Immagini di pensiero / Walter Benjamin. La strada
Le strade sono le abitazioni del collettivo. Il collettivo è un essere sempre inquieto, sempre in movimento, che tra i muri dei palazzi vive, sperimenta, conosce e inventa tanto quanto gli individui al riparo delle quattro mura di casa loro. Per tale collettivo le scintillanti insegne smaltate delle ditte sono un ornamento pari e anche superiore al dipinto a olio in un salotto borghese e i muri con «défense d’afficher» sono il suo scrittoio, le edicole la biblioteca, le cassette delle lettere i bronzi, le panchine i mobili della camera da letto e le terrazze dei caffè il bow-window, da cui osserva la propria casa. Là dove gli stradini appendono alla grata la giacca, c’è il vestibolo, e la porta carraia che, dalla fuga dei cortili, conduce all’aria aperta, il lungo corridoio che spaventa il borghese è l’ingresso alle camere della città. Il passage è il loro salotto. In esso più che altrove, la strada si dà a conoscere come l’intérieur ammobiliato e vissuto dalle masse.
(Da W. Benjamin, Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, Neri Pozza, Vicenza 2012, p. 227)
Questa fenomenologia della strada metropolitana è la risposta all’accanimento filologico con cui il grande romanzo borghese ha descritto l’interieur delle case dei suoi eroi protagonisti.
Qui, negli spazi pubblici della grande città - il modello è Parigi - tutto muta costantemente, tutto è in movimento, non ci sono certezze percettive, non c’è durata.
Se l’interno borghese è la traduzione visivo-simbolica del soggetto borghese con la sua ansia di certezza, durata, sicurezza, possesso, le strade della città sono invece gli spazi in cui il soggetto dismette se stesso come individuo e si appropria di un’identità collettiva a cominciare dai suoi moti percettivi che non sono più unitari, individuali e prospettici ma frantumati, collettivi e puntiformi.
La strada come interieur delle masse è l’equivalente simbolico di un tempo che ha perso l’originaria ambizione prometeica del soggetto borghese che sapeva collocarsi nel mondo, che se ne appropriava piegandolo ai suoi fini e che inventava la sua dimensione privata nella rassicurante compostezza ed eleganza del salotto della sua casa.
Il nuovo mondo, l’«età del capitalismo avanzato», non sa cosa farsene del soggetto cartesiano e della sua ambizione a mettere in ordine lo spazio intorno a sè, di tracciarne i confini e di distinguere rigorosamente il pubblico dal privato. La nuova età scioglie l’individuo, la sua forma individuale e la sua pretesa di irriducibilità nella consistenza fluida e amorfa della folla.
Il nuovo soggetto realizza i suoi desideri negli spazi pubblici, nei luoghi in cui le masse vedono esposte le merci, nella fantasmagoria - il termine è particolarmente caro a Benjamin - delle vetrine del consumo, veri e propri mondi onirici dove il tempo è sospeso e il singolo ritorna al liquido amniotico, all’indistinzione nel corpo materno, al tutto che precede l’individuazione e la scissione originaria, prima della Urtheilung di cui parla Hölderlin in un celebre frammento giovanile.
A questa età del naufragio dell’io, dove i meccanismi di costruzione identitaria sono solo caricature di un’individuazione sempre differita, mai raggiungibile quale tipo di arte può corrispondere? E soprattutto può l’opera d’arte avere i tratti distintivi che l’hanno caratterizzata a partire dal tardo medioevo, in primo luogo la centralità dell’artefice, la sua irripetibile genialità e l’aura che l’opera emana come garanzia della sua inconfondibile identità?
L’arte di questa metropoli che non conosce posa e le cui ritualità del desiderio e della sua soddisfazione si svolgono in pubblico tende al contrario ad essere un’ arte senza soggetto e senza aura: un aggregazione provvisoria di elementi, un artefatto che vive nel momento della sua fruizione e poi cambia disponendosi ad una futura percezione e a un esito interpretativo totalmente differente.
Benjamin, già negli anni che precedono il suo esilio parigino, è attraversato da due potenti modelli estetici: da un lato dall’idea surrealista del montaggio e dall’altra dalla concezione warburghiana che vede nelle opere una costruzione di formule visive in cui si condensano i sentimenti che accompagnano l’agire umano. Questi modelli - Warburg li chiama “Pathosformeln” - sono senza età, provengono dall’antichità greca e romana e ricompaiono improvvisamente ricominciando, a distanza di secoli, talvolta di millenni, a emanare la loro forza ‘radioattiva’ all’interno di universi iconici e stilistici completamente mutati.