Un attore, Claudio Morganti / Ritratti
Probabilmente è una questione di respiro. Bisogna avere il fiato lungo per lasciar sedimentare una ricerca, partita ormai trent’anni fa, sapendola tener viva e radicale, compiendo delle scelte controcorrente, soprattutto in questi ultimi anni in cui il mercato ha ammorbidito e omologato i lavori di molti artisti contemporanei. Riuscire ad ascoltare il proprio respiro significa guardare alla figura umana e riflettere sui sentimenti sovrani: la paura, l’amore, l’odio, la gelosia, la follia. Tendere l’orecchio all’umano dovrebbe essere per un attore principio fondativo e prioritario; ma saper far vibrare la corda giusta e far suonare le grandi passioni umane è privilegio di pochi. Morganti è uno di questi.
Dalla tradizione attoriale italiana Morganti eredita naturalmente molte cose. Ma il primo incontro – quasi un’iniziazione – con Carlo Cecchi, gli permette probabilmente di guardare al passato con una lucidità e una ferocia molto rare: il profondo rispetto per le radici corre in parallelo all’ostinata rimessa in discussione delle esperienze precedenti, in un equilibrio che consente di tenere ben saldo il timone nella tempesta di mode passeggere ed effimere. Questo tipo di sguardo gli permette di dar vita, insieme ad Alfonso Santagata, a una delle realtà teatrali più significative e originali degli anni Ottanta. Tra la scena della cosiddetta “postavanguardia” (Falso Movimento, Magazzini Criminali…) e l’allora “terzo teatro”, Santagata e Morganti rappresentano negli anni Ottanta una pista davvero originale e, come spesso accade in questi casi, anche minoritaria.
Debuttano insieme nel 1980 con Katzenmacher, uno spettacolo dal nome fortunato perché, preso in prestito dal film di R. W. Fassbinder, diventerà anche quello della coppia, ed è ancora oggi, dopo che i percorsi dei due artisti si sono separati, il nome della compagnia di Santagata. Da quel primo episodio, guardando alle cronache, ai documenti, alle testimonianze, alle recensioni dell’epoca, emergono molte caratteristiche che contraddistingueranno il futuro dei due artisti. Innanzitutto il riferirsi chiaramente alla “crudeltà” del teatro di Antonin Artaud significa per il duo dar vita a una scena che si confronta con l’idea di marginalità sociale, dove l’elemento del conflitto e il suo radicamento nella concretezza teatrale strutturano la ricerca. È un teatro che guarda alla brutalità del mondo contemporaneo, innescando un “crudo e violento gioco della coppia sulla scena”, come scrivono Donatella Orecchia e Mariapaola Pierini (Claudio Morganti, Editrice Zona, 2004).
Si rifiuta la narrazione e la parola descrittiva, privilegiando certi moduli di ripetizione ossessiva e acuminati frammenti drammaturgici. Il sistema di relazioni si risolve tra i due attori senza una regia esterna: ne discende un effetto claustrofobico ed essenziale. Le atmosfere sono cupe, quasi sempre in penombra, con piccole luci a illuminare uno spazio che ricorda qualche scantinato o luoghi di periferia. C’è molta “carne” in questo teatro, ma sempre osservata sotto la lente di una “crudeltà straniante” che innesca una sorta di “crisi del punto di vista”, vera domanda lanciata al pubblico.
Fino al 1994 i due attori lavorano insieme immergendosi in veri e propri mondi, o personaggi letterari, che resteranno i riferimenti anche degli anni successivi, quando ognuno dei due comincerà un proprio percorso individuale. C’è Pinter, Don Chisciotte, Kaspar Hauser, Beckett, Shakespeare (e soprattutto Riccardo III – ma anche Amleto, Re Lear, La tempesta, Otello, Macbeth – sarà a lungo materia di lavoro per Morganti nel passaggio di secolo) e poi l’amatissimo Georg Büchner. Proprio adesso, dopo più di vent’anni, Morganti sta lavorando nuovamente sul Woyzeck, con un progetto molto articolato che include anche una bellissima lettura: “Diciamo che il dire è sempre un tradimento del pensiero, il quale è già di per sé surrogato dell’illuminazione. E diciamo che non c’è molto da dire: è una lettura. La prima volta che lessi Woyzeck, ormai molti anni fa, fu come uno spaventoso immoto cataclisma”.
È difficile di questi tempi trovare ancora un attore che sappia ripensare i maestri delle avanguardie russe o discuta in profondità di Samuel Beckett o di Harold Pinter o di qualche altro “grande” della modernità teatrale. Morganti lo fa a modo suo, calandosi interamente nella pratica teatrale, senza appiccicarsi addosso teorie, ma lasciando sgorgare dalla scena, con un pudore prezioso e sconcertante, un pensiero sul teatro, che suona oggi sempre più radicale.
In questo senso il “libretto” in corso di stampa e in uscita a luglio, Metodo pratico avanzato Morg’hantieff. Manuale per attori, teatranti, spettatori (Edizioni dell’asino, 2011), rappresenta un’occasione davvero rara per scrutare il suo connubio – divertito, ironico, parodico – tra teoria e pratica. Secondo la miglior tradizione del “manoscritto ritrovato” si elencano qui gli scritti del vecchio maestro Morg’hantieff e del giovane nipote Claudienko. Due punti di vista differenti sul teatro, che alla fine rappresentano la spinta dialettica di un discorso comune, cioè la continua ricerca delle differenze e delle distinzioni tra “teatro” e “spettacolo”.
Certo che voler radicalizzare questa differenza potrebbe anche sembrare una forzatura, ma è proprio oggi nel dilagare della spettacolarizzazione di ogni cosa, che distinguere i due piani ridiventa un’operazione etica necessaria per poter mettere a fuoco le priorità: “Bisognerebbe prima di tutto iniziare ad avere un lessico, a riconoscere il senso delle parole. Non si può più, dopo gli sforzi e le vite dedicate (penso ad esempio a Leo de Berardinis e ad Antonio Neiwiller), confondere il termine ‘spettacolo’ con il termine ‘teatro’. Credo non sia più lecito. Forse fino a una quindicina di anni fa il limite poteva essere più sfumato e ambiguo, adesso non è più consentito” (C. Morganti, Per un teatro clandestino, in “Lo straniero”, aprile 2007, 82).
La stupidità e l’omologazione del sistema teatrale hanno relegato Morganti a una posizione molto periferica, ma da ‘minoritario’ del teatro l’attore ha saputo mantenere alta la sua ricerca, continuando a proporre una riflessione sul teatro e sull’arte della recitazione quasi unica nel panorama italiano. Tenendosi lontano anche dalle strutture finanzianti, Morganti continua in maniera indipendente a martellare su tasti sempre dolenti, ricordandoci cose ‘antiche’, eppure modernissime: la Storia esiste ed è feroce, l’attore è una figura irriducibile e continuamente alla ricerca, l’essere umano, nella sua follia e nella sua miseria, rappresenta ancora un territorio inquieto di scoperte e passioni.
Nel metodo Morg’hantieff emerge tutta la bellezza di questa appassionata ricerca e le distinzioni tra teatro e spettacolo, brillano improvvise, perché nell’apparente assurdità di certe immagini la persuasione, a colpi di grazia, incanta e commuove.
Valga ad esempio l’Esercizio n. 4, Le stelle:
Procuratevi una limpida notte invernale. Guardate le stelle.
Le stelle sono uno spettacolo.
Invece quella terrigna e malcelata sensazione di non saper che cosa farsene è teatro.
Rodolfo Sacchettini
Claudio Morganti. Una piccola bibliografia:
La settima volta di Riccardo Terzo. Incontro con Claudio Morganti, a cura di Piergiorgio Giacchè, in “La porta aperta”, maggio-giugno 2000, 5.
Donatella Orecchia e Mariapaola Pierini, Claudio Morganti, Arezzo, Editrice Zona, 2004.
C. Morganti, Per un teatro clandestino, incontro con R. Sacchettini, in “Lo straniero”, aprile 2007, 82.
C. Morganti, Serissimo metodo Morg’hantieff per attori teatranti e spettatori, Roma, Edizioni dell’asino, 2011.