Un successo non privo di dispiaceri / Il premio Goncourt a Marcel Proust

30 Giugno 2019

I biografi di Proust – penso in particolare a George Painter e a Jean-Yves Tadié, presenti in traduzione anche nelle nostre librerie – non hanno mai avuto dubbi: con il conferimento del premio Goncourt a All’ombra delle fanciulle in fiore, il 10 dicembre del 1919, l’autore della Ricerca passa dalla condizione di letterato apprezzato da una ristretta élite a quella di romanziere illustre di cui nessun francese colto può permettersi di ignorare il nome. «Il Premio portò di colpo a Proust quella fama che non aveva guadagnato in trent’anni», scrive Painter. Più cauto, Tadié parla di “un successo non privo di dispiaceri”; entrambi ricordano come, nel clima ancora fervido di commozione per il sacrificio di tanti giovani soldati, gran parte della stampa avesse sperato di veder premiato un romanzo di guerra che celebrasse il mito dei poilus e consegnasse alle generazioni future il ricordo della vita in trincea. Roland Dorgelès, ex-combattente pluridecorato, con il suo libro di memorie Les Croix de bois costituiva agli occhi dell’opinione pubblica il candidato ideale; preferendo alle sue pagine un romanzo ora introspettivo, ora mondano, come quello di Proust, la giuria del Goncourt scatenò una vera e propria “sommossa letteraria”. Questa sommossa per Painter e per Tadié resta sullo sfondo, come percepita in lontananza dalla camera in cui un emozionato Marcel accumula accanto al letto ottocento lettere di congratulazioni, e un numero ancora maggiore di articoli ostili e trafiletti calunniosi. Ma occupa invece il centro della documentata ricostruzione di Thierry Laget uscita di recente: Proust, prix Goncourt. Une émeute littéraire, Gallimard, Paris 2019. Lasciandosi alle spalle la camera invasa dal fumo delle polveri antiasmatiche, dove tra una tazza di latte e un gilé spuntano pagine manoscritte fitte di correzioni, Thierry Laget ci porta nel lussuoso ristorante del quartiere dell’Opéra (il Drouant, che esiste tuttora) dove il jury è chiamato a prendere la sua difficile decisione, nelle redazioni e nei caffè dove ribolle il malcontento degli amici di Dorgelès, nei cabaret dove si cantano strofette irriverenti, che situano il romanziere premiato più “alla luce dei giovanotti in boccio” che “all’ombra delle fanciulle in fiore”.

 

Intorno all’icona proustiana che già conoscevamo, e che emerge ricca di dettagli dalla Corrispondenza dello scrittore, Laget resuscita un’intera società letteraria; in questo contesto più ampio, la biografia cara a quelli che Roland Barthes chiamava i marcellisti perde il suo carattere aneddotico per trovar posto sulla scena della Storia. 

 

L’Accademia Goncourt, i cui dieci membri conferiscono il premio, è stata fondata da Edmond de Goncourt, ci ricorda Laget, con un’intenzione esplicita: quella di valorizzare il genere moderno per eccellenza, il romanzo. L’Académie française, dopo aver ignorato Balzac e Flaubert, aveva respinto per venticinque volte la candidatura di Émile Zola; evidentemente i suoi criteri non erano al passo con l’evoluzione recente della letteratura. Destinando all’istituzione del premio gli introiti risultanti dalla vendita post mortem delle sue collezioni d’arte, Edmond de Goncourt suggeriva ai futuri accademici una linea ben precisa: « Il premio sarà dato al miglior romanzo, alla miglior raccolta di novelle, al miglior volume di impressioni, al miglior volume d’immaginazione in prosa, ed esclusivamente in prosa, pubblicato nell’anno. (…) Il mio voto supremo, voto che prego i giovani accademici futuri d’aver ben presente nella memoria, è che questo premio sia dato alla giovinezza, all’originalità del talento, ai tentativi nuovi e arditi del pensiero e della forma. Il romanzo, in caso di parità, avrà sempre la preferenza. »

Quando i dieci si riuniscono, il 10 dicembre del 1919, tre di loro hanno ben chiaro che nessuna opera recente realizza gli auspici di Edmond de Goncourt più del secondo volume della Ricerca, All’ombra delle fanciulle in fiore, arrivato in libreria nel mese di giugno: il maggiore dei due fratelli Rosny, autore della Guerra del fuoco e di molti altri best-seller d’ispirazione scientifica e fantastica; Élémir Bourges, simbolista raffinato e conservatore; il vulcanico e ultra-reazionario Léon Daudet, figlio maggiore di Alphonse, divenuto dopo una giovinezza radicaleggiante una figura di spicco dell’Action française.

Sanguigno e polemico, autore di romanzi a tesi che spesso fanno scandalo – come Les morticoles, contro l’entourage di Charcot e lo strapotere dei baroni della medicina –, Léon Daudet non parrebbe aver molto in comune con Proust. Ma suo fratello Lucien, pittore e scrittore dal talento appartato e delicatissimo, è stato per una breve stagione legato sentimentalmente a Marcel e ne è rimasto uno degli amici più cari. Lucien, che ha salutato tra i primi nel 1913 con un articolo importante l’originalità di Du côté de chez Swann, attira verosimilmente l’attenzione del fratello su All’ombra delle fanciulle in fiore; Léon è folgorato e sedotto per sempre dal Proust psicologo che definirà “maestro dell’introspezione, istologo della vita interiore”. Di Léon Daudet ha scritto Walter Benjamin nel 1929: «La sua follia politica è troppo goffa e limitata per poter nuocere molto al suo mirabile talento». E in effetti, non come romanziere, ma come critico, e soprattutto come straordinario memorialista, Léon Daudet è una figura insostituibile per comprendere il mondo intellettuale parigino tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e gli anni Venti; il lettore italiano può rendersene conto consultando la scelta dei suoi Ricordi letterari che Mario Andrea Rigoni ha avuto l’eccellente idea di curare nel 2017 per l’editore napoletano La Scuola di Pitagora. È lui, nella riunione del 10 dicembre, ad orientare gli indecisi della giuria verso il romanzo di Proust.

 

 

A quanti esitano, ricordando che Edmond de Goncourt aveva affermato esplicitamente che il premio doveva incoraggiare un autore giovane, fa notare che il fondatore aveva parlato di jeunesse du talent. E quale scrittore, nota Léon Daudet, possiede più del quarantottenne Proust la jeunesse du talent, un talento innovativo, originalissimo e orientato verso il futuro? Le argomentazioni di Daudet fanno presa sulla giuria: il suo candidato ottiene il premio con una maggioranza di sei voti. Ma l’opinione della minoranza, che ha votato compatta per Dorgelès, troverà una tale cassa di risonanza nei giornali da trasformare il trionfo di Proust in una sorta di linciaggio morale: la portata e le singolari caratteristiche di questo episodio non erano mai state, prima del libro di Thierry Laget, messe adeguatamente in luce.

Gli attacchi della stampa – fomentati dagli amici di Dorgelès, che in quanto giornalista di professione può contare sulla solidarietà di un’intera categoria – investono ora l’opera, ora la persona di Proust. Del suo romanzo vengono condannate l’eccessiva lunghezza, l’assenza di azione, la sottigliezza analitica, l’attenzione morbosa concentrata sui dettagli, le frasi troppo lunghe “maldestre come le mani protese di un cieco”; dell’autore si sottolinea l’appartenenza all’universo dei mondani e dei privilegiati, insinuando che abbia conquistato la benevolenza dei giurati invitandoli a sontuosi banchetti. Nemmeno quando Dorgelès ottiene, pochi giorni dopo, da una giuria tutta femminile, il Prix de la Vie Heureuse (il futuro prix Fémina) le polemiche si placano: nella stampa di sinistra, come in quella di destra, si continua a contrapporre l’opera “veramente francese” del valoroso ex-combattente ai radotages, cioè ai vaneggiamenti, di Proust, “l’uomo al quale non è mai successo nulla”, e che su quel nulla, con l’ostinazione patologica del grafomane, ha costruito un’opera sterminata.

 

È forse l’aspetto storicamente più interessante della vicenda ricostruita da Thierry Laget l’impressionante simmetria delle accuse rivolte a Proust da sinistra e da destra. Per i giornali socialisti e radicali, l’autore delle Jeunes filles è “reazionario” e “salottiero”; Georges de La Fouchardière, aderente al gruppo pacifista e internazionalista Clarté, vede in lui il prototipo dell’uomo di lettere “affamato di gloria e di denaro” che intinge alternamente la penna “nel tè delle cinque e nell’acqua santa”. Ma gli ultra-nazionalisti Binet-Valmer e Jean de Pierrefeu, e il poeta Joachim Gasquet, amico di Maurras, non sono meno severi. «No, scrive Gasquet a proposito di All’ombra delle fanciulle in fiore, non è così che pensavano, che sognavano, che sentivano, che vivevano gli uomini che hanno fatto la grande guerra. La nostra generazione non si riconosce in questo pretenzioso bambineggiare. Non è dalla parte di Swan (sic) che andavano, che vanno coloro che amiamo, coloro che ci rappresentano nella loro arte e nel loro pensiero. Non è quella la nostra vita». Quale che sia il giudizio sulle cause e l’inevitabilità della guerra, critici di sinistra e critici di destra nel 1919 giudicano negativamente il mondo delle Fanciulle in fiore, che sembra rimandare a una belle époque estranea ad ogni eco della recente tragedia. Accomunate da quello che, per la coeva realtà italiana, Marco Bresciani ha definito combattentismo, destra e sinistra sono concordi nel condannare l’arte individualista e “morbosa” di Proust, nel misconoscerne la modernità cui saranno sensibili invece lettori congeniali come Rilke, Beckett, Virginia Woolf.

Sotto il diluvio delle critiche, delle accuse, delle insinuazioni Proust non perde il suo senso dell’umorismo. Quando, nel dicembre del 1920, si attende la proclamazione del nuovo vincitore, scrive per l’amico Jacques Boulenger il pastiche di un articolo che non si stupirebbe di veder pubblicato:

«Questo verdetto rappresenta un bel cambiamento rispetto a quello dell’anno scorso, quando quel porco immondo di Proust, d’altronde quasi centenario, prevalse con i suoi intrighi (…) sulla sana e geniale gioventù della guerra, tra cui si sarebbe facilmente potuto scegliere un capolavoro al posto di quel sonnifero… »

 

Una decina d’anni prima, nel suo saggio Contro Sainte-Beuve, destinato ad esser pubblicato soltanto dopo la sua morte, Proust aveva riflettuto sulla critica biografica, che applicando il detto “Tale l’albero, tale il frutto” dava ampio spazio, nel giudizio sulle opere, alla personalità e alle vicende dell’autore. Gli era parso che quella critica misconoscesse una verità importante: l’autonomia dell’opera, il suo diritto ad esser giudicata iuxta propria principia. All’indomani del premio Goncourt, un’ondata di critiche che intrecciavano dati biografici e notazioni sul suo romanzo lo investiva con inaudita violenza. Senza smentire tutte le assurdità diffuse dalla stampa, di una Proust si indignò profondamente: del completo oblio della sua militanza a favore di Dreyfus. Il solo impegno politico della sua vita lo aveva visto dal lato opposto della barricata rispetto a clericali e reazionari, e anche rispetto al suo sostenitore Léon Daudet; eppure nessun giornale serbava di questo il benché minimo ricordo. Proust rivendicò orgogliosamente, nelle lettere agli amici, d’esser stato “il primo dreyfusardo”, quello che era andato a chiedere l’adesione alla causa ad Anatole France: una reazione ben comprensibile. Al tempo stesso, però, nel segreto della scrittura, da quel che gli stava accadendo trasse una lezione ben più istruttiva: col trascorrere degli anni, la nostra personalità sociale viene costantemente cancellata e ridisegnata, e agli occhi del mondo diventiamo altri da quel che siamo realmente stati. È su questa lezione, quale compare in una variante non ripresa nel testo definitivo della Ricerca del tempo perduto, che giustamente Thierry Laget chiude la sua ricostruzione: 

«Ad ogni epoca della vita, l’oblio di quello che siamo stati è così profondo presso i nostri contemporanei – che si compongono, è vero, di giovani che ancora non sanno e di vecchi che hanno dimenticato – che siamo costretti (come me al premio Goncourt) ad affrontare, per quanto siamo stati noti, l’ignoranza dell’ambiente circostante. (…) E se tenessimo in questi casi a che non si dicano su di noi le cose pazze generate dal bisogno di parlare non guidato dalle necessarie informazioni, saremmo costretti a declinare i nostri titoli e le nostre qualità, a dire chi eravamo dall’altra parte del Tempo, giacché i nostri ultimi anni sono come un paese ignoto nel quale sbarchiamo e i cui abitanti non hanno mai udito pronunciare il nostro nome».

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