Venezia 75 / Another Side of Venice

2 Settembre 2018

Sarà la proverbiale crisi del settimo anno (vengo al Lido dal 2011), o forse il nuovo alloggio (quello nel quale ero ospitato fino alla scorsa edizione non era più disponibile); ma mai come quest’anno la Mostra mi è apparsa, all’arrivo, così labirintica: transenne, deviazioni, vicoli ciechi. Ma è solo il primo impatto con il festival, come al solito: dopo qualche giorno di permanenza, tutto sembra rientrato ormai nella placida routine della Mostra – fatta eccezione con l’ossessione securitaria (metal detector, poliziotti, camionette, eccetera), che, occorre dirlo, si fa sempre più forte di anno in anno, dando alla cittadella del festival l’aria di una piazzaforte in perenne attesa del nemico.

 

Per quanto riguarda la selezione, al contrario, si può dire con un certo margine di tranquillità che, nel corso delle ultime tre edizioni, non ha fatto altro che migliorare (d’altra parte, forse era difficile far peggio dell’edizione 2015, quando i film indimenticabili si contavano sulle dita di una mano). Sulla carta, il concorso veneziano di quest’anno è uno dei migliori da parecchio tempo a questa parte. La gestione di Alberto Barbera, da sempre incline a un compromesso “virtuoso” fra esigenze di pubblico e mercato da una parte, e gusto cinephile dall’altra, tocca in questa edizione il suo vertice forse irripetibile. Lo dimostrano i film visti in questi primi giorni: Il primo uomo di Damien Chazelle, ospite ormai abituale della Mostra (proprio qui a Venezia, due anni fa, iniziò l’irresistibile ascesa del suo La La Land), è il biopic con tanto di star (Ryan Gosling) già pronto per l’uscita in sala (in Italia, il 31 ottobre); The Mountain di Rick Alverson è invece il prodotto arthouse in quota indipendente, destinato a compiere l'intero ciclo vitale all’interno del circuito festivaliero. Seguono, ovviamente, gli autori affermati, quelli in grado di metter d’accordo il colto e l’inclita: Yorgos Lanthimos (premiato per la sceneggiatura alla Mostra del 2011) con La Favorita, Alfonso Cuarón con Roma, i fratelli Coen con loro prima miniserie The Ballad of Buster Scruggs, Mike Leigh con Peterloo. Tutti accomunati, sembrerebbe, da un unico tema di fondo: la Storia, riletta in chiave critica, demistificante o semplicemente intimista.

 

 

Prendiamo Lanthimos, ad esempio: la prima cosa che sorprende è il netto cambio di marcia a poco più di un anno dall’ultimo Il sacrificio del cervo sacro (presentato a Cannes nel 2017 e arrivato sugli schermi italiani all’inizio di questa estate). Davanti a La Favorita, si ha l’impressione che il regista abbia voluto compiere lo scatto di reni necessario per uscire dal cul-de-sac in cui gli ultimi film sembravano averlo confinato. Accettando di dirigere una sceneggiatura per una volta scritta da altri (Deborah Davis e Tony McNamara), Lanthimos (ri)trova un vigore inaspettato con una satira feroce e sopra le righe, dal sapore swiftiano – riferimento reso esplicito nel film – ambientata alla corte della malandata regina Anna (interpretata da Olivia Colman, a cavallo fra grottesco e tenerezza). La Favorita del titolo è la duchessa di Marlborough (Rachel Weisz, al suo secondo film con Lanthimos dopo The Lobster), che vede la propria influenza sulla sovrana diminuire poco a poco, a favore della cugina, la baronessa di Marsham (Emma Stone). Sullo sfondo, la Guerra di successione spagnola e gli scontri fra i Tories, rappresentanti dell’aristocrazia fondiaria, e i Whigs, che curano gli interessi della borghesia mercantile. Con il consueto gusto per le geometrie (narrative e non), tra un ralenti e una ripresa grandangolare, Lanthimos mette in scena un secolo dei lumi come raramente si era visto su grande schermo, fra corruttele e ricatti, raffinatezze ostentate e crudeltà inaudite (il tiro al piccione accostato a una festa da ballo), in cui l’unico modo per non lasciarsi manovrare è manovrare qualcun altro, e basta il capriccio momentaneo di un potente per rovinare decenni di rispettabile carriera. In questo, che è il suo film più esplicitamente politico, Lanthimos sembra guardare la nascita dei regimi parlamentari euro-occidentali con l’occhio disincantato e un po’ perfido di chi viene da molto lontano – e non è escluso che, nella sua polemica acuminata, La Favorita non parli piuttosto dell’Europa di oggi.

 

Sempre in Inghilterra, ma stavolta un secolo più tardi, è ambientato Peterloo di Mike Leigh, che affronta con piglio quasi didattico un episodio che è stato definito “uno dei più sanguinosi della Storia inglese”: il massacro di St. Peter’s Field, nei pressi di Manchester, avvenuto il 19 agosto del 1819, quando la cavalleria dell’esercito britannico, nel disperdere una folla che chiedeva – disarmata e pacifica – l’allargamento del suffragio elettorale, uccise una quindicina di persone e ne ferì oltre 700. Una vera e propria Waterloo per il nascente movimento radicale inglese (e Peterloo è appunto il nome con cui venne da subito ribattezzata dalla stampa dell'epoca, facendo il verso all’allora recentissima vittoria su Napoleone), cui il film di Leigh arriva piano piano (il film dura due ore e mezza), delineando con precisione quasi filologica nomi, discorsi pubblici, accenti, servendosi di un cast affollatissimo in cui nessuna faccia è sbagliata (e c’è di che restare stupiti e ammirati, davanti a un complesso di interpreti così di alto livello, dai protagonisti ai personaggi di secondo e terzo piano) e di una fotografia che si rifà ai toni della pittura sociale sette-ottocentesca, da Hogarth a Daumier a Courbet (d’altra parte, Leigh aveva ampiamente dimostrato il proprio gusto pittorico nel precedente Turner, dedicato al maestro inglese). Anche in questo caso, e con tutto che il film sia stato prodotto da Amazon, non c’è bisogno di sottolineare le analogie con l’oggi, dopo lo smantellamento progressivo del Welfare ad opera di tatcheristi e blairisti, e con lo spettro della Brexit a tenere compagnia.

 

Alfonso Cuaron e Yalitza Aparicio sul set di “Roma”.

 

Ugualmente calato nella Storia – gli anni Settanta del XX secolo – è il film di Cuarón, Roma, che arriva a cinque anni di distanza dal bellissimo e virtuosistico Gravity (che ebbe peraltro la sua “prima” proprio qui a Venezia, nel 2013). Narrata dal punto di vista di Cleo (Yalitza Aparicio), cameriera india presso una famiglia della borghesia benestante di Città del Messico, la saga storico-affettiva di Cuarón abbraccia pubblico (la strage di Corpus Christi ad opera del gruppo paramilitare Los Halcones; gli echi dell’Operazione Condor) e privato, rispecchiandoli l’uno nell’altro con un passo ampio e quasi meditativo, che parte da una narrazione quasi rapsodica, a piccoli quadri staccati, per approdare nella seconda parte a un vero e proprio respiro romanzesco, che culmina nei due lunghi piani sequenza del parto di Cleo e del salvataggio dei bambini sulla spiaggia di Vera Cruz. Cuarón sembra guardare al cinema europeo degli anni Sessanta, in particolare al “superspettacolo d’autore” felliniano: e in effetti, a cominciare dal titolo (che peraltro indica un quartiere della capitale messicana), il regista riminese è un po’ l’affettuoso convitato di pietra del film, con citazioni più o meno esplicite da 8 ½ (la scena dell’ingorgo) e La dolce vita (la già citata scena in spiaggia, ma anche la scelta del formato panoramico, da kolossal intimista). Assolutamente personale, invece, è la regia di Cuarón, che fa della panoramica (circolare e semicircolare) il fulcro stilistico del film, dimostrando un controllo nell’uso della macchina da presa che potrebbe avere pochi rivali nel concorso di quest’anno.

 

 

Per continuare sul filo della narrazione storica, anche The Ballad of Buster Scruggs di Joel e Ethan Coen è, a suo modo, un confronto con quello che André Bazin definiva il genere americano per antonomasia – e dunque con la Storia americana tout-court. Da qualche tempo, i Coen si stanno accostando con frequenza sempre maggiore al western (il crepuscolare e pessimista Non è un Paese per vecchi, tratto da Cormac McCarthy, e il più classico – ma non meno crudo – Il Grinta). Più che all’epos fordiano o allo spaghetti-western, i Coen – che, come ricordava un loro grande esegeta, Vincenzo Buccheri, sono due “scrittori in pectore” (e non solo, se qualcuno ricorda i racconti di Ethan Coen pubblicati anche in Italia da Einaudi, col titolo I cancelli dell’Eden) – aggirano il confronto con la tradizione andando direttamente alle radici, letterarie o para-letterarie, del genere. A parte il primo episodio – in cui si riprende, ibridandolo con la tall tale e il cartoon, il filone dei cowboy canterini alla Gene Autry – The Ballad of Buster Scruggs (che, sia detto a scanso di equivoci, è una piacevole vacanza, puro piacere del racconto) è allora una vera e propria suite di short stories nella migliore tradizione statunitense: un piccolo “esamerone” in cui il lettore-spettatore più accorto può agevolmente rintracciare echi da Jack London, Ambrose Bierce, O.Henry. Certo, viene da malignare che, senza il nome dei Coen, le serie tv non sarebbero mai approdate in concorso…

 

 

Gli sguardi sul passato non sono una novità al Lido, sia che si tratti della riproposizione di classici amati dal pubblico (la sezione Venezia Classici, forse quest’anno meno affollata del solito), sia che si tratti, come nella Mostra di due anni fa, di ricalchi fra il cinefilo e il vintage di generi e film del passato. Forse è un riflesso incondizionato di questi tempi, bloccati fra un presente che preoccupa e un futuro che atterrisce. Certo è che in questa 75esima edizione della Mostra veneziana il cortocircuito fra passato e futuro, almeno a livello cinematografico, si è palesato in modo lampante.

Il film di Cuarón e la serie televisiva dei Coen (oltre a Sulla mia pelle, dedicato al delitto Cucchi e presentato nella sezione collaterale “Orizzonti”) sono infatti produzioni Netflix. È nota la polemica che ha opposto, durante le ultime edizioni del festival di Cannes, la piattaforma on demand agli esercenti d’Oltralpe, col risultato che nessun film targato Netflix è stato presentato in concorso sulla Croisette. La Francia chiude, l’Italia apre, avranno pensato in laguna: e la selezione della Mostra di quest’anno ha proprio l’aria di voler essere prima di tutto una risposta di Barbera al suo omologo transalpino Frémaux. Certo, una scelta fatta in nome della revanche nazionale rischia di non tenere conto degli elementi più deboli della filiera cinematografica, per i quali l’invadenza della piattaforma statunitense costituisce, a torto o a ragione, un serio concorrente a livello distributivo; e schermarsi, come ha fatto il direttore artistico della Mostra, dietro un pilatesco “è un problema che riguarda il mercato, la distribuzione e l’esercizio” non sembra il modo migliore per affrontare criticamente la questione.

 

Non va dimenticato, fra l’altro, il vero “colpaccio” messo a segno da Netflix quest’anno, ovvero la ricostruzione e la distribuzione di The Other Side of The Wind di Orson Welles, uno dei “Sacri Graal” della cinefilia degli ultimi quarant’anni. Avremo il tempo di tornarci in seguito, quando il film sarà disponibile su Netflix (è già stata annunciata la data: 2 novembre 2018), ma si potrebbe dire fin d’ora che il film di Welles, giunto con una forza e un’energia espressiva incredibili a dispetto dei quasi cinquant’anni che lo separano da noi, delle inevitabili interpolazioni e della scomparsa di buona parte del cast e della crew (oltre che del regista stesso), sembra proprio il film venuto dal passato per parlarci del presente: una realtà totalmente mediatizzata in cui le immagini non rimandano ad altro che a se stesse e in cui gli individui parlano e agiscono come se fossero costantemente sotto l’occhio vigile di una telecamera – che appartenga a uno smartphone o a una cinepresa a 16mm poco importa, in fondo. “Il cinema è un oggetto morto, come un libro; e, come un libro, è allo stesso tempo sempre vivo”, spiegava Welles a Peter Bogdanovich (che di questo tentativo di ricostruzione di The Other Side è stato il mallevadore): non si può dire che la Storia non gli abbia dato ragione.

 

È ironico (e forse Welles avrebbe apprezzato l’ironia) che il recupero di questo inestimabile reperto del recente passato sia stato reso possibile dall’attore più innovativo dell’attuale panorama mediale. Un’ironia che, se da un lato sembra essere la risposta migliore a qualunque misoneismo, dall’altro spinge a riflettere se questa possibilità di disporre di tutto a un prezzo modico (o addirittura gratuitamente, come regolarmente accade nel web) costituisca davvero un accrescimento del comune patrimonio di conoscenza. Parafrasando uno dei personaggi di Double vies, il non memorabile film di Olivier Assayas appena presentato in concorso: Netflix ha messo a disposizione di ognuno di noi la memoria del cinema, o l’ha soltanto presa in ostaggio? 

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