 nel kibbutz Afikim dove ha vissuto fino a vent'anni, ha attraversato la crisi di quel modello comunitario e l’onda delle privatizzazioni che alla fine dei Novanta hanno raggiunto anche il leggendario Degania. Lo scrittore, che dopo un decennio a Tel Aviv è tornato a vivere in kibbutz, rifiuta però di liquidare quell’esperienza, pur con tutti i suoi limiti, come un fallimento totale.

A fallire è stata l'impresa socialista ma il kibbutz, sostiene, non è un’utopia: è un riferimento irrinunciabile. “La gente ha bisogno di comunità, di calore umano, di famiglia, di stato”. Ha bisogno di un senso di appartenenza, di partecipazione, di significato. Inbari ha più volte stigmatizzato lo spirito “post-sionista” di Tel Aviv, dove i grattacieli affollano lo skyline, i locali sono presi d’assalto e il denaro scorre a fiumi: l’individualismo sfrenato e la corsa ai consumi non sono la risposta.

Sono affermazioni controcorrente nel paese delle start up e della new economy ma la politica c'entra fino a un certo punto. Qui non è questione di destra o di sinistra. Quello di Inbari è un richiamo all’ethos dei fondatori, al loro idealismo e al loro senso di responsabilità davanti alla Storia – la rivendicazione di un impegno e di una dimensione comuni. È la matrice che ha segnato le origini di Israele e oggi sembra esprimersi nelle manifestazioni che da mesi riempiono di bandiere le piazze e i parchi del paese contro la riforma giudiziaria del governo. È il senso di un legame che si rinnova, un mito generoso che con prepotenza riaffiora e scuote le coscienze.

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