Torna il classico di Giovanni Macchia / Parigi come mito

22 Febbraio 2022

L’opera di Giovanni Macchia, che Calvino definiva nel 1985 “il nostro maggiore saggista”, ha conosciuto una fortuna crescente dagli anni Sessanta alla fine degli anni Novanta del Novecento. È nel 1962 che Macchia comincia a collaborare regolarmente al “Corriere della Sera”, a cui l’hanno raccomandato Emilio Cecchi e Eugenio Montale. Ha cinquant’anni giusti; è autore di una fortunata raccolta di saggi, Il paradiso della ragione (Laterza, 1960), che valorizza, polemicamente, tutti i fermenti di disordine, di irregolarità presenti nella tradizione letteraria francese, troppo spesso ricondotta in toto all’ideale classicista. Ha alle spalle una mole imponente di studi, pubblicati ora in sedi accademiche, ora come introduzioni a grandi opere o su raffinate riviste di élite. Spaziano da Baudelaire ai moralisti del Seicento, dalla poesia del Berni al mito di don Giovanni, da Stendhal a Laclos, da Manzoni a Montale: una sorta di continente sommerso ancora invisibile al grande pubblico e destinato a emergere gradualmente, a essere incorporato per frammenti ai suoi libri futuri e utilizzato come punto di partenza per nuove, vaste ricerche. 

 

Gli articoli che Macchia pubblica sul “Corriere” hanno una caratteristica singolare: offrono i risultati di una ricerca erudita di altissimo profilo, senza il gergo dello specialismo e senza ingombranti apparati di note. Nella sede giornalistica il grande studioso, alle prese con il lettore comune, mette a punto una strategia accattivante: parte da un aneddoto o da un dettaglio curioso per addentrarsi nella vita, nell’opera, nel periodo storico di un autore. Di quella vita, di quell’opera, di quel periodo storico non ci presenta però mai, come farebbe un affabile divulgatore, una versione semplificata, nella quale tutto torna alla perfezione. Rispetta invece le zone d’ombra del reale e della Storia e ci lascia spesso, con l’ultima frase, davanti a un enigma o a un viluppo di contraddizioni impossibili a sciogliersi. D’altronde, contraddittori ed enigmatici saranno anche i protagonisti dei suoi due capolavori letterari degli anni Settanta: la figlia di Molière, che rifiuta con sdegno il mondo del teatro, e il principe di Palagonia, che al paradiso settecentesco della ragione oppone, nella sua villa di Bagheria, un mondo di mostri di pietra. E lui stesso, Giovanni Macchia, dietro l’ingannevole trasparenza della sua scrittura, non è un personaggio facile da decifrare. È stato sempre considerato un esempio di freddezza, di lucida, ironica e laica razionalità; eppure quando, nel 1993, ha cercato un titolo per l’opera che meglio doveva rappresentarlo, per la sua antologia personale definitiva, l’ha chiamata Il teatro delle passioni.

 

Il mito di Parigi, che torna ora in libreria per Abscondita, era uscito nei Saggi Einaudi nel 1965. Come tutti i libri di Macchia – ad eccezione del Baudelaire critico – era una sofisticata costruzione che riproponeva saggi già pubblicati – i più brevi provenienti soprattutto dal “Corriere” – disponendoli in modo che costituissero, per il lettore, un itinerario ricco di svolte e di sorprese. Balzac inseriva nella sua “Commedia umana” romanzi e racconti già pubblicati, magari più volte; allo stesso modo Macchia amava riprendere, a volte aggiornandoli, i suoi saggi e usarli come materiale di costruzione per nuove opere di cui meditava lungamente il piano. Il mito di Parigi è organizzato in tre sezioni: Ritratti francesi, Autori e personaggi, Cronaca e mito. Ogni sezione suggerisce un itinerario che procede cronologicamente: la prima va dal Cinquecento di Montaigne e di Sponde all’Ottocento di de Maistre e di Stendhal; la seconda da Pascal a Proust, passando per Rousseau; l’ultima dal Settecento di Prévost e di Sade al Novecento di Camus e di Sartre, di Raymond Roussel e di Robbe-Grillet. Alcuni autori, come Stendhal e Proust, compaiono in più di una sezione. 

 

Da un’epoca all’altra, Macchia si muove con la libertà, la curiosità e la sicurezza del grande narratore. Ci conduce nel laboratorio dove il poeta Sponde, adepto dell’alchimia, cerca invano di fabbricare l’oro; segue, in una strada della Firenze granducale, i passi dell’ufficiale di polizia incaricato di pedinare Stendhal, che si aggira con il viso coperto, avvolto “in un ferrajolo turchino”; ci mostra, come sul palcoscenico di un “melodramma mozartiano”, il pittore ginevrino Liotard, in costume turco, che insegue vanamente, per ritrarlo, Jean-Jacques Rousseau, a sua volta vestito – chissà perché – da armeno. L’ultima sezione del libro approda al presente della stesura, agli anni Sessanta. Notiamo, con un certo stupore, che Macchia si trova perfettamente a suo agio nell’algido mondo di Robbe-Grillet, come in un teatro del Grand Siècle o in un salotto settecentesco. La dimestichezza con il passato non solo non gli è d’ostacolo a comprendere la contemporaneità, ma lo aiuta a decifrare L’année dernière à Marienbad:

 

 “A chi non disdegna gli emblemi, i sogni, i deliri del Medioevo e del Rinascimento e vede in Marienbad un’espressione incomprensibile della malata psiche di noi contemporanei, rivolgiamo uno scherzoso invito. Legga questo cine-romanzo come una moderna Hypnerotomachia Poliphili. Anche Marienbad può essere alla fine “una lotta d’amore in sogno”. Dalla foresta ove vive l’attesa, lo sgomento, la paura, l’imminente pericolo (i colpi di pistola), un’allegorica foresta di gelido stucco, si passa agli spazi rigidi, alle superfici senza mistero di un giardino all’italiana, uno dei tanti giardini del Polifilo. È il regno dell’ordine, ove i due amanti si perdono nella notte tranquilla”.

 

A distanza di cinquantasette anni dalla sua pubblicazione, il fascino di questa raccolta mi pare risieda proprio nella felice, avventurosa levità con cui Macchia si muove da un’epoca all’altra. Non esita a confrontarsi con i grandi autori, canonizzati dalle storie letterarie: all’eroismo un po’ rigido e convenzionale del Corneille più celebrato, preferisce la “brutalità quasi mostruosa e la crudeltà asiatica” della sua ultima tragedia; nell’“Addio, monti…” dei Promessi sposi (e nella versione precedente del Fermo e Lucia) riconosce l’eco di una pagina in cui Rousseau si congedava con accenti commossi dalle sponde del lago della sua infanzia. Nel mondo dei suoi autori, però, entra sempre da qualche ingresso secondario, conquistando un punto di vista inconsueto: sorprende Balzac mentre riscrive un racconto libertino settecentesco, snaturandone il mistero; di Joseph de Maistre, l’apologeta del boia, coglie “il vero paesaggio dell’anima” nella nostalgia struggente della Savoia natale; in una visione del marchese de Sade, visitato in sogno dalla sua antenata, la casta Laura amata dal Petrarca, identifica l’origine della virtuosa e sventurata Justine. Questo approccio che privilegia il dettaglio, il margine, l’apparentemente insignificante non esclude però che ogni tanto la prospettiva di Macchia si allarghi e ci offra una lettura illuminante di un momento chiave della storia letteraria. Si veda ad esempio questa riflessione nel cuore dell’ampio saggio magistrale su Stendhal tra romanzo e autobiografia:

 

“Si apre con Stendhal quella crisi tra sincerità dei sentimenti e artificio del linguaggio, che avrà in seguito varie soluzioni. In Flaubert la fiducia nel linguaggio è infinita. In Baudelaire la fiducia è tale ch’egli s’inventa la figura del “parfait comédien” lontana dal suo vero essere (…). Per Proust il linguaggio è tutto: crea la vita stessa nel momento in cui la ripensiamo. È la lotta con la sensazione fuggevole, transitoria, per darle attraverso la metafora un suggello di eternità.”

 

 

In una costruzione elaborata com’è quella di questa raccolta, non è casuale la scelta del saggio iniziale, né di quello posto a guisa di conclusione. Il maestro del dubbio, lo scritto d’apertura, è dedicato a Montaigne, alla sua modernità di “cittadino del mondo” per il quale “certe canzoni amorose cantate dai ‘cannibali’ erano belle quanto un’ode di Anacreonte”. Proprio da Montaigne Macchia mutua il principio guida di tutto il proprio lavoro, che qui riassume lucidamente:

 

“E infine non si consideri la vita come una disperata corsa verso la certezza, e chi non la raggiunge è perduto. Il dubbio può essere la strada migliore per arrivare alla verità: una strada sinuosa che sposa tutte le avventure. L’avventura della luce, i chiaroscuri del pensiero, le ‘nuances’, i contorni che sfuggono. Anche l’avvenire è quest’ombra di dubbio che vela le cose nel nostro presente”.

 

Il saggio finale è quello che dà il titolo all’intera raccolta: Il mito di Parigi (quasi un congedo). Cruciale nella sua brevità, sviluppa uno spunto accennato nel Paradiso della ragione. Se sotto l’ancien régime la “città ideale” era Versailles, perfetto simbolo della “Francia ufficiale e cerimoniosa”, con la grande Rivoluzione e con l’epopea napoleonica si afferma il mito di Parigi, “sintesi spirituale della Francia, depositaria di un’idea fraterna e sublime di eroismo e di libertà”. Un mito che conosce espressioni diverse: la Parigi di Hugo, proiettata utopicamente nel futuro, è destinata a diventare “la capitale del mondo”; quella di Balzac e di Baudelaire “viene associata così intimamente con l’uomo, da formare un insieme tenebroso e indissolubile”. Al tramonto del mito, che declina con l’avvento “di quell’esplosione di luce e di gioia che fu la pittura degli impressionisti”, Macchia dedica la chiusa del suo saggio e certo i lettori del 1965 ebbero l’impressione di trovarsi di fronte a una conclusione, a un punto d’arrivo. Ma quel punto d’arrivo sarebbe diventato per l’autore, più di dieci anni dopo, un nuovo punto di partenza, e il fascino e il declino del mito di Parigi gli avrebbero ispirato nei primi anni Ottanta quell’ultima sezione della raccolta Le rovine di Parigi (1985) che Calvino paragonò a “un travolgente poema”. 

 

All’origine del ritorno di Macchia al tema del mito di Parigi c’è la pubblicazione, nel 1982, in Germania, dell’incompiuto Passagen-Werk di Walter Benjamin. A Macchia non era certo sfuggito, nel 1962, il saggio Di alcuni motivi in Baudelaire, tradotto da Renato Solmi, figlio del suo amico Sergio, nella raccolta einaudiana Angelus novus. L’aveva citato di sfuggita nel suo Baudelaire (1975), a proposito del significato struggente che assume nel poeta delle Fleurs du mal la parola familier. Ma tutt’altro impatto ebbe su di lui l’incontro con il Passagen-Werk. Studiando, agli inizi della sua carriera, i progetti irrealizzati di Baudelaire, Macchia aveva maturato un interesse profondo e duraturo per le opere rimaste nel limbo dell’incompiutezza; la “biblioteca inaccessibile” formata da quei libri-fantasma gli appariva, scrisse nel 1974, “più ricca e più suggestiva di quelle che oggi noi frequentiamo”. Dal Passagen-Werk, Macchia apprendeva che Benjamin aveva vissuto, come Baudelaire, “nel magma dei progetti”. E che il più imponente di quei progetti, il Passagen-Werk stesso, portato avanti dal 1927 al 1940, aveva al suo centro il mito di Parigi e proprio di quel mito – con i suoi splendori e le sue miserie, la sua ascesa e il suo declino – abbozzava un’esplorazione esaustiva, mai tentata prima. All’inizio dell’ultima sezione delle Rovine di Parigi, Macchia compie un gesto per lui assolutamente inusuale: rende omaggio al lavoro di Benjamin e riconosce esplicitamente di averne tratto ispirazione. Le pagine che seguono, spiega al lettore, e che dal Settecento a Proust rintracciano la visione profetica di Parigi ridotta a un “paesaggio con rovine”, nascono dall’“angoscia mitica” di Auguste Blanqui lungamente evocata da Benjamin:

 

“Vogliamo – scrive Macchia – seguire il cammino di questa angoscia attraverso la vita di una città. Vogliamo scoprire il sentimento della sua rovina, che come una minaccia o una liberazione pesa in molti testi che Benjamin non aveva utilizzato: testi di poeti, di romanzieri, di prosatori”.

 

È dunque con la consapevolezza di seguire le orme di Benjamin, di estendere quella che era stata la sua ricerca, che Macchia rintraccia nella poesia e nella prosa tra XIX e XX secolo il versante oscuro del mito di Parigi: la visione dell’Arco di Trionfo in rovina, della Senna tornata palude, della nuova Sodoma o della nuova Pompei su cui l’Angelo sterminatore scatena una pioggia di bombe. Benjamin è il Virgilio che gli fa da guida nella metropoli infernale: non in quanto “storico materialista”, certo, ma in quanto conoscitore senza pari di quel mondo scomparso o in via di sparizione. 

Mi è spesso accaduto di chiedermi se i due protagonisti di questo incontro tardivo non si siano inconsapevolmente incrociati, senza riconoscersi, una cinquantina d’anni prima. Nel 1935, e per una parte del 1936, Macchia soggiornò a Parigi, con una borsa di studio, alloggiando in quello stesso Hôtel du Brésil di rue Le Goff dove aveva abitato Freud quando seguiva le lezioni di Charcot. Scopo del soggiorno era preparare per la pubblicazione in volume la sua tesi di laurea su Baudelaire critico. Seguiva dei corsi alla Sorbona e al Collège de France, ma la maggior parte del tempo la passava alla Bibliothèque Nationale, in rue de Richelieu. La grande sala di lettura di Labrouste, con la sua luminosa cupola vetrata, le sottili colonne d’acciaio e gli abat-jour di vetro verde era allora il rifugio prediletto dell’esule Walter Benjamin. Lui e Macchia lavoravano sugli stessi argomenti: si saranno chinati insieme su qualche cassetto di schede della sotterranea sala dei cataloghi? si saranno sfiorati involontariamente davanti allo scaffale delle opere complete di Baudelaire in libero accesso, tendendo il braccio verso due volumi vicini o verso lo stesso volume?

 

So che non è mai successo, ma mi piacerebbe tanto che avessero finito per mettersi a chiacchierare. Mi piacerebbe che l’avessero fatto in un pomeriggio di maggio del 1935, magari proprio il giorno in cui Benjamin scrisse a Scholem che “tra sé e sé” chiamava ormai il Passagen-Werk con un altro titolo: Parigi capitale del XIX secolo. Mi piacerebbe che fossero usciti insieme dalla biblioteca. Che si fossero seduti, nella sera tiepida di primavera, al tavolinetto tondo di una terrace, conversando fittamente. Gli argomenti certo non sarebbero mancati: Baudelaire, Valéry, Proust, Pirandello, e magari l’evento del giorno, il primo grande sciopero delle midinettes, le combattive operaie delle grandi case di moda, eredi delle grisettes care a Balzac e a Engels. Mi pare che intorno ai miei due ipotetici conversatori, poco a poco, sarebbe scomparsa la Parigi del presente; li avrebbe circondati, come il sontuoso scenario di un mélodrame, o come un panorama, la Parigi risorta del secolo di Baudelaire. Quella che Balzac, nel 1830, faceva celebrare, in un frammento di racconto, a un anonimo mendicante:

 

“Per me Parigi è una figlia, un’amica, una sposa; la sua fisionomia non smette mai di incantarmi. La studio a ogni ora e vi scopro sempre nuove bellezze. È capricciosa: sotto la pioggia si copre di un velo, piange. Poi ricompare brillante, illuminata da un raggio di sole che appende ai suoi tetti collane di diamanti… Per me ci sono ricordi a ogni porta, pensieri a ogni lampione; non è stata costruita una facciata, non è stato abbattuto un edificio senza che io ne abbia spiato la nascita o la morte… Partecipo al moto immenso di questo mondo come se ne fossi l’anima… I boulevard mi appartengono! A me le ombre delle Tuileries, i lillà del Luxembourg, a me le fresche colonne del Palais-Royal… Ci sono piaceri inesplicabili: lo capite che ogni boulevard ha la sua sfumatura, ogni ora la sua fisionomia?”

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