Speciale

A cosa servono le “competenze”?

26 Maggio 2014

Da qualche anno ormai gli insegnanti italiani si confrontano con la nuova didattica per competenze: del gennaio 2010 è il Decreto ministeriale n. 9, che rende vincolante tale pratica, frutto di un percorso più che decennale delineatosi a livello europeo, oltre che italiano. Il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 ha infatti inaugurato una serie di incontri relativi al problema della formazione, volti essenzialmente a delineare un quadro europeo di competenze in grado di fronteggiare le sfide della globalizzazione e di sviluppare nuove abilità per la società della conoscenza.  


Nell’Istituto scolastico paritario in cui svolgo l’attività di insegnante si percepisce una grande enfasi relativa alla didattica per competenze, poiché la dirigenza, così come d’altronde alcuni colleghi, ritiene che essa introduca una vera rivoluzione nell’ambito educativo e che una sapiente pubblicizzazione delle attività scolastiche improntate a tale didattica possa richiamare numerosi studenti/clienti interessati a un approccio educativo diverso dal tradizionale.


In questo contesto normativo e lavorativo, dopo aver cercato di chiarirmi le idee relativamente alle competenze – impresa non facile vista la pletora di definizioni che negli ultimi anni legislatori, pedagogisti e specialisti di ogni genere hanno proposto – mi sono chiesto quale fosse lo scopo strettamente pedagogico della didattica per competenze e quali fossero i concreti effetti di soggettivazione che la logica delle competenze mette in opera.
Dalla lettura del Libro bianco della Commissione europea del 1995 e dal Provvedimento di Lisbona del 2006, risulta chiaramente la funzione che una didattica per competenze dovrebbe assolvere: in una società in perpetuo mutamento e in un mercato del lavoro flessibile e imprevedibile, è necessario investire in una formazione che sia innanzitutto coordinata a livello europeo, che sia continua e garantita tanto dalle imprese quanto dagli enti formativi lungo tutto l’arco della vita lavorativa dell’individuo, e che infine non sia più fondata su saperi da trasmettere in blocco ai discenti, ma sullo sviluppo e l’incremento di competenze, intese come capacità di mobilitare risorse interne di vario tipo – cognitive, affettive, motivazionali – in relazione ai sempre nuovi e mutevoli contesti.


La competenza parrebbe così rispondere all’annoso quesito delle scienze dell’educazione, quello cioè relativo al passaggio dalla conoscenza alla pratica, da attuarsi mediante una “rivoluzione copernicana” in ambito educativo: è ora il sapere, destituito della sua centralità, a girare attorno all’allievo, e quindi a servire le sue esigenze. La didattica per competenze assume come punto centrale del suo operare la pratica, la quale indirizza e guida l’apprendimento che è così inteso essenzialmente come modalità funzionale alla gamma di situazioni concrete con cui un discente si confronta.

Tuttavia, le esigenze pedagogiche che sembrano sostenere la didattica per competenze passano ben presto in secondo piano non appena si delinei l’ambito nel quale questa didattica ha potuto svilupparsi: il mondo dell’impresa postfordista e le strategie di governo neoliberali. Infatti, sebbene nell’approccio per competenze sia possibile individuare un intento pedagogico, non si può ignorare che tale “rivoluzione copernicana”, più che assumere la centralità dell’allievo, mette al centro il mercato e i processi economici. L’idolatria della flessibilità ormai impone ai sistemi educativi, riformati secondo la logica delle competenze, di produrre individui in grado di mobilitare risorse in situazioni cangianti, al fine di adeguarsi appieno alle richieste dell’imprevedibile sistema economico e della “società della conoscenza”. La razionalizzazione della scuola, ammantata dalla retorica delle competenze, ha come essenziale e neppure poco esplicito scopo l’integrazione del sistema educativo nell’ambito economico. Da questo punto di vista, la didattica per competenze rappresenterebbe il trait d’union tra il mercato del lavoro e i soggetti in formazione, che ci introduce al secondo aspetto della questione, ovvero i concreti processi di soggettivazione messi in atto in ambito scolastico dalla logica delle competenze.

Ritengo che il discorso educativo abbia in primo luogo a che fare con soggetti, o meglio con processi di soggettivazione, in cui gli individui umani sono portati a pensarsi, a concepirsi e ad agire come soggetti all’interno di ambiti esperienziali peculiari. Nel contesto delle riforme dei sistemi educativi delineati in precedenza, quali processi di soggettivazione/assoggettamento mette in atto la scuola delle competenze?
Da una parte, assistiamo a un’ossessione diffusa, non soltanto in ambito educativo, per la misurabilità e la quantificabilità del reale. Questo atteggiamento epistemico, acritico quanto impensato nei suoi fondamenti, si è introdotto nel discorso scolastico con prepotenza grazie alla didattica per competenze, la quale è ritenuta capace di rispondere alle esigenze di misurabilità, e perciò di trasferibilità, delle acquisizioni degli studenti, ovviando al problema dell’incapacità di dare valutazioni oggettive da parte del “vecchio” docente-formatore. Si pensa di aver finalmente risolto il problema della misurabilità centrando l’osservazione su dati concreti, cioè sulle effettive performances che uno studente è in grado di offrire agli occhi del disincantato professore-valutatore, le quali verranno immediatamente segnalate e classificate all’interno dell’adeguata competenza da osservare. È quasi superfluo richiamare l’assurdità del compito richiesto a un docente, o meglio: a un professionista dell’educazione, il quale deve nel contempo partecipare all’attività didattica e valutarla con occhio disincarnato e oggettivo. Insomma, durante un bel dialogo in classe sul libero arbitrio, che magari infonde anche un evanescente piacere, il nuovo professionista dell’educazione dovrebbe distinguere oggettivamente i risultati della riflessione per i discenti da quelli per il docente, tenendo distinti due piani, quello del supervisore e quello dell’attore, che in realtà non sono distinguibili. Il docente sarebbe quindi costretto a scontrarsi con l’impossibilità di agire e al tempo stesso di descrivere il gesto compiuto, come se fosse simultaneamente nella classe e fuori di essa, agente e protocollo osservativo.

Dall’altra parte, il dispositivo delle competenze si appoggia sull’idea indiscussa e largamente presupposta che l’educazione abbia a che fare con individui che devono approfittare dei settings educativi creati dalla scuola al fine di mobilitare le giuste risorse nella risoluzione di problemi, risorse debitamente registrate e valutate dalla griglia delle competenze. Questa visione del discente, che è a un tempo teorica e normativa, implica l’uso del sapere, della cultura, dell’arte e di qualsiasi elemento su cui si imperniava la scuola fino a qualche anno fa, solamente in un’ottica funzionalista e utilitarista, quindi come merce culturale. Il messaggio è chiaro: nulla ha importanza se non lo sviluppo di competenze legate all’individuo, o meglio: se non l’accumulo di competenze che, seguendo la logica dell’aggiornamento informatico, andranno a costituire un primo bagaglio culturale che va capitalizzato dal soggetto competente, il quale quanto più si mostrerà adatto alla realtà economica e al contesto, tanto più si impegnerà a gestire positivamente, in un aggiornamento continuo, l’usura e l’ampliamento delle sue competenze.


L’ossessione per una misurazione oggettiva delle performances scolastiche incontra e sostiene la gestione del curriculum di competenze cui è chiamato a dar prova il giovane discente trasformato in imprenditore di se stesso: all’incrocio della quantificazione della merce culturale e di processi di soggettivazione/assoggettamento, la logica delle competenze rappresenta il volano pedagogico in grado di permettere il passaggio da forme tradizionali di scuola a forme più consone e coerenti con il sistema postfordista di organizzazione della produzione.

In definitiva, sembra che l’approccio per competenze derivi surrettiziamente dalle teorie del capitale umano e delle risorse umane. Le tecnologie di governo neoliberali, così come vennnero analizzate da Foucault nel corso al Collège de France del 1978/1979 sulla nascita della biopolitica, possono aiutarci nella comprensione dello sviluppo del discorso sulle competenze. Queste ultime infatti sembrano basarsi sull’idea di individuo inteso primariamente come imprenditore di se stesso, che opera, già in un contesto scolastico, secondo la razionalità strategica della valorizzazione capitalistica. Gli individui, trasformati in imprenditori del proprio capitale umano, trovano un riscontro del loro progetto di vita nel regime di verità tipico della governamentalità neoliberale, e cioè il mercato e le sue leggi naturali portate a visibilità dall’economia politica.

Per concludere, dai documenti dell’Unione Europea mi sembra che l’approccio per competenze non nasca dalla pedagogia iuxta propria principia, ma dal mondo dell’impresa e dalle esigenze di una società della conoscenza e di un mondo del lavoro che, sempre di più, riassorbono in sé e secondo le loro logiche qualsiasi altro ambito originariamente distinto. La solidarietà delle pratiche relative alle competenze con le tecnologie di governo neoliberale comporta la perdita di alcuni aspetti dell’educazione che, a mio avviso, ne rappresentano invece i fondamenti. Il primato dell’ambito operazionale infatti mette in secondo piano una serie di occasioni che dovrebbero costituire il nerbo di un percorso educativo: innanzitutto la riflessione sull’agire e sul senso di ciò che si fa, in modo tale da ricostituire i legami col mondo inteso come progetto di mondo, e non come mondo già bell’e pronto all’uso (e consumo). Uscire dall’assurdità del discorso che pretende di ridurre gli studenti a semplici funzioni di un mercato imprevedibile, permette di concepire la formazione come il luogo in cui si può far esperienza di quello scarto costitutivo, di quella mancanza che è all’origine del movimento stesso dell’apprendimento e, socraticamente, centro del sapere medesimo e della possibilità di altre soggettivazioni.

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