Obliquity. «Quel malessere oscuro del cuore»
Ci dev’essere una latitudine che scorre nelle vene delle narratrici delle aree settentrionali di Europa e America: quelle comunità in qualche modo ibernate nelle loro orgogliose tradizioni, le tante province che pullulano tristemente lontano da Londra o New York, le sere fredde, le notti gelide, gli stivali che scrollano la neve ghiacciata all’ingresso di accoglienti tane domestiche. Come in Fargo, il film dei Coen e la serie tv da loro prodotta. Non sono donne diverse da noi, uomini o adolescenti diversi da noi, ma è come se in quella latitudine non lontana dal freddo polare tutti fossero un po’ più feroci e insieme affettuosi di noi. Se sei solo sei solissimo, se sei triste ti suicidi, se ami tua madre e tua sorella le ami e sei amato tantissimo.
A. L. Kennedy, pseudonimo di Alison Louise Kennedy, è una scrittrice scozzese di cui Federica Aceto ha tradotto per minimum fax Gesti indelebili. Racconti brevi in spietata soggettiva; sguardi abbreviati, personaggi focalizzati in trappole di situazioni. Kennedy è crudele e androgina: che racconti un uomo o una donna, ci sono sempre solitudine, e voracità sessuale, e ossessione di gesti e obiettivi: torture coniugali dopo la fine di ogni tenerezza, lo sfigato che attacca bottone a una tipa in una coda al negozio di formaggi, il bidello-custode che vivacchia con qualche giochetto di prestidigitazione che ne fa un personaggetto tra gli studenti che improvvisamente si accende per un adulterio sessuale con la effimera supplente, lui e lei ancora adulteri in un focoso week-end di sesso con stanchi repertori stravaganti e la scena più bella del libro: «Mi tolsi l’impermeabile ma tenni le scarpe. Tacchi alti. E siccome volevo farlo, siccome è una scelta che posso fare, scesi e mi incamminai nel campo di spighe tagliate e gli mostrai il mio corpo nudo. Il fuoco intenso che emanavo brillò alla luce dei fari, luccicando nella pioggia, e poi si andò a spegnere sotto di lui».
Alison Louise Kennedy
Di quei territori, di quei paesaggi, di quelle persone che vivono nel nord atlantico degli Stati Uniti verso il Canada, ha raccontato così magistralmente Elizabeth Stout: Olive Kitteridge (torniamo a girare intorno a Fargo, se a interpretarla nella miniserie tv è stata Frances McDormand…) in quel romanzo circolare nel tempo e corale nelle carrellate di comprimari è una donna burbera e tenace, che ostinatamente, antipaticamente va avanti nella sua missione famigliare amando e maltrattando marito e figlio, certamente depressa, solitaria, temutissima insegnante di Matematica nella scuola pubblica, figura epica nella piccola comunità appesa alle scogliere: suicidi, voglie di suicidarsi, esili e ritorni, generazioni che si alternano, culti protestanti la domenica mattina. Olive avrebbe potuto passare in tanti capitoli del romanzo della canadese Miriam Toews (tradotto da Maurizia Balmelli), che ha già scritto libri molto pervasi della comunità protestante mennonita, originaria del Friesland olandese, poi migrata di persecuzione in persecuzione in Russia, e infine in Canada a fine Ottocento. Poco meno radicali dei simili Amish, i Mennoniti hanno rigido credo sociale fondato sulla Bibbia; anche in I miei piccoli dispiaceri la donna che narra è cresciuta come bestia nera insofferente a quella trappola di comunità: suo padre era osservante ma eccentrico, e si buttò un giorno sotto un treno, la madre, piccola e tenace come una contadina, ha sempre protetto la narratrice Yoli e la geniale sorella maggiore Elf, la bellissima, la grandissima pianista consumata dalla depressione e dalla voglia di togliersi la vita. Yoli è la sfigata, la casinara, la scrittrice forse dilettante (o forse no, se questo è il “suo” raccontarci i suoi dolori, le sue risate e le sue scopate sgangherate); è ispida come Olive, ma più combattiva, e niente affatto rassegnata. Il romanzo è la lunga battaglia di una sorella per salvare alla vita una sorella, e la lunga battaglia di una sorella per farsi accompagnare alla morte da una sorella. Con adolescenti buffi come i nostri. E ex coniugi che si separano in modo un po’ meno stronzo dei nostri. E vecchi che cadono a pezzi e vanno in manutenzione su e giù dagli ospedali come i nostri, ma con una grandezza d’animo che forse solo quelle latitudini e l’oceano possono regalare. Gente che sogna ancora vite migliori e sa consolare un affetto, come rimpiangeva Coleridge nella poesia che intitola il libro:
strisci con passo felpato attorno al letto
della tua cara sorella dall’aria smorta,
alleviando gli spasimi con dolci premure
e teneri accenti curativi d’amore.
Avevo anch’io una sorella, una sola,
era pazza di me, come io di lei.
Le confidavo i miei piccoli dispiaceri
e quel malessere oscuro del cuore
che si vergogna anche di un occhio amico.
Miriam Towes
#HiddenPrologues - Sam Leith interviews author, A.L.Kennedy
Miriam Toews on All My Puny Sorrows
I libri:
A. L. Kennedy, Gesti indelebili, minimum fax, nuova edizione, Roma 2015, 206 pp., € 9,00
Miriam Toews, I miei piccoli dispiaceri, Milano, Marcos y Marcos 2015, 364 pp., € 18,00