Intervista con Gian Antonio Gilli / La rivolta del piede sul corpo

3 Maggio 2022

Gian Antonio Gilli, professore ordinario di sociologia, ha lavorato per oltre vent’anni nel Centro ricerche sociologiche della Società Olivetti, dagli anni del taylorismo trionfante a quelli della ‘ricomposizione delle mansioni’, – gli anni in cui le aziende manifatturiere, costrette dall’evoluzione tecnologica e merceologica, si sforzavano (e l’Olivetti era all’avanguardia) di riscrivere la divisione del lavoro di fabbrica. Contemporaneamente, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, Gilli ha collaborato alla prima esperienza di Gorizia, condotta da Franco Basaglia per il superamento dell’ospedale psichiatrico. 

 

Negli anni successivi la ricerca di Gilli si è sviluppata sul tema delle origini. Partendo da conflitto fra technai e società nell’esperienza greca, si è poi articolata in due direzioni. La prima riguarda l’esperienza religiosa nelle sue manifestazioni più fisiche e materiali, ampliando ‘religioso’ a qualunque attività iso-rituale da cui un soggetto ricava gratificazione e ispirazione. È questa la prospettiva del suo ultimo saggio, Locus sui-Religioni di luogo (Mimesis 2021), di cui qui principalmente ci occupiamo. La seconda direzione di ricerca, non così distante dalla precedente, riguarda lo schema corporeo, le sue patologie, e la ricostruzione delle sue origini. Comuni sono anche le fonti di base: da un lato le vitae di innumerevoli asceti corporei, dall’altro le esperienze di osservazione in asili e in istituzioni ospitanti soggetti portatori di handicap grave, alla luce anche delle recenti acquisizioni di fisiologia e neurologia.

 

 

Mi ha incuriosito quello che mi hai raccontato a proposito del sistema nervoso centrale (SNC), che acquisirebbe il controllo del corpo gradualmente, organizzando le membra a sistema, e del piede che, grazie alla sua collocazione distale, rappresenta l’ultima resistenza a questa ‘colonizzazione’. E proprio il piede è protagonista di una serie di comportamenti culturalmente inusuali, come l’immobilità in postura eretta. In Locus sui scrivi che essa “sembra avere per l’asceta un significato più grande della stessa preghiera”. Dici anche che questa pratica posturale costituisce un tentativo di ‘fare del sacro’ al di fuori del sistema istituzionale. Ebbene, esiste qualche associazione tra il grande ruolo che il piede gioca in queste pratiche poco ortodosse, e la sua condizione di ultima ‘resistenza’ al sistema nervoso centrale?

 

Già, stavamo appunto parlando, a proposito di L’Età delle membra, del controllo che il SNC esercita sul corpo, impegnando tutte le membra, fin dalla nascita, a ‘lavorare’ a favore dell’intero organismo. E il piede viene per ultimo. In effetti, per il grande stilita Simeone, campione della postura eretta immobile, il piede rappresentava una sorta di ‘compagno segreto’, un vero e proprio attaccamento affettivo durato tutta la sua vita. Vi è una bellissima omelia di un poeta siriano del VI secolo in cui Simeone si congeda (un congedo che dura più pagine!) dal proprio piede, che va amputato perché in stato di cancrena. La letteratura (a partire da quella antica) conosce ‘dialoghi’ del soggetto con una parte del proprio corpo (per lo più il cuore), ma nessuno, a mia conoscenza, così intenso, così alla pari, e così diffuso, come il dialogo di Simeone (che è per molti aspetti un soggetto ‘ribelle’) con il proprio piede , che resterà indietro, ma soltanto, Simeone lo rassicura, fino al momento della Resurrezione.

Vorrei ancora aggiungere che la postura eretta immobile è appunto una delle religioni-di-luogo di cui parla il libro, accanto ad altre pratiche per lo più non istituzionalizzate, come lo ‘stare appesi’, o magari di competenza psichiatrica, come quelle riconducibili a sindromi catatoniche, ossessivo-compulsive, e così via.

 

Da un lato il tuo libro propone una ricostruzione del luogo come entità metafisica; dall’altro considera questa entità come fulcro per esperienze religiose, in contrapposizione a quelle che definisci religioni-dello-spazio monoteistiche. Potresti spiegare in che modo l’assoluta “spazialità” di Dio (ubiquo e infinito), ostacola l’esperienza di un divino “locale”? 

 

Vorrei dividere la risposta in due parti, e la prima riguarda uno degli obiettivi maggiori di Locus sui, vale a dire, la costruzione del luogo come entità metafisica. Una costruzione siffatta è stata avviata da Platone, che assegna al luogo un posto fondamentale nel paesaggio delle Origini, – lo vede come terzo convitato a un banchetto in cui gli altri due convitati sono nientemeno che Essere e Divenire, i due protagonisti della metafisica di sempre. Ebbene, nel Timeo Platone dipinge le origini come un passaggio di materia dal mondo del Disordine a quello dell’Ordine, ed è appunto attraverso il Luogo, ossia, la disponibilità di luoghi, che questo passaggio si rende concretamente possibile. Ma la materia è disordine, ed è proprio attraverso il Luogo, che pure è finalizzato a realizzare l’Ordine, che il Disordine entra nel mondo. Di qui la sostanziale ambiguità del Luogo che ho cercato di mostrare, la sua liminarità fra due regni contrapposti. Inutile dire che la nozione di luogo che emerge da questa costruzione è ben diversa da quella circolante nella letteratura delle scienze umane e umanistiche, che evoca, a proposito del Luogo, famigliarità e buoni sentimenti.

 

Nel mio lavoro ho cercato di sviluppare alcuni aspetti della costruzione platonica, sia seguendone l’evoluzione nei millenni successivi, sia provandomi a mostrare il carattere ‘arcaico’, primitivo del Luogo, le resistenze che esso oppone al trionfo dell’Ordine (che è un trionfo ‘spaziale’), e a segnalare, ovviamente, le reazioni ostili che il Luogo ha suscitato. 

Tra di esse, un posto di primo piano (e qui passo al secondo punto) spetta alla vera e propria persecuzione-del-luogo avviata dal monoteismo Cristiano. Il paganesimo era soprattutto una religione-di-luogo, abitata da un numero infinito di entità soprannaturali, dalle divinità maggiori (ciascuna delle quali contava per molte, visto che ogni città, ogni villaggio aveva la sua Afrodite, il suo Dioniso, ecc.) fino alla miriade davvero incalcolabile di genii loci. Ne risultava ogni volta, in ogni luogo, una gerarchia del soprannaturale diversa, valida solo localmente. Il Monoteismo ha spazzato via tutto questo, e con esso la capacità quasi ‘costitutiva’ del Luogo, affermando invece l’ubique di Dio, il suo essere dovunque (lo recitano ancora i bambini che fanno catechismo, rispondendo alla domanda <Dove è Dio?>.).

 

E per secoli sono stati perseguitati non solo i culti pagani ‘ufficiali’, che facevano perno su templi e festività pubbliche, ma anche gli innumerevoli ‘piccoli culti’ personali disseminati nelle campagne, intorno a certi massi, certi alberi, certe polle. Solo quando ha definitivamente vinto, il Cristianesimo ha cambiato atteggiamento, e il luogo – debitamente sottoposto a controllo – ha cominciato a essere usato anche per drenare risorse (“turismo religioso”). E allora avanti con santuari, tombe sacre, pellegrinaggi, Sacri monti, apparizioni e così via. Ma il Cristianesimo continua a essere una religione-di-spazio, e dietro lo sfruttamento l’ostilità verso il luogo permane. Un’ostilità anzitutto teologica: lo spazio infinito, colmo di luce infinita, omogeneamente distribuita, è sinonimo del Divino, – non può scendere al di sotto del Divino. Una religione-di-luogo invece no, il suo riferimento è al Sacro – ‘si accontenta’ del Sacro – e il Sacro può fare benissimo a meno del Divino. In Locus sui insisto a lungo su questa assoluta sostenibilità che caratterizza le religioni di luogo, e del Sacro cui esse guardano, che è spesso un Sacro fai-da-te. E per questo Sacro la luce infinita che si addice al Divino ‘spaziale’ è un’incongruenza, persino uno spreco: gli basta una piccola luce, circondata da una complice oscurità.

 

L’idea che hai appena richiamato da Locus sui, del luogo come entità originaria, e dello spazio come entità sopraggiunta, mostra una certa simmetria con il modello precedentemente esposto in Origini dell'eguaglianza (Einaudi, Torino 1988), dove rilevi come le technai, ossia le specializzazioni naturali originarie, siano state costrette a fare i conti con un’entità sopraggiunta, la società, subendo interventi radicali in funzione dei bisogni sociali. Lo stesso modello sembra poi ripetersi in L’Età delle membra, dove le membra, entità originarie, sono chiamate a implementare una funzione svolta per il corpo. Mi pare insomma che dai tuoi studi emerga l’interesse per ogni progetto “anti-sistemico” che si ponga come obiettivo la liberazione delle parti: delle membra rispetto al corpo, delle technai rispetto alla società, delle religioni-di-luogo rispetto alla religione-di-spazio. L’immobilità dello stilita sulla colonna, come l’azione del portatore di techne impegnato nell’esercitarla per se stesso, sono atti di resistenza al dominio del tutto sulle parti? 

 

In effetti, il tema della liberazione-delle-parti ha grande importanza nel mio lavoro, – ha un sapore quasi ‘politico’, se posso dire così. È una liberazione che comincia, io credo, col mostrare che le parti non sono sempre state tali, – che erano invece entità inizialmente indipendenti, e solo successivamente sono state incorporate in un tutto: sono state dichiarate parti, e a ciascuna è stata assegnata una funzione a favore del sistema. Vale a dire, le parti sono entità originarie, – è il tutto, il sistema, che è sopraggiunto. (Non sto parlando, ovviamente, di parti di un motore, ma di oggetti attinenti alle Origini). In L’Età delle Membra mi sono anche posto la domanda <Cosa facevano le parti prima della loro in-corporazione?>, e ho cercato di elaborare –– a monte della funzione, che è lavoro svolto per il sistema – la nozione di lavoro svolto per se stessi. Per fare un esempio (e siamo di nuovo al piede...), pensiamo al test di Babinski (forse il più noto in medicina). Esso mira ad accertare (diciamolo alla buona), attraverso la reazione del piede a un determinato sfregamento della pianta, la presenza di lesioni al tratto cortico-spinale.

 

Se la pianta si contrae (come è desiderabile), l’afferentazione è integra, il piede è sempre sotto il controllo del SNC. La cosa interessante è che, quando la lesione ha compromesso tale controllo, il piede non resta però inerte: si produce infatti un riflesso, esattamente contrario, di estensione delle dita, principalmente l’alluce (è il famigerato signe de l’eventail). Esso testimonia, evidentemente, la presenza di un lavoro di livello ‘locale’, che non ha certamente le stesse finalità dell’altro, e che non viene consentito dal SNC in condizioni di afferentazione. È come se in quel momento (ovviamente negativo per il soggetto) il piede fosse ‘libero’. Ed è questa la risposta standard dei neonati, nei quali il controllo da parte del SNC è ancora in fieri. 

 

Vorrei ancora aggiungere che tutte queste riflessioni su parti, liberazione delle parti, lavoro fatto per se stessi, poggiano su di una concezione affatto particolare di ‘origine’. Origine, nelle discipline storiche, significa semplicemente ‘inizio’, – qualcosa di ‘neutrale’, dunque, caratterizzato da semplicità, e destinato a diventare vieppiù complesso attraverso un processo graduale. Nei modelli con cui lavoro, invece, le origini sono violente: colgono un cozzo tra due ordini, uno precedente (che ha già una sua complessità), l’altro sopraggiunto. Così l’ordine delle technai è stato soppiantato dall’ordine Societario, quello delle Membra da quello del Corpo, quello del locus (che include organicamente anche il locatum) da quello dello Spazio (cui la presenza di un locatum è indifferente). Corollario importante di questi modelli è che la vittoria dell’Ordine sopraggiunto non è definitiva, – si verificano riemergenze (e in ciascuno dei miei lavori ho cercato di segnalare le più importanti), attraverso le quali l’evento originario appare con evidenza.

 

Per concludere su questo punto: anche se il grosso del mio lavoro si svolge su fonti antiche, non è affatto un lavoro storico. A me non interessa l’Antico, il come eravamo, i cui rapporti col presente mi sembrano vaghi; mi interessa l’Arcaico, e qui i rapporti col presente mi paiono assai vivi. Naturalmente, non si tratta certo di ‘tornare indietro’, ma di tenere conto, in ogni tipo di ‘diagnosi’, di questo conflitto originario, e del suo ripresentarsi. 

 

La rivalsa del piede sul corpo (della parte sul tutto) ha interessato molto l’arte performativa. Hai anche organizzato dei seminari a cui hanno partecipato diversi artisti. Come si sono rapportati con il concetto di Luogo?

 

In effetti, il tema del luogo è stato centrale negli ultimi seminari – diretti ad artisti – che ho avuto occasione di fare. Comincio, come mi sembra necessario, a richiamare brevemente la forza del luogo, la potenza di cui esso investe il suo occupante, il locatum, – la capacità (per servirci di parole di 1500 anni fa, ma ripetute più volte nei secoli) di custodire, nutrire, sorreggere il proprio locatum, rialzandolo dopo ogni caduta. Ma anche (e qui il discorso diventa per loro più interessante), la capacità di essergli complice in pratiche assolutamente fuori norma. Questa complicità da parte del luogo è un aspetto importante di quella che ho chiamato ‘primitività’ del luogo, – primitività che discende dal fatto che ‘in principio era il luogo’, che il luogo reca a bordo elementi del Disordine originario, in presa diretta con elementi egualmente originari, pre-socializzazione, interni al soggetto. 

 

Si apre qui la parte che mi sembra di maggior interesse per gli artisti, – il tema dei ‘comportamenti-di-luogo’ praticati nei millenni da inumerevoli soggetti, religiosi o laici poco importa. Sono pratiche ripetute, la cui creatività poggia sulla loro estraneità ad ogni liturgia, sia essa quella religiosa, o la liturgia della normalità. Molti di questi comportamenti si configurano come vere e proprie religioni-di-luogo, ‘religioni’ del tutto laiche, si intende, nelle quali il soggetto sperimenta la propria partecipazione a livelli ulteriori dell’esperienza, – e anche qui il luogo è costitutivo. È al versante privato dell’esperienza, dunque – il versante privilegiato dall’artista – che il luogo principalmente appartiene, un versante leggibile in termini diversi, di resistenza, opposizione, e così via, ma anche, se si vuole, di mera ‘regressione’.

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