Per una rivoluzione gentile / La sapienza del cuore

11 Dicembre 2017

"Insegnaci a contare i nostri giorni/e giungeremo alla sapienza del cuore" (Sal 90). Per il salmista la consapevolezza della mortalità e, quindi, della preziosità di ogni giorno vissuto, è la via maestra che porta alla sapienza del cuore, cioè a quella forma di sapere che è saggezza, perché è conoscenza dell'intima natura dell'uomo e del rapporto vitale in cui sta con gli altri e il mondo. Sapienza del cuore vuol dire comprendere che siamo fatti di relazioni alle quali, per il bene di tutti, dobbiamo dedicare attenzioni e cure. Su questo tema negli ultimi tempi sono usciti i tre libri di cui vorrei parlare. Del primo intitolato, appunto, La sapienza del cuore (Raffaello Cortina Editore) è autrice Luigina Mortari, pedagogista impegnata da molti anni in un'importante e innovativa riflessione sul tema della cura. 

 

Si può "vivere per inerzia", afferma all'inizio del libro citando Seneca, ma questo non sarebbe niente più che un conservarsi nel tempo. Vivere significa molto di più: vuol dire realizzare le proprie potenzialità, diventare ciò che possiamo essere o, meglio, ciò che siamo in potenza. Per questo abbiamo bisogno di inserire la nostra vita in un'architettura di senso o, come pensava Viktor Frankl, psicologo e psicanalista che ha elaborato una psicoterapia incentrata appunto sulla ricerca del senso, scoprire il senso, per lui già dato, della nostra vita. In ogni modo, è indispensabile imparare a vivere non a caso, ma consapevoli di ciò che stiamo vivendo, dei sentimenti che ci animano, delle emozioni che proviamo più ancora che delle cose che ci capitano. Essere presenti a se stessi in ogni momento, consci dei pensieri che occupano la mente e dei sentimenti che pervadono il cuore, significa essere padroni di se stessi, fare e dire ciò che veramente si vuole anziché parlare o agire sconsideratamente.

 

Questo rende contenti di sé; lo insegnavano già i filosofi ellenistici e lo ha tradotto in pratica Ignazio di Loyola attraverso gli esercizi con i quali i Gesuiti raggiungono la conoscenza di sé e imparano l'autodisciplina. Forse è per questo che tra loro si trovano personalità forti e miti, mai aggressive, ma determinate e accoglienti come era il cardinale Carlo Martini ed è Papa Jorge Bergoglio. Ma prendersi cura degli affetti – una parola bella e un po' desueta con cui la studiosa indica l'insieme di sentimenti ed emozioni – è una pratica necessaria non soltanto al benessere psicologico e spirituale dell'individuo, ma anche al bene pubblico. Essi, infatti, si traducono sempre in gesti e azioni: i sentimenti positivi in atti buoni, quelli negativi in atti cattivi e dannosi; e citando Martha Nussbaum, ci ricorda che per dare forma a una società buona, bisogna "costruire buoni pensieri" che "sapranno alimentare buone passioni". Il suo discorso ha dunque anche il tono di un appello politico, alla politica intesa come arte della convivenza civile, educazione dei cittadini. 

 

Indagare la vita affettiva risponde alla vocazione originaria della filosofia e si traduce in una vera e propria filosofia dell'esistenza oggi più che mai necessaria. Per quanto, infatti, la cultura odierna tenga in poco conto i sentimenti (al di fuori dei talk show televisivi che se ne nutrono come avvoltoi) essi sono, e sempre saranno, il centro della vita degli individui. Avere cura di sé avendo a cuore anche i propri affetti e non soltanto il benessere fisico, significa quindi "curare l'esistenza", dare significato e sapore alla vita. Citando diversi pensatori tra i quali Simon Weil, Edith Stein e Maria Zambrano, Luigina Mortari conclude soffermandosi sulla sofferenza e sulla difficoltà della mente di elaborare e lasciare andare i vissuti negativi. La sofferenza, afferma, non ha ragione: esiste e basta. Ella non pensa, come insegnavano gli stoici, che si possa evitare il dolore sfuggendo ai desideri e alle passioni, ma che si debba trovare la giusta misura nel sentire per affrontare l'esperienza inevitabile del dolore. Bisogna imparare a stare nella sofferenza, senza cercare vie di fuga e senza chiedere sconti alla vita, perché soltanto il "patire accettato" permette alle esperienze di dolore e di perdita di non trasformarsi in malattia. 

 

 

Mentre Luigina Mortari costruisce una cornice filosofica alla dinamica degli affetti, Isabella Guanzini, filosofa e teologa, si sofferma in particolare su uno di essi, la Tenerezza, che dà titolo al suo ultimo saggio (Ponte alle Grazie). Il mondo occidentale, osserva l'autrice, non ha mai posto tra i suoi valori fondativi la tenerezza; al contrario, si è costruito sugli ideali opposti di virilità, durezza, imperturbabilità, a cui si sono aggiunti i miti odierni di efficienza, decisionalità, velocità. Però, questa "rimozione sistematica della tenerezza reciproca dalla grammatica della vita… crea una insensibilità devastante per la qualità della convivenza…", soprattutto quando, come oggigiorno, manca la forza temperante della spiritualità e di un'etica dell'attenzione per l'altro radicata religiosamente. In tale contesto, proprio la tenerezza potrebbe diventare il motore di una rivoluzione gentile e salvifica.

 

Questo sentimento intenso e ancestrale che "ha preceduto la nascita e resisterà anche alla morte" è considerato una debolezza, una forma di fragilità dell'anima inutile e dannosa al bene pubblico, perché, si dice, impedirebbe di vedere con chiarezza politica cosa è giusto fare per il bene per tutti. Ad esempio, un piccolo profugo ci muove a tenerezza, di solito, per cui ci è difficile rispedirlo indietro, perché il sentimento ottunde la ragione. Ma ne siamo sicuri? Non potrebbe invece essere che proprio guardare le cose con occhi diversi da quelli della sola efficienza, economicità, razionalità sia una via di salvezza per la nostra società sempre più atomistica, spaventata, aggressiva e infelice? Papa Bergoglio, sottolinea Isabella Guanzini, ha sdoganato la tenerezza riportandola là dove doveva essere da sempre: al centro del pensiero cristiano, perché la buona notizia annunciata nel Vangelo è proprio la tenerezza di Dio per ogni essere umano (e non solo). Per contrastare i mali di oggi, ha detto Bergoglio, bisogna immaginare nuove forme e prassi di convivenza ed esperienza fondate su una "tenerezza combattiva e su una nuova poetica delle relazioni", rinunciando a un "cristianesimo monocorde" e alla sua "rigidità autodifensiva" (E.G). Il Dio di cui parla il Vangelo è libero, tenero, senza paura e a lui sarebbe giusto ispirarsi. 

 

Per Isabella Guanzini la metafora perfetta della vita odierna è la città, in cui tutto scorre veloce e improvvisato allo stesso tempo. Ogni abitante della città, specialmente delle più grandi, è colpito ogni momento da innumerevoli stimoli e informazioni, deve affrontare situazioni ed esperienze che lo mettono in uno stato di euforia e di spavento insieme. A tutto questo reagisce con una sorta di riserbo, con una chiusura e un distacco auto-imposto che lo trasformano, come dice l'autrice, in un homme blasé, una persona che non si scuote davanti a nulla, un uomo di mondo che in realtà si nasconde dal mondo dietro a un mezzo sorriso. E si allontana in fretta. D'altra parte, come passare indenni davanti a un povero diavolo che chiede l'elemosina, a un'immagine di guerra, alla notizia di una violenza, o anche a un bel paio di scarpe in vetrina e una donna procace in reggiseno e mutandine che ammicca da un cartellone pubblicitario? Come assorbire, conciliare in se stessi tante emozioni così diverse in una stessa mente che nel frattempo segue anche i propri pensieri, e in un cuore che sta vivendo sue personali situazioni emotive? Tutto è troppo, perciò paralizza, avverte Guanzini. 

 

In queste condizioni, viviamo immersi in una sorta di "malinconia generale, come fosse una radiazione cosmica di fondo", fatta di "depressione ed euforia", una stanchezza infinita che diventa una mancanza di speranza. Un ottundimento inquieto e ipercinetico è la sindrome tipica del nostro tempo efficiente, che scorre, o meglio corre, all'insegna della produttività e della prestazione. Ogni elemento d'orientamento è offuscato, le certezze metafisiche, gli ideali politici e anche le grandi narrazioni simboliche sono tramontati. Orientarsi è sempre più difficile, specialmente per i giovani che sembrano "sbagliati energeticamente: o troppo scatenati, o troppo spenti". Il solo rimedio, la sola cura possibile del male oscuro che in misura diversa si insinua nel cuore e nello spirito di tutti, sta nel rallentare per potere di nuovo prestare attenzione, nell'imparare a pensare in ogni circostanza, soprattutto nelle più ordinarie. La consapevolezza costante di quello che il mondo suscita in noi, è fondamentale per discernere ciò che è buono e trattenerlo, lasciando invece scivolare via le emozioni cattive, che ci fanno male e ci spingono a fare male agli altri. Solo questa è la strada, ben nota a chiunque mastichi un poco di psicologia, verso il bene, la pace interiore e l'armonia tra le persone, come già insegnava più di duemila anni fa Buddha Siddharta ai suoi discepoli.

 

Affine alla tenerezza è la dolcezza, che ad essa predispone perché può nascere soltanto in un animo dolce. Per Beatrice Balsamo, psicanalista di formazione filosofica che le ha dedicato il suo ultimo saggio, Elogio della dolcezza (Edizioni Mimesis), la dolcezza è una delle disposizioni dell'animo migliori e più utili alla società, soprattutto alla nostra che tutte e tre le autrici di cui stiamo parlando ritengono caratterizzata da precarietà, incertezza, confusione e semplificazione. Ma purtroppo è anche tra quelle più trascurate e rare. Della dolcezza, di cui vuole analizzare "le radici umane", Beatrice Balsamo coglie soprattutto il carattere di forza "amalgamante, stemperante, di bene-volenza" che ne è l'essenza e il pregio più grande. Proprio nella dolcezza trova un freno quell'eccesso di stimoli di cui scrive Isabella Guanzini, giacché per sua natura essa esige la giusta misura, altrimenti se è un sapore disgusta, se è un atteggiamento diventa stucchevole. 

 

Evidente e immediato, prosegue la Balsamo, è il legame tra la dolcezza e la madre, che dolcemente rassicura il figlio ma nello stesso tempo gli insegna, negando e regolando le sue pretese, a contenere le pulsioni e i desideri eccessivi senza sentirsi frustrato. In tal modo il bambino impara la propria dipendenza dalle cure altrui e la giusta misura di sé rispetto al mondo in cui è entrato; esperimenta la debolezza di chi è bisognoso, ma nello stesso tempo si forma in lui la fiducia nella benevolenza degli altri. Chi si sente amato e al sicuro, diventa più forte, perché la dolcezza "sa sostenere e reggere" consentendo "l'affidarsi… la gratitudine, la tenuta del legame". E dolci non sono soltanto i cibi, ma anche le parole e gli atteggiamenti, così la dolcezza deve essere intesa come "uno stile, un'estetica dell'esistere", una forza che contrasta la disgregazione dei legami sociali, che addirittura li ripara e li ricrea. E siccome stimola la compassione, la dolcezza, sostiene, è un ingrediente fondamentale della giustizia e anche per questo le va riconosciuto un valore politico. 

 

Da punti di vista e in modi diversi, Luigina Mortari, Isabella Guanzini e Beatrice Balsamo portano avanti uno stesso discorso e i loro contributi si rafforzano e si completano a vicenda. In definitiva il loro è un appello forte, convincente e molto ben argomentato a prendere coscienza dell'importanza dei sentimenti, delle emozioni, degli atteggiamenti nel determinare la qualità della convivenza civile, e ad operare con convinzione e responsabilità affinché si rimettano al centro delle relazioni sociali quei modi e quelle disposizioni dell'animo che, come pensavano gli antichi, non solo rendono migliore la vita personale, ma sono anche vere e proprie qualità pubbliche fondamentali per la costruzione di una società civile e giusta. E chi si sentirebbe di negare che oggi ci sia l'urgente bisogno di una rivoluzione della gentilezza?

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