Rivolte studentesche e democrazia

26 Novembre 2012

Ormai più di vent’anni fa in Italia ci fu un movimento studentesco oggi quasi dimenticato. Lo chiamavano “La pantera”, perché in quei giorni si parlava molto di una pantera avvistata fra le strade di Roma che non si faceva prendere. Tutto era cominciato a Palermo: da lì, la pantera aveva occupato le università e le piazze di tutta Italia, svegliando con un soprassalto di consapevolezza centinaia di migliaia di ragazzi imbambolati dagli anni Ottanta.

 

 

Io ero al primo anno di Lettere a Firenze, e ricordo bene il momento in cui nel chiostro di piazza Brunelleschi, durante un’assemblea di ateneo particolarmente affollata, tutte le mani si alzarono per votare l’occupazione; poi venne il blocco delle lezioni e degli esami, l’assemblea permanente in aula B, i fax a ritmo continuo, l’epidemia delle facoltà che occupavano giorno dopo giorno: architettura, agraria, fisica (giurisprudenza per ultima, chissà perché). Su un tavolo all’ingresso c’era uno scatolone con sopra scritto “Tu chiamale se vuoi, le mozioni”: chiunque poteva inserire la propria proposta che sarebbe stata sottoposta al voto in assemblea, e ricordo che nei primi tempi i giovani di CL cercavano di boicottare l’occupazione portando a votare anche più volte a settimana carovane di parenti, amici, studenti da tutte le facoltà, finché fu deciso (e fu la prima decisione difficile da prendere) che potevano votare solo gli iscritti a lettere, libretto alla mano. In seguito ci fu la brutta assemblea nazionale di Firenze, l’esaurimento interno del movimento e la fine lenta e ingloriosa di tutto. Ma quei mesi di occupazione noi li prendemmo molto sul serio, e furono per molti della mia generazione il corso migliore fra quelli che frequentammo all’università.

 

 

Al di là del motivo contingente per cui gli studenti decidono di mobilitarsi, io credo che in certi momenti non si possa far uso migliore delle aule che occuparle. Da soli, per spinta autonoma, senza insegnanti a far da balia e senza padri nobili e meno nobili ad appoggiarli o consigliarli dall’esterno. Credo anche che i movimenti studenteschi veri (e per veri intendo di massa, prolungati nel tempo, con occupazione degli spazi e sospensione della didattica) abbiano un valore in sé, nel loro farsi, al di là dei risultati concreti che si prefiggono e di quelli che raggiungono (sempre fallimentari, visti dall’esterno). Credo poi che questo valore non riguardi solo per chi partecipa direttamente, ma rappresenti un patrimonio di tutti, perché credo (mi rendo conto che in questo momento sto addentrandomi nelle acque territoriali della retorica) che i movimenti studenteschi siano prima di tutto un valore per la democrazia. Non nel senso che un paese nel quale possono nascere rivolte studentesche senza (quasi) spargimenti di sangue è un paese democratico, ma per la ragione che che la democrazia vive più in un’aula occupata che in tutte le istituzioni messe insieme, in tutti i discorsi di fine anno del presidente della Repubblica. Mi pare che solo imparandola dal basso questa parola così vuota e ormai rituale, paravento per il privilegio, può rigenerarsi e tornare ad essere utilizzabile, pronunciabile, condivisibile.

 

 

I movimenti studenteschi sono per quanto mi riguarda l’unica forma possibile di educazione civica. Rappresentano l’urgenza di assumersi in maniera diretta e senza intermediari una responsabilità vera relativamente a se stessi e al mondo. Perché una rivolta studentesca fatta bene costringe chi vi partecipa a rispondere con voce propria e non da ventriloquo a questioni fondamentali, che chiunque appartenga ad una comunità dovrebbe considerare troppo importanti per delegarle ad altri: il diritto di qualcuno a rappresentare qualcun altro, il confine tra cosa è legale e cosa non lo è, i modi e i limiti della discussione tra pari, la violenza e la non violenza, il rapporto con il potere dello Stato e il potere dei media, il modo per legittimarlo, per delegittimarlo, per difendersene. Tutti argomenti che non è possibile insegnare, e che impegnarono fino allo sfinimento, nella teoria e nella pratica, gli studenti riuniti in assemblea permanente nell’aula B dell’Università di Firenze: davvero sembrava di vedere un motore arrugginito che piano piano, cigolando orrendamente, riprendeva a muoversi, e noi tutti ci sentivamo come dei balbuzienti in rieducazione, o peggio dei barbari che per la prima volta, guardandosi negli occhi, imparavano a discutere, a usare la testa, a decidere: quello era lo stato in cui ci accorgemmo di essere ridotti dopo decenni di non-pensiero conformista.

 

 

Adesso non mi sembra che la situazione sia molto migliore. Forse mi sbaglio, ma adesso stiamo ancora peggio. Lo svuotamento di senso delle parole e degli spazi di vita comune è tale che occorre davvero uno sforzo colossale per risollevarsi. E quali forze occorrono per togliersi di dosso queste macerie? Ogni democrazia dovrebbe considerare il silenzio dei giovani come la peggiore minaccia alla sua esistenza, perché questo silenzio rappresenta l’apatia, l’ignoranza, la debolezza di un paese intero che sta morendo, dove si impara a discutere dai talk show televisivi e si esaltano i social network come il futuro della partecipazione. Dentro questo silenzio prosperano capocomici di lungo corso che si autoproclamano movimento, e che sono in realtà la nostra anima nera, la migliore espressione di questi decenni di liquame, lo specchio del qualunquismo, dell’egoismo, del fascismo sociale e culturale in cui viviamo.

 

 

Dallo Stato e dai poliziotti che lo rappresentano non mi aspetto che sfilino accanto agli studenti nelle piazze, e soprattutto non me lo auguro. Mi aspetto soltanto che non li considerino loro nemici. Dalla cosiddetta società civile non mi aspetto che faccia proprio questo movimento e che cerchi di mescolare le proprie parole alle sue: il privilegio di nutrire speranze anche irragionevoli, di avere delle idee progressive sul mondo lo abbiamo avuto tutti, ma adesso vedo solo un proliferare di circoli viziosi. Dalla gente come me io mi aspetto prima di tutto che lasci libera la strada quando nascerà un movimento studentesco vero, e che contribuisca a togliere di mezzo un po’ degli ostacoli che inevitabilmente si troverà davanti, come le manipolazioni e le morbose interpretazioni socio-politiche senza costrutto. E dagli studenti mi aspetto che siano loro i primi a prendersi sul serio, e che facciano seriamente quello che hanno sempre fatto in ogni epoca: trovare nuove strade, pensare nuove idee e liberarle nel mondo, un po’ come quella pantera che tanti anni fa girava per le vie di Roma. Se non ricordo male non l’hanno mai presa.

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