Immagini che avanzano

16 Ottobre 2015

The Event, il documentario di Sergei Loznitsa recentemente presentato Fuori Concorso alla Mostra del cinema di Venezia – e passato quasi inosservato – è un vero e proprio film sulla storia. Ma non un film storico nel senso comunemente intenso. Non un’opera con la pretesa di raccontare dei fatti e nemmeno qualcosa che voglia illustrare, ricostruire e mettere ordine a degli eventi. Bensì un film che riflette sul concetto stesso di storia e soprattutto su quello di narrazione. Che si pone la possibilità del racconto come un problema, un vero interrogativo ontologico sul quale innestare non solo la propria riflessione ma anche il proprio tentativo, la propria ipotesi, di messa in scena. Per questi motivi, fra gli altri, il film di Loznitsa ne ricorda un altro, del passato recente che, sia per le modalità d’approccio alla storia, sia per il periodo storico preso in considerazione, sia – soprattutto – per il modo di trattare le immagini, sembra costituirne una sorta di modello esemplare. Si tratta di Material del tedesco Thomas Heise presentato nel 2009 al Forum della Berlinale.

 

Material, di Thomas Heise

 

Entrambi i lavori riflettono su due momenti cruciali della storia europea del secondo Novecento. Sugli anni, i mesi, i giorni che hanno cambiato radicalmente la geopolitica mondiale ma che hanno anche prodotto un profondo mutamento della cultura e della società contemporanee e che hanno modificato in maniera sostanziale il nostro modo di approcciarci al presente. Material si concentra sugli ultimi mesi del 1989 in Germania: la caduta del muro, la transizione verso l’unità del paese e le sorti della città di Berlino sono osservate da Est, dalla prospettiva della Repubblica democratica che si stava rapidamente sfaldando. Heise intesse un racconto verticale, non lineare, dove momenti diversi si succedono senza alcun legame l’uno con l’altro. Ci mostra le assemblee cittadine e i dibattiti all’interno del partito comunista, ma anche le interviste ai carcerati, le prove per uno spettacolo teatrale e gli scontri fra la popolazione e la polizia. Mette insieme elementi diversi di un tessuto sociale sballottato dai tumulti del cambiamento ma che tuttavia si rifugia nella normalità dei propri riti, in una quotidianità che viene applicata nei modi e nei sistemi più consueti, che si conoscono. Perché quello che succede è troppo grande da affrontare e troppo difficile da capire.

 

Il film di Loznitsa, invece, riporta alla luce le immagini d’archivio che alcuni operatori girarono per le strade di Leningrado, in Urss, durante i giorni del golpe del 1991. Mentre Michail Gorbačëv era tenuto ostaggio nella dacia presidenziale in Crimea e la gente si riversava nelle piazze di tutta l’Unione Sovietica, i golpisti dell’area conservatrice del Partito comunista, autori del colpo di stato, ordinavano di oscurare le televisioni e – dopo un breve comunicato – di trasmettere per radio, ininterrottamente, Il lago dei cigni di Čajkovskij. The Event si focalizza sui giorni compresi fra il 19 e il 24 agosto. La Russia, che si apprestava a diventare una repubblica e a perdere il controllo sugli altri stati dell’Unione, era una nazione sgomenta dove il popolo – confuso e in parte diviso – reagiva allo stato d’emergenza invadendo le piazze delle grandi città e costruendo barricate, quartiere per quartiere, mentre l’esercito occupava lentamente le strade. Frattanto che i vertici del partito cercavano di ristabilire l’ordine, i cittadini tenevano comizi e tentavano di darsi una spiegazione di quello che stava succedendo. I volti, i gesti e le azioni di tutte queste persone, nel film, sono l’oggetto di ogni inquadratura e raccontano passioni ed emozioni meglio di qualsiasi parola. Tutti e due questi documentari sono costruiti attraverso la tecnica del found footage, ovvero del recupero di materiale video preesistente, girato da altri (per la verità nel film di Heise ci sono alcuni inserti girati dal regista stesso durante gli accadimenti del novembre ’89) e poi montato insieme al fine di ottenere un risultato diverso, nuovo.

 

The Event, di Sergei Loznitsa

 

Materiale, Evento. Sono i titoli dei due film, in primis, a dirci di come la Storia sia un dispositivo le cui possibilità di comprensione sono sempre più legate a una visione del particolare. Entrambe le pellicole non intendono scrivere una storia o cimentarsi in una sua rilettura, ma si concentrano su quello che la storia diventa nelle mani di chi la vive e la consuma. Un momento, un accadimento, un evento, non è la conseguenza di un continuum temporale, l’avvenimento successivo di una narrazione prestabilita. Ma è una materia a sé stante, un costrutto percettivo che va analizzato nella forma di quel materialismo storico che Benjamin poneva in contrasto allo storicismo. Ovvero attraverso lo studio della storia come un vero e proprio oggetto. Un dispositivo cioè, che assume uno statuto materiale, che può essere trattato come un elemento fisico, mobile. E sul quale è possibile innestare ragionamenti illimitati, prendere infinite posizioni e a cui assegnare innumerevoli significati. Sempre Benjamin, a tale proposito, parla di maceria, di frammento, parla di una storia che non si può vedere, non si può comprendere nella sua totalità. Perché non esiste in una forma consequenziale, lineare, temporale e cronologica ma in quella di un vero e proprio cumulo di macerie. Nella celebre metafora dell’Angelus Novus il filosofo tedesco pone le basi per un approccio alla storia che prescinda dall’idea storicista. E che sarebbe a dire, tornando alla questione cinematografica, che rifiuta la possibilità stessa di una narrazione. Atteggiamento riscontrabile anche nei due film oggetto d’analisi.

 

Entrambi i film infatti – sulla stregua dell’esperienza che è per esempio delle Histoire(s) du cinéma godardiane – affrontano il racconto della storia attraverso la sua dissoluzione, per mezzo di una sua considerazione in forma di materia residuale, di pezzi che sono una parte infinitesimale del tutto. La narrazione in questo caso è costituita da quei frammenti che si sono accumulati l’uno sull’altro, è fatta di pezzetti che non combaciano fra loro ma che nonostante tutto raccontano, ognuno di loro, una parte del tutto. Pezzetti, frammenti, macerie che altro non sono quindi, nel nostro caso, che le immagini stesse. La materialità e l’evenienza cui i due film si riferiscono sono attribuibili allo statuto delle immagini. Il compito dell’immagine diventa qui – nel suo porsi come strumento di un racconto che va contro l’ipotesi di una narrazione ma che non rifiuta la comprensibilità – quello di guida e di direttrice per andare dentro, a fondo, agli eventi.

 

Immagini che non sono il prodotto a priori di una mappatura della realtà, ma dell’intenzione e dell’ispirazione di qualcun altro (nel caso di Loznitsa filmmaker, certo, ma anche semplici reporter e operatori) poi affastellate e messe di fianco l’una all’altra attraverso un montaggio che le ha vestite di significati differenti. Immagini, oltretutto, armonizzate dal bianco e nero e sovrastate dalla musica, nel caso di The Event, e mischiate a riprese a colori di alcuni diorami e modelli in scala della città di Berlino Est, in quello di Material. Ma anche immagini che fanno i conti con la memoria di chi, e sono in tanti, quel passato così recente lo ricorda in prima persona. Immagini, quindi, a cui viene chiesto di abdicare, di non cadere nella tentazione di diventare rivelatrici o di farsi strumenti dialettici e invitate invece a essere semplicemente pezzetti di una storia che non è (più) conoscibile, non documentabile. Eppure è proprio questa parzialità che consente loro di essere del tutto autentiche e – proprio perché non possono raccontare nessuna storia – di raccontare tutte le storie possibili. Elemento questo, che Heise ribadisce all’inizio del suo film quando, prima ancora che le immagini invadano lo schermo, piazza una scritta su fondo nero che recita: «C’è sempre qualcosa che avanza. E quello che rimane non basta. Così le immagini restano inerti tutto intorno in attesa di una storia».

 

Material, di Thomas Heise

 

Quello che Material e The Event ci dicono del cinema è come esso sia progressivamente approdato a un ruolo che è oggi quello di un linguaggio non più interessato a porsi come limite fra osservazione e rappresentazione. Ovvero di aver preso consapevolezza che la pretesa o l’intenzione di raccontare il reale, di esserne testimone, anche in forma soggettiva, non ha più alcuna urgenza o importanza. E che qualsiasi rappresentazione della realtà passa per forza attraverso una mediazione. In altri termini, non esistendo più un proprietario dell’immagine che si renda funzionale al racconto (nel caso del found footage il proprietario non è né chi l’immagine la gira, né chi la utilizza, né chi la fruisce, ma il discorso vale allo stesso modo per i film che non sono costruiti con tale tecnica), non esiste più nemmeno il proprietario dello sguardo che osserva.

 

Va da sé che le immagini, in questo senso, diventano elementi senza patria, tracce del reale che esistono ed esisteranno sempre malgrado e indipendentemente da noi. La loro funzione, forse, non è più (solo) quella di mostrare ciò che esiste, ma piuttosto di rendere chi le guarda testimone di una mancanza. Ci fanno meditare su tutto quello che è assente e che non è possibile vedere. La riflessione fondamentale di fronte alla quale film come questi ci spingono ha a che fare con la perdita della chiave di lettura interpretativa. Non esiste alcun apparato ideologico assegnabile alla storia che dipingono, non vi è possibilità di analisi né di revisione. Il cinema si arrende alla propria arbitrarietà pur senza mai rinunciare al suo ruolo di medium. Perché in fondo quello che ci chiede di fare non è capire, ma osservare, provare ad assumere uno sguardo che sia nostro. E allo stesso tempo di accettare tutta la sua sconfinata parzialità.

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