USA: scusi, dov’è la verità?

14 Ottobre 2024

Questa storia non esiste. È una bufala, un falso, una bugia. Parla di alligatori liberati nel Rio Grande per dilaniare i clandestini al confine Sud, sostanze chimiche nell’acqua che trasformano i bambini in transgender, cani e gatti fatti arrosto, bagni di sangue. Mette in piazza le abitudini sessuali di JD Vance, il vero colore di Kamala e i finti attentati a Trump. Spiega che il governo controlla gli uragani, il wifi provoca il cancro e il vaccino anti-Covid è tutta una cospirazione. 

In un mondo migliore, la vera notizia sarebbe che se ne parli. Le presidenziali hanno però la capacità di tirare fuori il peggio dall’America e da mesi la gara è a chi la spara più grossa. Vale dunque la pena tornarci sopra perché la somma dei falsi che da mesi animano la conversazione pubblica è la fotografia di uno stato d’animo – un distillato degli umori che ribollono nella pancia del paese. È un gioco al ribasso dove nessuno è innocente, i fact-check lasciano il tempo che trovano e la deriva partigiana è garantita. E mentre i fatti sfumano in un’approssimazione, la verità finisce all’angolo e il terreno di scontro diventa sempre più scivoloso.

La traiettoria del falso è ormai rodata. Quella degli immigrati haitiani che nella cittadina di Springfield, Ohio si dice divorino cani e gatti è un caso da manuale. La bufala debutta sui social locali, il regno delle paranoie, e da lì prende il volo verso la scena nazionale. È la parabola perfetta delle paure che animano l’elettorato di destra. Intercetta in chiave di razzismo i due temi al centro di queste elezioni, economia e immigrazione. Mescola orrore, disprezzo, violenza: è la voce del cittadino qualunque travolto dai demoni alla modernità in una delle infinite piccole città che punteggiano la flyover country. Rimbalza su X e da lì a un comizio di JD Vance. Trump, che della menzogna ha fatto il suo stile, la rilancia al dibattito presidenziale e a quel punto non c’è verso di tornare indietro.

Seguono smentite, inchieste, interviste, commenti – un cataclisma che chissà quanto sposta in chiave elettorale. I sostenitori si compattano, gli oppositori urlano allo scandalo e ognuno resta della propria opinione. Intanto a Springfield fioccano gli allarmi bomba, le scuole sono evacuate e gli immigrati haitiani si sentono a rischio. Poco dopo, un gruppo di estremisti di destra sbarca nella cittadina e pattuglia in armi le vie a difesa dei cittadini americani, s’immagina quelli bianchi. 

È il genere di scenario diventato familiare negli anni della presidenza Trump – forse l’unica ad aprirsi con un falso clamoroso (il milione e mezzo di persone alla cerimonia di inaugurazione) e concludersi con un falso ben più terrificante (le elezioni rubate nel 2020). Allora come oggi, le parole sono pietre e i social hanno la capacità di trasformare ogni idiozia in un pericolo mortale. Per conferma, basta tornare al 6 gennaio e all’attacco al Campidoglio.

Per quanto ormai prevedibili, il caos e i fuochi d’artificio di Donald Trump restano abbaglianti. Il che non significa che i democratici siano candidi gigli del campo. Pur senza scendere al suo livello, nota sul New York Times James Kirchik, ricercatore del Foundation for Individual Rights and Expression, nel dibattito presidenziale neanche Kamala Harris ha “aderito strettamente alla verità”. Come dire, tecnicamente non ha mentito ma sfumato, approssimato, aggiustato.

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Prendiamo la storia della marcia suprematista a Charlottesville, in Virginia, dove nell’estate 2017 centinaia di estremisti di destra sfilano contro la rimozione della statua del generale confederato Robert Lee, la violenza razziale esplode e la giovane Heather Heyer è uccisa. Secondo Harris, scrive Kirchik, Trump “ha detto che c'erano 'persone perbene' tra i neonazisti e i suprematisti bianchi a Charlottesville sette anni fa, una distorsione ripetuta spesso di una dichiarazione fatta da Trump all'epoca che, tuttavia, rimane un articolo di fede tra i liberali americani”. Harris, continua, “ha anche affermato in modo ingannevole che Trump ha detto che ci sarebbe un 'bagno di sangue' se non venisse eletto, quando il riferimento originale riguardava la perdita di posti di lavoro nell'industria automobilistica statunitense." 

Infine, conclude il commentatore conservatore, non è vero che come ha detto Harris “Non c’è un solo membro delle forze armate degli Stati Uniti in servizio attivo in una zona di combattimento in alcuna zona di guerra nel mondo — la prima volta in questo secolo.” “Questa affermazione – continua Kirchik – ignora le migliaia di truppe americane schierate in Medio Oriente dal 7 ottobre, per non parlare dei militari uccisi in Giordania nell'attacco con droni di gennaio. Nonostante queste affermazioni siano false, tuttavia è stato solo Trump che i moderatori di ABC, David Muir e Linsey Davis, hanno cercato di correggere."

Nel pieno di un dibattito presidenziale, con 67 milioni di spettatori collegati in diretta, sono decisioni che si prendono nel giro di secondi. A posteriori, la domanda diventa però inevitabile. È più importante demistificare in diretta la bufala sugli haitiani di Springfield o la storia del bagno di sangue annunciato da Trump in caso di sconfitta? Prima la clamorosa menzogna o la garbata mistificazione? Qual è più urgente, quale più allarmante? Sono interrogativi destinati a restare senza risposta perché non è un mistero che, fin dall’avvio della campagna elettorale, il circuito dell’informazione mainstream usi due pesi e due misure – uno standard per i democratici e uno per i repubblicani. 

A meno di ricorrere a qualche strampalata teoria della cospirazione, non si spiega altrimenti come le condizioni di Biden siano rimaste così a lungo un mistero e come a giugno le rassicurazioni della portavoce della Casa Bianca Karin Jean-Pierre siano passate senza colpo ferire. Il presidente, aveva garantito Jean-Pierre, era come sempre al lavoro e i video che lo mostravano traballante, smarrito e in difficoltà pura “disinformazione” – “falsi da due soldi”. Una settimana dopo, il disastroso dibattito con Trump illuminava la menzogna di una luce impietosa aprendo una crisi politica senza precedenti.

Nel vortice seguito alle dimissioni di Biden, i ranghi si sono stretti ulteriormente. Le domande scomode tacciono, i fact-check si applicano di preferenza all’opposizione e gli articoli adoranti rimpiazzano il ragionamento politico. “The only patriotic choice for President”, titolava di recente l’inserto di opinioni del New York Times sotto una gigantesca foto in bianco e nero di Kamala Harris e la ragione è tutta qui. In gioco c’è il ‘bene del Paese’. Non è il momento di fare gli schizzinosi e dunque si sorvola sui limiti della candidatura, le inversioni di rotta (il fatto che i suoi valori non siano cambiati pare una spiegazione sufficiente), una piattaforma elettorale a lungo così vaga da far sembrare Trump uno statista e perfino sugli scivoloni di Tim Walz, che durante Tienanmen forse era a Hong Kong o forse chissà. Sono mesi d’oro per quel giornalismo educativo che negli Stati Uniti aveva già dato pessima prova di sé nel 2016, quello che conduce il lettore/ascoltatore/spettatore alla giusta conclusione più che informare. Si può solo sperare che la Storia non si ripeta. In ogni caso, è uno spettacolo snervante e se sia davvero un bene per il tessuto della democrazia è tutto da dimostrare. 

Mentre scrivo, mancano tre settimane all’Election Day e in molti stati già si vota. Per dirla con Obama, oggi il più influente sostenitore di Harris, elezioni come questa si vincono e perdono negli ultimi giorni. In questa volata, il circuito dell’informazione riveste un ruolo centrale. Milioni di americani, fra cui la sottoscritta, si avviano alle urne senza mai essere stati lambiti dal flusso vivo della politica. La stampa locale sta esalando ovunque l’ultimo respiro mentre per ovvie ragioni i comizi, dibattiti e incontri si concentrano negli stati in bilico e nelle metropoli. Nel resto del paese non resta dunque che affidarsi ai giornali, alla tv, ai podcast e ai social, sempre più decisivi soprattutto per l’elettorato più giovane. 

A queste condizioni, realtà e fiction, informazione e spettacolo si confondono senza tregua – il Rio Grande pullula di alligatori; Harris costruirà il muro al confine Sud; il governo ha abbandonato le vittime dell’alluvione; Trump non beve, non fuma, non usa droghe; gli immigrati divorano i pets; Robert F. Kennedy Jr. ha un verme nel cervello; Trump ci ha lasciato la peggiore disoccupazione dopo la grande depressione; Trump deporterà 13 milioni di immigrati illegali. 

Cos’è vero, cos’è falso? E chi ha tempo e voglia di starci dietro? In questo fuoco incrociato di bugie e mezze verità, ognuno si aggrappa ai suoi giudizi e pregiudizi, la spaccatura fra democratici e repubblicani si approfondisce e il malessere cresce come i prezzi al supermercato. Peccato, perché i sondaggi mostrano che la credibilità dei media resta molto più elevata delle diverse piattaforme social e secondo uno studio di Bookman e Kalla pubblicato dall’American Journal of Political Science, “i messaggi persuasivi cambiano sia le valutazioni dei candidati che le scelte di voto e inducono defezioni partitiche; e i messaggi con maggiore contenuto informativo sono più persuasivi”. In altre parole, la gente merita rispetto. E non è questo il sale della democrazia?

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