150 anni / Maria Montessori: ribellione e amore

31 Agosto 2020

“Dicono i religiosi che Dio segna nell’eternità tutte le colpe grandi e piccole che noi dovremo pagare, e segna pure tutte le grandi e piccole virtù delle quali saremo compensati. Ebbene, eccola la vita eterna, il libro grande dove sono segnate tutte le opere nostre: la nostra posterità”. 

Il senso e il contesto di questa frase, pronunciata da Maria Montessori al Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane, a Roma nella primavera del 1908, nel quadro di un confronto su più sezioni (educazione ed istruzione, assistenza e previdenza, condizione morale e giuridica della donna, letteratura e arte, igiene) indirizzato a “Studiare e discutere un problema complesso e grave: la questione femminile”, dicono molto non solo di un pensiero caratterizzato da un’intima vocazione al radicalismo e da una maniera affatto personale di manifestarlo e farne intendere la natura, ma anche del lascito che esso si propone di riservare a chi ne vorrà essere interprete o seguace.

Questo il senso, dunque. Ma vediamo il contesto. 

All’interno del riassetto urbanistico e di riqualificazione architettonica, igienica e sociale del quartiere romano di San Lorenzo era stata affidata proprio a lei, un anno prima, la direzione del primo asilo di caseggiato dove far riparare i bambini più piccoli mentre i genitori e i fratelli maggiori erano fuori al lavoro e a scuola. 

 

Si trattava di un incarico di natura fortemente politica e sociale, rispondente all’esigenza di fornire una soluzione concreta al problema di socializzare funzioni di accudimento tradizionalmente affidate in tutto e per tutto alle madri, in una fase iniziale di emancipazione in cui la donna era chiamata a svolgere attività fuori del recinto domestico, ma che la dottoressa Montessori, tra le prime a laurearsi in medicina, e fino ad allora impegnata sul duplice fronte laico della formazione magistrale nell’ambito dell’educazione speciale e dell’insegnamento accademico di Antropologia pedagogica, aveva interpretato come una sorta di chiamata religiosa, una missione per il futuro. Ce n’è traccia nel brano che ho richiamato.

Che legame è allora possibile stabilire tra i tre momenti così diversi che ugualmente appartengono al primo tratto del suo impegno pubblico (recuperare i reietti in una chiave medico-psichiatrica; elaborare un’idea di educazione che manifesti coerenza con una visione calorosa ed espansiva dell’individuo sociale; accogliere ed educare i più piccoli in una prospettiva di maternità condivisa) e cosa fa sì che essi vengano intesi e vissuti all’interno di una personalissima prospettiva vocazionale? 

 

Da una parte, a rendere naturali e fluidi i passaggi tra psichiatria, sociologia e pedagogia, in un quadro di scienze dell’uomo che non aveva ancora maturato le specificità disciplinari destinate a caratterizzarne lo sviluppo lungo il Novecento più maturo, e che quindi tendeva a far prevalere, su tutti, un punto di vista filosofico (o antropologico, in senso lato), c’era il richiamo alla priorità metodologica e concettuale rappresentata dall’impegno a osservare direttamente, senza pregiudizi, le condotte degli individui, anche e soprattutto dei più difficili e negletti, come i piccoli reclusi o abbandonati. Politica e scienza facevano un tutt’uno, lì, mescolandosi e rinforzandosi a vicenda. 

 

Ma da un altro lato, a scongiurare il pericolo che un simile approccio positivo alla realtà umana, “scientifico” secondo un’accezione generosa del termine, si traducesse nelle durezze e le rigidità dell’indirizzo positivistico, allora prevalente in ambito universitario, agiva, nell’animo della Montessori, un senso profondo e pervasivo di religiosità, non immune nei confronti di una deriva mistica ma peraltro capace di tenerla al riparo dalle culture e dalle pratiche della Chiesa ufficiale.

Nell’esperienza romana della Casa dei Bambini, del 1907, seguita dalla scuola del convento delle Francescane di via Giusti, ancora in Roma, che nel 1910 accoglie gli orfani del terremoto di Messina, e, nel 1915, dalla Escuela di Barcellona, con in mezzo i progetti statunitensi che si ispirano al movimento giornalistico The Montessori Movement, c’è tutto questo: il convergere di materia e trascendenza, di fisico e spirito, di popolare e di aristocratico. Ma c’è pure il segno della ricerca, che impegnerà un’intera vita, del difficilissimo e apparentemente imperscrutabile equilibrio tra questi momenti. 

Tutto ciò trova ragione e giustificazione solo se ci si orienta a considerare la figura di Maria Montessori come un qualcosa di molto complesso, non tanto per il pensiero pedagogico che esprime e nemmeno per il metodo didattico che ne ha fatto un’icona a livello mondiale quanto per come quel pensiero e quel metodo, così aperti ai diversi umori della collettività, maturano e si incorporano all’interno di una vicenda esistenziale assolutamente fuori del consueto.

 

A rendere sempre più evidente questa pista di analisi, così difforme dall’orientamento, da lei stessa perseguito, a fare degli aspetti pubblici della sua storia personale un vero e proprio monumento (operazione riuscita solo parzialmente, ma lontana anche dalla propensione, attuata da una parte della posterità, a monumentalizzare quell’esperienza conflittuale, contraddittoria e “aperta”, ricomponendone e smussandone ogni istanza di asperità e scomodità), c’è il fatto che da trent’anni a questa parte, secondo un approccio sempre più convinto e fecondo, la letteratura scientifica su Maria Montessori ha assunto la dimensione biografica non più come un elemento esteriore, o la manifestazione di un privato da proteggere comunque, per lasciar luce alla sola ufficialità, ma come possibile chiave per dar conto di una complessità, appunto, che non è del suo pensiero pedagogico, dichiaratamente limpido, né del suo approccio didattico altrettanto semplice, quanto del fecondo rapporto tra quelle idee, quelle pratiche e quell’esperienza unica e irripetibile di vita.

 

La svolta ha avuto inizio, non a caso, negli Usa, alla fine degli anni Ottanta, con l’opera della giornalista e storica Rita Kramer Maria Montessori: A Biography, presentata come “la biografia definitiva di MM: medico, femminista, riformatrice sociale, educatrice, una delle donne più ammirate, influenti e controverse del XX secolo”. Una diva, insomma, celebrata sì, ma anche discussa, problematica, ambigua, come molti dei personaggi pubblici, tanto più se di genere femminile. Da allora non pochi titoli si sono susseguiti, sulla medesima falsariga, e dunque con un orientamento assai diverso da quello consacrato dal processo di celebrazione istituzionale, sviluppato fin lì sia dentro il movimento montessoriano internazionale, sia, all’esterno, attraverso le sue propaggini accademiche e scolastiche, nazionali e internazionali. Ultimo e più compiuto esito di questo itinerario di ripensamento di tutta una vicenda appare ora, in occasione del centocinquantenario della nascita, il contributo di Cristina De Stefano, Il bambino è il maestro (Milano, Rizzoli) nel quale, senza che lo si dichiari apertamente, ma facendolo ben capire, si è propensi a iscrivere la Montessori nella galleria di quelle “scandalose”, ossia le “vite di donne libere” cui la stessa autrice aveva dedicato precedenti e fortunati titoli. Non dovrebbe sorprendere che la revisione della sua immagine sia avvenuta e avvenga ancora non tanto in ambito accademico e scientifico ma in una zona intermedia tra l’indagine giornalistica e il saggio scientifico: di fatto, lo stesso pensiero “scientifico” di Maria Montessori è segnato da uno stile espositivo tutto suo, carico di elementi “impressivi” di derivazione orale come lo sono i costanti richiami narrativi alle vicende esperite o il ricorso frequente a iperboli e metafore. Tutte cose da prendere sul serio.

 

 

Intendiamoci, dunque. Lo scandalo, anche in senso religioso, rappresentato dalla vicenda di Maria Montessori non sta nell’aver tenuta segreta la propria maternità, per non compromettere la personale e altrui carriera, o nell’averla accolta successivamente, a immagine pubblica consolidata, sia pure attraverso la dissimulazione di far passare il figlio Mario per ben cinquant’anni come nipote, ma nell’aver individuato lì, nel conflitto drammaticamente aperto, e che resterà tale, fra ribellione e amore, assenza e presenza, distacco e coinvolgimento l’energia vitale che ha consentito a questa “sacerdotessa” di “vivere una vita spericolata”, ponendosi costantemente dentro e fuori delle parti, e disponendosi a cogliere nelle svolte esistenziali, sia personali sia collettive, altrettante occasioni per cambiare e cambiarsi, anche drasticamente, mantenendo sempre intaccata, però, la sacralità della propria immagine. 

Lo scandalo sta insomma nella dialettica, da lei sempre perseguita, fra due poli.

 

Su un versante fa gioco la fedeltà a una prospettiva di nomadismo intellettuale, politico e spirituale, che è quanto le consente di porre un nucleo di intime convinzioni, in primo luogo l’idea che l’infanzia possa rigenerare il mondo, a contatto con idee ed esperienze profondamente diverse dalle sue e anche differenti al loro interno, quando non opposte (come di segno opposto non potevano non risultare le interlocuzioni da lei intrattenute prima con la democrazia americana e poi con la dittatura fascista). Su un altro fronte opera il parallelo rifiuto di intaccare il significato spirituale del compito cui si sente chiamata, e di attenuare così il peso dei grossi ostacoli materiali che di volta in volta le si parano davanti, e ai quali non può sfuggire. È, insomma, lo scandalo rappresentato da un conflitto mai risolto, ma fecondissimo proprio in ragione di questa sua natura paradossale, fra riconoscimento e autonomia, ubbidienza e libertà, istituzionalizzazione e trasgressione.

 

Rimuovendo questo aspetto del problema storico ma anche attuale rappresentato da un’icona che rifiuta ogni iconografia di maniera, anche quella che più le dovrebbe appartenere, si rischia non solo di annullare il computo, che ci spetta, delle “colpe grandi e piccole” ma anche di non comprendere “le grandi e piccole virtù” che noi posteri dovremmo metterci nelle condizioni di premiare.

Sono dell’idea, infatti, che silenziando questi elementi conflittuali si faccia un torto non solo all’eredità storica rappresentata da una visione di educatrice e da un’esperienza di maestra/direttrice profondamente segnate da un afflato a un tempo partecipato e distanziante di maternità, ma si corra il rischio di farci trovare, in assenza di modelli concreti cui ispirarci, drammaticamente scoperti di strumenti per affrontare seriamente la crisi di elaborazione pedagogica di cui stiamo attualmente soffrendo, in un passaggio d’epoca non meno drammatico di quello da lei così coraggiosamente e spregiudicatamente esperito.

 

Accolta a New York, nel 1913, come una star italiana, appartenente alla matrice che l’anno prima aveva permesso a Guglielmo Marconi di autorappresentarsi ed essere riconosciuto come l’artefice del salvataggio dei sopravvissuti al disastro del Titanic, la stessa che precedentemente aveva fatto di Enrico Caruso il primo artista capace di vendere più di un milione di dischi, e che successivamente farà di Rodolfo Valentino il fenomeno divistico che sappiamo, Maria Montessori non si sottrae all’invito a compromettersi con una cultura diversa dalla sua, ma che intuisce come capace di svilupparne ed esaltarne importanti elementi, come quelli legati alla possibilità di produrre i materiali didattici in una dimensione industriale. Non diversamente intravvede, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, la possibilità di individuare nel Fascismo la garanzia politica attraverso cui entrare direttamente ed efficacemente dentro la scuola italiana, per poterla poi trasformare secondo il suo personale intendimento. Ma in un caso come nell’altro si scontrerà con logiche contrarie alla sua, interessate a sottrarle il compito di decidere autonomamente e responsabilmente delle sorti del progetto pedagogico e didattico a lei intestato.

 

Al momento opportuno, prenderà le distanze da queste (ed altre) compromissioni: una scelta che però non le impedirà di trovare, attraverso l’istituzione di AMI (Association Montessori Internationale) fondata ad Amsterdam nel 1929 e tutt’ora operante, una sua personale e autonoma soluzione al problema di dare un assetto duraturo e controllato alla sua esperienza. C’è dunque, al fondo dell’essere e dell’agire di Maria Montessori, una decisa carica antiistituzionale che ne rende tuttora attuale l’insegnamento, o anche inattuale, a seconda della prospettiva che si vuole adottare, ma che, come avviene per tutte le grandi esperienze di scuola, espone quello stesso insegnamento alla lusinga di un progetto di legittimazione, sia essa eteronoma o anche autonoma, come di fatto è stata ed è. 

Al di là delle virtù e delle colpe dell’immagine codificata mi sento autorizzato (anche per esperienza diretta, avendo fatto asilo – così si chiamava allora – ed elementari in classi montessoriane) a sostenere che della sua opera due sono i tratti da salvaguardare. L’uno, più noto, riguarda la libertà che va coltivata e protetta nei confronti di un bambino senziente e costruttore, secondo una prospettiva pedagogica che la rivoluzione digitale in atto non sta mettendo in discussione, tutt’altro. L’altro aspetto, tuttora vitale, almeno sottotraccia, ma in buona parte negletto, ha a che fare con un approccio spregiudicato nei confronti del futuro. Si tratta di un tema, quest’ultimo, che va in netta controtendenza rispetto a certe culture pedagogiche del presente, ma che andrebbe coraggiosamente recuperato e indagato.

 

La rappresentazione ottimistica di un’infanzia destinata a cambiare il mondo perché lasciata libera di lavorarci e lavorarlo fin dalle primissime esperienze e perché sottratta ad ogni istanza adultistica di contenimento di una inesauribile vitalità biologica e spirituale, rappresenta il lascito che dovremmo metterci nelle condizioni di meritare e far nostro, coniugandolo con tutto quel che la realtà del mondo del conoscere e del fare ci sta prospettando. Non possiamo nasconderci che, a far velo alla realizzazione in modalità montessoriana di un progetto orientato a dare fiducia al bambino e (come ci sollecita a fare l’ultima fase della sua elaborazione) a includere in questa fiducia anche l’adolescente, con la sua scuola tutta da ripensare, c’è la profonda differenza tra l’universo di riferimenti materiali e spirituali di un paese allora in via di affermazione e quello di un paese oggi affermato (malamente?).

 

Grandi conquiste si sono fatte, in questi centocinquant’anni, sul fronte dell’economia, della democrazia e anche della morale civica. Una vicenda come quella personale di Maria Montessori sarebbe oggi impensabile. Ma ahimè, rischia di essere impensabile anche quella sua incondizionata fiducia sul futuro, considerato che, diversamente da allora, oggi tra di noi di infanzia se ne vede davvero poca e quella che c’è non sembra godere di eccessiva fiducia. Invece che esercitarci nel tentativo di iscrivere il pensiero montessoriano dentro l’orizzonte delle attuali neuroscienze, secondo un approccio destinato rapidamente a fallire come sono regolarmente falliti i tentativi passati di includerlo d’ufficio dentro i recinti della psicologia genetica, del comportamentismo, del cognitivismo, dell’attivismo pedagogico, dovremmo impegnarci a rileggere quell’esperienza in forma partecipata. Possiamo rinunciare alla genitorialità, certo: ma per quanto? e in ragione di che cosa? Se però vogliamo essere degni posteri di Maria Montessori, non possiamo davvero rinunciare ad investire, con la necessaria benevolenza, sul mondo che verrà.

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