Adolescenti senza tempo / Un’età senza età
Gigliola Cinquetti aveva 16 anni quando cantava Non ho l’età che nel 1964 vince il festival di Sanremo. Lei voleva crescere, doveva crescere, per poter amare e uscire sola con te... Fino al 1975 si diventava maggiorenni a 21, era un traguardo atteso, voleva dire prendere la patente, votare, sentirsi finalmente adulti. Il desiderio di diventare grandi correva in parallelo alla credenza nel progresso, un domani sempre migliore dell’oggi. Un futuro che negli anni Ottanta del secolo scorso ha iniziato a incrinarsi, a rovesciarsi in un senso di precarietà e incertezza. I giovani di oggi hanno di fronte una concreta riduzione delle opportunità rispetto al passato e sono tra le prime generazioni, dopo il ‘900, a non essere più in grado di migliorare le proprie prospettive di vita. Un mutamento d’epoca che influenza anche il modo di percepire i nostri anni. Intanto le età hanno subito variazioni temporali, si sono allungate e ristrette, sono diventate più fluide e meno classificabili.
Nel suo testo Adolescenti senza tempo (Raffaello Cortina Editore, 2018), Massimo Ammaniti evoca già nel titolo una condizione esistenziale inedita: i suoi protagonisti assomigliano all’eroe multiforme, Ulisse, e devono affrontare un tumultuoso viaggio che pare prolungarsi all’infinito prima di ritrovare dentro di sé il “luogo delle origini”. Le elaborazioni in campo psicologico e psicoanalitico faticano a rappresentare il passaggio dalla gioventù alla maturità. Il modello di adolescenza muta in fretta, l’autore ripercorre le teorie classiche, richiama le ricerche più aggiornate, ma affida a romanzi e serie Netflix, a film e canzoni il compito di raccontare la lunga attesa, l’ingresso ritardato nel mondo degli adulti che, a loro volta, faticano a pensare di avanzare, perché avanzare significa invecchiare.
La scoperta dell’adolescenza è relativamente recente, a fine Ottocento è lo psicologo e pedagogista americano Stanley Hall − curioso di quanto stava accadendo tra Vienna e Zurigo fu lui a organizzare lo storicamente fatidico viaggio negli Stati Uniti di Freud e Jung −, a parlare di una fase dello sviluppo distinta dall’infanzia. In un paese giovane, con una popolazione di immigrati, occuparsi di gioventù era un modo per sorvegliare e regolamentare possibili ribellioni e deviazioni sociali. Se alcune intuizioni di Stanley Hall, come l’attrazione per il rischio e le sensazioni forti, sono state poi confermate dagli studi sul cervello e dalla neurobiologia, la sua idea di adolescenza è però quella di uno stato patologico: “È la migliore chiave per la natura del crimine. È essenzialmente antisociale, egoista e contraria alle leggi dell’altruismo”. Sarà l’antropologa Margaret Mead, la cui ricerca più importante è sull’adolescenza a Samoa, a provocare un accesissimo e prolungato dibattito, nel raccontare un passaggio di età più libero e meno problematico, nel mettere dunque il fenomeno della delinquenza giovanile in rapporto alle caratteristiche della società americana. Una questione ancora assolutamente rilevante, perché riguarda il peso da attribuire ai fattori ambientali e culturali. Ammaniti non è così esplicito, ma la sua storicizzazione indica già la direzione di una ricerca.
In primo luogo oggi è la stessa idea di un processo di sviluppo conseguente a essere considerata poco utile per descrivere i rovesciamenti temporali, i rimescolamenti, gli andirivieni che nella nostra epoca non seguono una scala evolutiva, di fasi e stadi, ma si condensano in un tempo lineare, con salti bruschi e giravolte. Anche per questo appare superato lo schema dello sviluppo psico-sessuale di Freud che vede l’evoluzione dell’Io nel passaggio dal principio di piacere al principio di realtà, dall’autoerotismo al narcisismo e dal narcisismo alla relazione genitale adulta. Più capaci di raffigurare il ciclo di vita sono gli stadi di sviluppo psico-sociale di Erikson, caratterizzati ciascuno da una precisa crisi legata all’identità. Dove il concetto di crisi è inteso in maniera positiva, come scelta possibile tra diverse oscillazioni di una problematica evolutiva. Erikson parla di una “fase del giovane adulto”, (cfr. Matteo Lancini, Fabio Madeddu, Giovane adulto. La terza nascita, Raffaello Cortina Editore), Ammaniti conia il termine di adultescenza, “un modo di essere che può prolungarsi oltre i 30 anni: si è concentrati su se stessi, incapaci di assumersi responsabilità nei confronti di un partner con cui convivere e, soprattutto, di avere figli, che implicherebbero un impegno, oltre che rinunce e sacrifici”.
Secondo il rapporto Istat del 2016, il 75% dei trentenni vive con almeno uno dei genitori, l’età media del matrimonio, quando avviene perché sempre più spesso si preferisce convivere, è di 31 anni per le donne e di 34 per gli uomini. Eppure, la pubertà che all’inizio del XX secolo iniziava intorno ai 17 anni, ora è collocata ai 10, 10 anni e mezzo per le femmine, 11, 11 e mezzo per i maschi.
Una volta questa età pareva privilegiata per lo studio e l’ozio prolungato, ora si vive un tempo congelato e immobile, un tempo sospeso, che può far sentire un piccolo punto che rischia di scomparire all’infinito, sommerso dal pensiero dell’eternità.
Modi di vestire, tatuaggi e piercing inventano i riti di passaggio, l’appartenenza al gruppo segna la vera iniziazione a un esterno estraneo. “Lo psicoanalista Philippe Jeammet (…) propone il concetto di spazio psichico allargato, che si caratterizza per una dilatazione dei confini personali del proprio Sé, così che i coetanei, i genitori e gli insegnanti vengono a impersonare aspetti del proprio mondo psichico”. Mondi fantastici dove ci si immagina sempre in relazione ai compagni e dove è enorme l’esposizione alle sensazioni di accettazione/esclusione ampliate dalla comunicazione digitale. La precocizzazione non aiuta, perché è proprio tra gli 11-12 che si osserva un declino della capacità di riconoscere le emozioni (felicità, tristezza, rabbia) che si recupera poi verso i 16, e sono “anni del disallineamento” anche dal punto di vista del sistema cerebrale che continua a maturare fino ai 20 anni e oltre.
In Adolescenti senza tempo incontriamo lo sbruffone, il fascista sfacista, il surfista, il ritirato, la scoutista perfezionista, tipi psicologici che portano nello studio dello psicoanalista le molteplicità del Sé di una soggettivazione adolescenziale a volte grandiosa, a volte timorosa, sempre difensiva. Per esprimere uno stato d’animo, avere una maschera per comunicare su un piano sociale, costruire un’immagine ideale in conflitto con l’inadeguatezza della propria imago interiore, per lasciare un’impronta, per controllare la propria immagine, come accade con i selfie.
L’adolescente vive in famiglie adolescenti, come le chiama Ammaniti, dove le crisi di crescita dei figli si scontrano con le crisi di maturità dei genitori, e il timore di tutti è un senso di perdita incombente. Non è facile dare risposte ai genitori, in ansia perenne per le sorti dei figli, con attaccamenti tenaci come quelli che si creano nel triangolo composto da due genitori e un figlio unico, nella coppia genitore-figlio, sempre più diffusa. “Forse questo è il motivo che spinge i genitori a diventare elicotteri, per usare l’immagine di Alison Gopnik: stanno sempre addosso ai figli perché non sanno prevedere quale direzione potrebbero prendere”. Ma la direzione potrebbe anche essere quella del quindicenne di Torre Maura che ha sfidato i militanti di Casapound, del tredicenne che ha salvato i compagni sul pullman dirottato, e della sedicenne Greta. Problematica forse, certo utopica.