Gli anni Ottanta, naturalmente / Ho tanta

31 Marzo 2016

Che cos’hanno in comune un joystick, un fiordifragola, il Ramazzotti (amaro, ma anche cantante tutto sommato) e la scritta “Italians do it better” su una maglietta attillata? Non ci pensate troppo, è meglio: gli anni Ottanta naturalmente. Eccoli ancora, sempre lì, gli amatiodiati anni del mondiale di Paolo Rossi, dei paninari e di Simon Le Bon (un nome e un programma politico, predestinato a sfiorire nel tempo naturalmente), ma anche di piazza Tienanmen e di Solidarność. Anni che non ci guardano ma che amano farsi guardare, titillare la nostra memoria riportando a galla immagini di varia natura, oggetti, situazioni, personaggi e sì, anche qualche fatto, ma non troppi per favore e possibilmente non concatenati. Anni madeleine, che tutti amiamo assaggiare con il tè per riportare indietro la memoria purché, appunto, non ne vengano fuori i sette volumi della recherche proustiana. Sette no, ma uno sì, e magari proprio quello di Paolo Morando dal titolo ’80 L’inizio della barbarie (Laterza, 231 pagine, 16 euro) che quel periodo rievoca con notevole precisione, fornendo dettagli che spesso sfuggono e chiarendo le relazioni che diversi fatti intrattengono con il presente. Una contemporaneità che è più figlia di quell’epoca di quanto forse desideri ammettere. Che sia venuto finalmente il momento di consegnare alla storia gli Eighties? Forse.

 

Rimane tuttavia il fatto, piuttosto inquietante, che sono anni per chi li ha vissuti, come lo è il libro di Morando. Dovete essere stati lì per capire e per divertirvi, ma anche, forse, per riflettere. Dovete insomma essere quarantenni come lo sono io. Come direbbero quei pubblicitari che hanno contribuito a fare degli Ottanta quel che sono stati (imbarbarendo ineluttabilmente anche la pubblicità), questo libro ha un target molto preciso. Un “lettore modello” avrebbe detto Eco, esplicito e ben definito, ovvero quel soggetto virtuale a cui uno scrittore pensa quando scrive e il cui ritratto resta impigliato nelle pieghe del testo. Ecco, è questa la cosa che mi colpisce di quel periodo e che, dove più dove meno, caratterizza le sue rievocazioni: si parla a dei corpi prima ancora che a delle menti, a una memoria che è dei gesti e delle sensazioni più che del “come eravamo” in quanto collettività. E francamente non credo, come si è detto, che sia per nostalgia di un’epoca in cui i quaranta-cinquantenni erano giovani e pieni di belle speranze (?) (Morando riporta puntualmente le attaccatissime rievocazioni degli Eighties da parte dell’ex Presidente del Consiglio Enrico Letta), non foss’altro perché non è stato sempre così. 

 

 

È diverso, per esempio, il modo in cui i miei genitori hanno ricordato per tutta la vita i favolosi Sessanta. Non sto dicendo che erano diversi i ricordi, quello è ovvio, dico che era diverso il modo di ricordare. Quelli erano anni per tutti, da raccontare ai figli e ai nipoti, da riascoltare per mezzo di immancabili canzonette che ancora oggi continuano a tormentarci con gli stessi protagonisti di allora che non la piantano di partecipare ai festival di San Remo e ai veglioni televisivi di capodanno. E non solo perché a guardare la TV ci sono i loro coetanei – ancora una questione di target – ma perché tutti, in fondo, gradiscono e capiscono (a eccezione magari del veglione). Non è la stessa cosa con gli Ottanta. Chi ascolta più i Duran Duran e gli Spandau Ballet? A meno di improbabili reunions che, dal giorno dopo, tutti si affrettano dimenticare, l’ordine di scuderia sembra essere “lasciateli dove stanno”. Certo Madonna è sopravvissuta, ma quello è merito suo, non di un sistema che l’ha tenuta in vita. Gli altri sono i Righeira, Luis Miguel, Lu Colombo, Gruppo Italiano… Per carità, non voglio generalizzare, lo so anch’io che c’è il Lucio Dalla di Balla balla ballerino e La sera dei miracoli (anno 1980), nonché il De Gregori di Titanic e molto altro, ma per qualche strana ragione loro vengono derubricati, tirati fuori dal tempo. Madonna e pochi altri possono esibire la patente degli anni Ottanta. Gli altri, per rimanere nella musica, sono le sigle dei cartoni animati, da Candy Candy a Goldrake passando per Capitan Harlock e Lady Oscar che, imperterrite, ritornano anche senza aver dimestichezza con storie e personaggi. Ecco, vedete, ci sono cascato anch’io. Si parla degli anni Ottanta e vengono fuori le liste.

 

Funziona così, sono anni da collezione, non c’è niente da fare. Collezione in senso stretto, come i francobolli e gli insetti, insiemi di cose che hanno certamente qualcosa in comune, che documentano un fenomeno e, come tali, possono avere un valore collettivo, ma che esistono grazie alla passione del collezionista, al senso puramente personale che possono assumere. Perché riempire stanze e stanze con commemorativi e coleotteri se non perché li troviamo irresistibili? Ovviamente è difficile capire il collezionista se non si ha la stessa passione, a meno ovviamente che questi non possa esibire un Gronchi rosa il cui valore di mercato traduce in sé il desiderio. Eppure, ha chiarito ancora Eco, la lista, quando è abbastanza lunga, è in grado di produrre una vertigine, quella stessa che proviamo quando immaginiamo il concetto di infinito (La vertigine della lista, Bompiani). Per il semiologo la lista sarebbe insomma un dispositivo, uno strumento grazie al quale ottenere un effetto estetico che si fonda tuttavia sull’estesia, sulla sensazione che l’accumulo produce. È grazie a questo dispositivo che la collezione di francobolli e di insetti può avere un certo effetto anche sui non appassionati. Ed eccoci al punto: gli anni Ottanta sono una passione, non un periodo storico. Perché chi li guarda da lontano possa goderne l’unica possibilità mi sembra proprio la poetica dello “eccetera” come la chiama Eco, in cui non c’è niente da spiegare ma solo da perdersi. E magari, ogni tanto, da riordinare.

 

Ricordate il personaggio di Alta fedeltà di Nick Hornby? Quando finiva una storia d’amore prendeva la sua mastodontica collezione di dischi (era proprietario di un negozio) e la riordinava. Prima la disordinava evidentemente, e poi sceglieva un nuovo criterio per sistemarla. Ogni volta la stessa collezione, la stessa massa, ma un ordine diverso. Alfabetico, cronologico, per generi e infine, ovviamente, autobiografico. Dovevi essere lui per trovare un disco. Dovevi sapere che aveva acquistato quel disco per regalarlo insieme al tale altro ma che poi aveva deciso di tenerlo e dunque che si sarebbe trovato subito dopo il secondo. È questo il bello delle collezioni, che poi ognuno le può riordinare a suo modo. “L’esistenza del collezionista si colloca nella costante tensione dialettica tra i poli del disordine e dell’ordine” diceva Benjamin nel suo famoso scritto sul collezionismo.Ci ho messo tutta la recensione per capirlo: il libro di Morando andava dato a un ventenne. Vorrei capire che ne pensa, se si diverte, se ride, ma soprattutto se per lui quel che è successo ha un senso. Ai quarantenni non resta che contribuire alla lista, magari con una voce nell’enciclopedia degli anni Ottanta di Doppiozero.

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