Uno splendido cinquantenne
Appena terminato il cinquantenario del Gruppo ’63, ricco di meste memorie o accigliate celebrazioni, vale la pena – come doppiozero s’appresta a fare – di inaugurarne un altro, in vari modi collegato oltre che immediatamente successivo: quello di Apocalittici e integrati, celebre libro cult di Umberto Eco, pubblicato per la prima volta nel 1964 (Bompiani) e destinato ad aprire, forse suo malgrado, una serie di orientamenti di pensiero e direzioni di ricerca che ancor oggi, appunto a cinque decenni di distanza, si agitano nei migliori mercati intellettuali.
Gli apocalittici e gli integrati, con maschere differenti, sono ancora fra noi, così come, se pure molto meno numerosi, quelli che ne contestano, più che l’emergenza singola, l’accoppiata infernale. Non saranno, com’era allora per Eco, i fumetti o la televisione, la canzonetta di consumo o il Kitsch boldinista a fornire messaggi pseudoestetici e modelli di comportamento su cui esercitare cauta e critica attenzione da parte del semiologo in erba.
Non esisterà, come a quei tempi, la problematica distinzione tra élite, masscult e midcult a rendere euforici i sociologi più accorti, salvo poi assistere alla costante permeabilità fra questi presunti differenti livelli della cultura sociale. Non si saluterà con ambivalente perplessità, come accadeva in quel periodo a estetologi e critici letterari, l’arrivo delle masse come pubblico, di fatto e di diritto, delle varie pratiche artistiche o sedicenti tali. Non si interpreteranno, insomma, i mezzi di comunicazione di massa come braccio armato di un capitalismo maturo e complottardo che si sarebbe proposto di assoggettare il mondo non più con le violenze dei totalitarismi ma con le suadenti sirene stilematiche che strutturano pletore di messaggi-pallottola costruiti ad hoc.
Resta comunque il fatto che oggi – e basti pensare al flusso ansiogeno delle invenzioni tecnologiche o alle ambigue socializzazioni nel web – la dialettica fra apocalittici e integrati non ha per nulla smesso di drammatizzare i dibattiti fra intellettuali d’ogni forma e natura, accademici d’antan, artisti sospirosi, giornalisti rampanti o smanettoni quindicenni, tutti in ogni caso risucchiati entro l’unica arena culturale possibile, quella dei media vecchi e nuovi, al tempo stesso – e lo sappiamo tutti – oggetti d’indagine e linguaggi per esercitarla.
Qual è, d’altra parte, il nesso fra i due cinquantenari? Apocalitti e integrati è il secondo libro di Eco dopo Opera aperta (1962): laddove quest’ultimo ragionava sulle pratiche delle avanguardie e sugli sperimentalismi artistici, ponendosi di fatto come materia teorica del Gruppo ’63, il primo s’interrogava sulle valenze della cultura di massa allora in ascesa. Così quei due titoli, entrambi divenuti slogan proverbiali, si proponevano come punti di vista opposti sul medesimo problema: non c’è cultura di massa se non come risposta all’arroccarsi elitario delle avanguardie, così come non c’è sperimentalismo nelle arti se non come replica del diffondersi del cattivo gusto su vasta scala. Alla dialettica fra apocalittici e integrati (tutta giocata, a ben vedere, entro le maglie sottili della mediatizzazione generalizzata), Eco ne sovrappone un’altra, a suo avviso non meno pertinente per comprendere i reali meccanismi culturali che si agitano nel nostro tempo comune: quella, appunto, fra avanguardia e Kitsch. È allora in questo gioco fra quattro termini, variamente mescolati e combinabili fra loro, che – crediamo – occorre rileggere il libro, non solo e non tanto per ricostruire la storia della sua ricezione, o per misurarne la plausibile attualità, quanto per continuare a pensare criticamente la nostra sfuggente contemporaneità, nelle sue manifestazioni al tempo stesso anodine e misteriose, ingenue e pulp.
Da qui il moltiplicarsi delle domande – e l’ingarbugliarsi delle risposte. Da dove proviene, ammesso che esista, l’odierna critica culturale? quali soggetti sono interessati a praticarla? a partire da quali basi strutturali e ideologiche? con quali e quanti esiti? Che ne è degli innumerevoli post e neo, recuperi vintage e tramonti struggenti, destini incrociati e convergenze parallele che si sono succeduti in questi cinquant’anni, andando a costruire, entro quel presunto monolite che è la cultura mediatica, una serie di complesse periodizzazioni, rotture e conseguenti stratificazioni? Come e con che cosa articolare l’allora con l’oggi, l’alba degli anni Sessanta con un terzo millennio palesemente non più poppante?
La mia copia di Apocalittici e integrati si legge ormai con difficoltà. È logora, scompaginata, la carta è ingiallita e si sbriciola, gli strati variopinti delle sottolineature, dei segnacci e degli appunti a margine danno l’idea di una successione di ere geologiche di cui evapora l’origine. È la prima edizione nei Tascabili Bompiani, del febbraio 1977. Non lo racconto per egoistica idiosincrasia, o per autocompiacente etnocentrismo generazionale, ma perché sono certo che questa sia più o meno la condizione che contraddistingue, adesso, molti testimoni materiali di un’opera ormai classica che ha scavalcato epoche e generazioni; e al tempo stesso la condizione psicologica di chi, compulsandola periodicamente, l’ha comunque consumata, digerita ed espulsa, riassimilata e rigettata, assunta in non sempre modiche quantità.
Quel che ci interessa è peraltro la triangolazione fra le date, in questo aiutati dalla nuova (e ultima) prefazione al libro scritta dall’autore, ristampata ancora nelle edizioni successive. Oggi, ovviamente, siamo molto lontani sia dal ’64 sia dal ’77. Ma, per fortuna, siamo forse più vicini al primo che non al secondo, pressoché rimosso dalla storiografia ufficiale delle arti e della cultura sociale, della politica e dell’economia.
Il ’77 inaugura un oscuro periodo di tutt’altri né né, dove tristi figuri con P38 e passamontagna combattono le stragi di regime usando, al modo di ogni terrorismo, i media come cassa di risonanza. Era il peggior modo possibile di manipolare l’idea echiana della guerriglia semiologica, ovvero l’esito naturale di Apocalittici e integrati. Laddove, secondo Eco, per bypassare il doppio ricatto degli apocalittici e degli integrati occorreva conoscere le strategie dei media per poterne stravolgerne tatticamente i significati (Il costume di casa), la fine degli anni Settanta dà la stura, da un lato, alla lotta armata (Sette anni di desiderio) e, dall’altro, all’istituzionalizzazione beffarda della guerriglia semiologica di Ricci e soci (Dalla periferia dell’impero). Gli esiti sono storia arcinota (A passo di gambero).
Ma come presentava Eco, all’alba di tutto ciò, la nuova edizione di Apocalitti e integrati? Poneva sensati problemi di metodo: “fare una teoria delle comunicazioni di massa è come fare la teoria di giovedì prossimo. Basti pensare che in quegli anni uscivano inchieste sociologiche sul futuro dei giovani in cui si pronosticava una generazione disinteressata della politica, volta a una buona posizione, un matrimonio tranquillo, una casetta e un’utilitaria”. Il problema sta insomma nel fatto che, troppo spesso, si discute dei mezzi di massa presi dal ricatto della profezia a breve termine, tanto insensata quanto fallace, non foss’altro perché regolarmente smentita dal ritmo con cui tali mezzi inevitabilmente si trasformano.
Per studiare la cultura di massa e i suoi media bisogna arretrare lo sguardo, e andare in cerca non delle verità dell’ultimo momento, delle variazioni di superficie delle cose e delle idee, delle forme e degli stili, ma degli schemi invarianti su cui questa stesse mutazioni si fondano. Così, la Poetica di Aristotele può spiegare gli sceneggiati televisivi e l’oratoria gesuitica la pubblicità delle saponette, al modo in cui Kant potrà esser utile per interpretare le canzoni di consumo ed Hegel per dare un senso al fenomeno del cattivo gusto. È appunto questo gesto dell’arretrare lo sguardo, al tempo stesso critico e liberatorio, che viene eternamente rifiutato sia dagli apocalittici sia dagli integrati: convinti (i primi) che Kant serva soltanto a leggere Kant e speranzosi (i secondi) che per capire la tv basti esclusivamente guardare la tv. Si capisce la ragione per cui l’idea di Eco ha fatto centro, pur nella triste constatazione che la diade proverbiale da egli individuata è dura a morire.
Un giovedì prossimo perennemente rinviato? Il dibattito è aperto.
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Scuola Superiore di Studi Umanistici
Tavola rotonda Apocalittici e integrati 1964-2014. Attualità e sviluppi
Introduce: Costantino Marmo (Presidente della Scuola di Lettere e Beni culturali)
Partecipano: Marco Belpoliti, Fausto Colombo, Giacomo Manzoli, Gianfranco Marrone, Marco Santoro
Insieme a Umberto Eco
Coordina Anna Maria Lorusso
Martedì 11 marzo 2014, h. 16.00-19.00 Scuola Superiore di Studi Umanistici – via Marsala 26, Bologna