Mario Desiati. Ternitti
La narrativa italiana conosce un momento particolare. Sarà per via dell’aumento vertiginoso delle pubblicazioni – romanzi e racconti –, sarà forse per l’arrivo di una nuova generazione di scrittori, nata a metà degli anni Settanta, e anche dopo, ma non passa settimana che non escano libri nuovi, e anche interessanti. Non tutti ovviamente, anche perché l’attuale ritmo editoriale, imposto dalle leggi del marketing, sollecita anche gli scrittori già affermati – quelli della generazione degli anni Sessanta – a pubblicare un libro ogni anno, o quasi, non sempre con risultati soddisfacenti.
In questa massa di opere come orientarsi? Quali libri leggere? Quali no? Chi consiglia a chi? Tutti interrogativi cui vale la pena di rispondere. Come? Provando ad affidare il compito di leggere e recensire i libri ad una nuova generazioni di lettori, e soprattutto di lettrici – sono le donne a leggere più libri di narrativa, o più libri in generale, rispetto agli uomini. Ecco allora che inizia con questo primo articolo una “rubrica” di recensioni scritte da persone che debuttano in quest’attività portando con sé uno sguardo che non è quello dei critici di professione attivi su quotidiani, settimanali o riviste.
Pezzi non troppo lunghi, da leggere velocemente, ma sempre con una visione attenta e informata del libro che prendono in esame. Si chiama Italic, dal nome del carattere a stampa: un classico prodotto italiano.
Ternitti di Mario Desiati (Mondadori, pp. 259, 18,50 euro) racconta una delle tragedie silenziose dell’emigrazione italiana: migliaia di lavoratori salentini a partire dai primi anni Sessanta lasciarono la propria terra per raggiungere Zurigo, l’aria di freddo e fumo e le fabbriche di cemento-amianto, che promettevano una vita nuova nascondendone il prezzo.
Una storia di donne, amore, riscatto, e insieme pagine di denuncia sociale e testimonianza di una possibile coraggiosa resistenza. Ad attraversare quest’Italia del sud, con le feste di paese, le sagre e i santi troppo ingombranti, non sembra esserci altro che la bellezza intatta di una donna, Mimì. 1975: la conosciamo bambina, in Svizzera con la propria famiglia, che affronta gli anni difficili dell’emigrazione, prendendosi cura del fratello e recuperando l’infanzia sottratta inseguendo l’amore. La ritroviamo poi nella propria terra: una donna di trent’anni che ha accettato di crescere da sola Arianna, figlia della vergogna, ormai già quindicenne; una donna che cerca uomini che la sappiano desiderare; che lascia andare la propria figlia a Roma per studiare, imparando ad accettarne la sempre crescente diversità; che seduce con l’irriducibile distanza che mette tra sé e il mondo; che “coltiva rare e selezionate amicizie”; che prende coraggio “ascoltando le voci degli antenati” che la attraversano; che lavora instancabile e fiera in un cravattificio (“aggrediva la consegna”); che rivendica, infine, la propria libertà e pretende forza da chi la circonda, dalla figlia, così simile a lei, o dal padre della ragazza, il solo uomo amato che si distingue soltanto per viltà.
Mimì è la donna che chiede alla propria gente uno spazio di libertà e un atto di coraggio, negli anni del ritorno a casa, quando le morti degli uomini consumati scandiscono il tempo, e nei paesi di vedove e orfani si confezionano senza sosta parmasie che accompagnino i defunti.
La passione muove la scrittura di Desiati, le parole restituiscono gli odori della terra e trascinano e coinvolgono: la passione per gli eventi raccontati, per i luoghi, per la forza delle donne protagoniste.
E tuttavia la fierezza e la bellezza di Mimì e Arianna assumono spesso toni eccessivi (Arianna “incarnazione della bellezza: cruccio, presentimento di una prepotenza, e movimento guerresco verso l’uomo”), la fragilità stessa dai contorni quasi eroici, e quell’esser “altro” restituito dalle loro scelte, dalle battaglie, dal farsi guardare e dalla loro ostinata solitudine, perde potenza quando esplicitato in considerazioni che sospendono il flusso narrativo, risultando talvolta innaturali e fastidiose.
Il rischio è che al lettore sia lasciato troppo poco spazio per immaginare la propria Mimì; la costruzione di questo archetipo femminile, di donna nei cui tratti tutte le donne vorrebbero ritrovarsi, non emerge dalla e nella narrazione, ma diventa una sorta di nucleo a sé stante attorno a cui gli eventi si dispiegano (sopra tutti valga l’incontro sessuale con il suonatore, descritto nei termini di un richiamo cui Mimì non riesce a sottrarsi nonostante la bruttezza del luogo, dell’uomo e delle mani).
Le donne dello scrittore pugliese si muovono in un mondo in cui l’universo maschile manca di consistenza, se non con rare e sempre parziali eccezioni: Biagino, il fratello di Mimì, è un ubriacone che ha la bontà d’animo come unica virtù; Ippazio, padre di Arianna, è un debole incapace di prendere in mano la propria vita; gli amanti, dall’avvocato al giovane operaio, rimangono figure sullo sfondo, che la donna può manovrare come crede.
La denuncia sociale, gli eventi, i luoghi restituiti nei loro odori da un uso sapiente della scrittura, scivolano in secondo piano, pretesti per ritrarre una bellezza, un orgoglio e una femminile complicità in cui poco rimane di quella debolezzadavvero umana, non eroica e non epica, che affiora a tratti solo nelle prime pagine, nella descrizione delle notti dell’esilio Svizzero, con Mimì ancora bambina.
Il coraggio con cui madre e figlia affrontano insieme la lotta del riscatto, Arianna prendendo la parola in pubblico per denunciare il dramma dell’amianto e Mimì salendo sul tetto “per affrontare il nemico invisibile di una vita”, e la fragilità con cui abitano la propria femminilità, mancano dei toni dimessi che le restituirebbero a una quotidianità meno artefatta. Così il finale stesso, con la passione che contagia e consente il riscatto e la salvezza persino dell’uomo inetto, vile e colpevole.