Storia d'Italia attraverso i sentimenti (9) / Ferocia

7 Aprile 2021

Spicca la ferocia sul finire del 1945. E l’anno dopo, il primo della nuova Italia. È come se la guerra non fosse mai finita. Eppure la pace è arrivata, alla fine è arrivata, ma in un paesaggio di rovine. Dell’anima anche. Nuovi demoni non smettono di aggredire l’umano. Si sono soltanto cambiati d’abito.

Sono le efferatezze riportate dai resoconti giornalistici a raccontare lo stato in cui versa il Paese, gli assalti delle sue emozioni, i sentimenti distruttivi e i loro barbari furori, la sovranità della paura. Ancora la paura. E pesa come una cappa di piombo sulla vita di tutti i giorni. 

 

La storia del dopoguerra italiano si fa strada attraverso la dispersa episodicità della cronaca nelle sue nere accensioni. Dobbiamo guardare lì dentro, rimestare quel calderone di pulsioni e istinti irriducibili, che smantellano l’idea stessa di convivenza, rompendo gli argini di ogni ragionevolezza. Lì dentro s’intravvede un’Italia in bilico: la sua notte non è finita, l’insicurezza un’insidia costante. Così la ricostruzione del Paese si avvia avendo accanto la morte. “Noi ci siamo abituati alla morte, da anni vediamo la gente morire”, scrive Enzo Biagi ricordando quell’arco di anni. Accerchiato da una violenza irredimibile, il desiderio di normalità, che è nel cuore di tutti, stenta ad affermarsi

Numerosi gli episodi. Protagonisti diversi, diversi i sentimenti e le motivazioni. Ma a tenerli insieme è il manto funebre della più assoluta spietatezza. E la sua gratuità. 

 

Villarbasse, una ventina di chilometri da Torino. 20 novembre 1945. Primi freddi, e prime nebbie. Ma c’è un calore protettivo nella cascina Simonetti. E c’è allegria: si festeggia una nuova vita, quella della nipote dell’affittuario della cascina. Una nuova vita dopo tanta morte. In quell’allegria serpeggia il sentore di un nuovo inizio. E non è soltanto festosa allegria, è speranza. Ma l’una e l’altra saranno schiacciate.

È l’ora di cena, poco dopo le otto: attorno alla tavola sono riunite otto persone: l’affittuario, con la moglie e il genero, il proprietario della cascina, un dirigente dell’Agip che si è ritirato in campagna dopo la pensione, tre domestiche, e un giovane lavorante, che per festeggiare ha un suo personale motivo: la recente assunzione. Si aggiungeranno poi i due mariti delle domestiche. Mentre, in una stanza vicina, dorme un bambino di due anni, figlio di uno dei lavoranti. 

 

Al centro della tavola una fumante bagna cauda dal forte odore d’aglio, come esige la tradizione. Un rito rassicurante che celebra la continuità, ignora le fratture che ci sono state, le ferite, i lutti. Rincuora. Esalta i legami. Perché la bagna cauda si condivide, non la si può consumare da soli, prevede, attorno al suo centro, il ritrovarsi di una piccola comunità.

 

 

Ma ogni elemento di questo paesaggio vive in un equilibrio fragile, e, nel giro di pochi istanti, l’allegria si spegnerà nella disperazione andando incontro alla ferocia. Irrompono sulla scena quelli che, nelle cronache di quei giorni, verranno chiamati i barbari, quattro uomini armati, il viso coperto malamente da un fazzoletto. Dunque è una rapina, che risulterà poi, nella ricostruzione dei carabinieri, dal magro bottino: 200.000 lire, un paio di orecchini, delle calze, e dieci fazzoletti, e pure quattro salami, che i rapinatori consumeranno lungo la via di fuga, inghiottendo anche l’assurda atrocità dei loro gesti. L’immagine del magro bottino, con la ridicola appendice dei quattro salami, mettendo in evidenza tutta la miseria del tempo, può fuorviare, velando quello che è davvero accaduto a Villarbasse: una deflagrazione di violenza, che il contesto familiare in cui avviene non mitiga affatto.

 

Seguiamo la concatenazione dei fatti: poco dopo l’irruzione, a uno dei quattro rapinatori cade il fazzoletto che nascondeva il volto. E quel volto, ora in piena luce, ha i tratti familiari di un bracciante siciliano, che ha lavorato nella cascina fino a poco tempo prima. Un lampo di sbigottito stupore investe una delle domestiche che, senza esitazione, urla il nome dell’uomo, come se riconoscendolo potesse disfare la trama dei fatti. Ma i fatti sono impietosi, e il loro sviluppo si dimostra fatale. In quel nome imprudentemente gridato, risuona una condanna a morte: nessuno resterà in vita, se non il bambino, ignaro testimone della tragedia. I quattro uomini si avventano con furia sulle loro vittime, tutti gli occupanti della cascina, dieci, uomini e donne. Li dispongono in fila, li massacrano a bastonate, li legano mani e piedi con il filo di ferro, e dopo averli agganciati a una lastra di cemento, li gettano in una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana. Non tutti muoiono per effetto delle bastonate, qualcuno si spegne lentamente in una lunga stordita agonia. I corpi saranno ritrovati solo qualche giorno dopo, immersi nell’acqua putrida, il cranio sfondato. 

 

Per arrivare ai colpevoli ci vorrà qualche mese. Inizialmente le indagini girano a vuoto, come se nell’oscurità della cisterna della cascina Simonetti, insieme ai corpi delle dieci vittime, fosse sprofondata l’intera storia della strage di Villarbasse. Poi, seguendo una serie di indizi, i carabinieri, sciolgono l’enigma: gli autori dei delitti sono quattro amici di un piccolo paese dell’entroterra palermitano – Mezzojuso –: Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti e Francesco Saporito, che, poco dopo il suo rientro in Sicilia, verrà ucciso dalla mafia (è lui l’ex-lavorante della cascina riconosciuto durante la rapina). I tre, rei confessi, verranno processati nel luglio del 1946, e condannati a morte. Il Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, rifiuterà loro la grazia. Il frate francescano che li ha assistiti ha raccontato che, saputa la notizia, i tre “urlarono per tutta la notte come lupi”.

 

I “lupi” (“Fucilazione di tre barbari” intitola il quotidiano “La Stampa”) verranno fucilati nella prima mattinata del 4 marzo 1947 al poligono delle basse di Stura, un tempo riserva di caccia dei Savoia. Fra i testimoni c’è un giovane giornalista della “Gazzetta del Popolo”, Giorgio Bocca, che, nel 2007, a sessant’anni di distanza, rievoca quella “tetra” mattinata del marzo 1947: “Il plotone di esecuzione di trentasei uomini è schierato sul pendio che sta di fronte al muro dei condannati. C’è il frate che va da una sedia all’altra, cui i condannati sono legati, e mormora parole consolatrici che loro non ascoltano rannicchiati come orsi dietro il legno delle sedie, l’ultima illusoria protezione… Parte la scarica che, nel vuoto della campagna, è appena un crepitio, tanto che neanche i passeri si spaventano. Due dei condannati si afflosciano sulle sedie, Puleo non so come, torcendosi è riuscito a sollevarsi e a gridare qualcosa. Ma cosa? Un collega ha preso appunti. “Che cosa ha gridato?”: “Viva la Sicilia indipendente e libera”.

Si conclude con questo grido nel vuoto la storia della strage di Villarbasse. L’esecuzione dei tre responsabili è stata una delle ultime esecuzioni prima che la nuova Costituzione repubblicana, entrata in vigore il primo gennaio del ’48, mettesse al bando la pena di morte.

 

Fonti:

Giorgio Bocca, “Pena di morte quell’ultima volta nell’Italia ‘47”, “La Repubblica”, 4-3- 2007.

Leonora Sartori e Sergio Marcoccia, Villarbasse la cascina maledetta (ricostruzione a fumetti), 2006.

Mario Avagliano e Marco Palmieri, “Dopoguerra”, 2019.

 

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