Renzo Piano. The Menil Collection
Quando il 31 gennaio 1977 viene inaugurato il Centre Georges Pompidou, tra i quadri esposti nel Musée National d’Art Moderne spicca una tela di Jackson Pollock di due metri e venti per un metro e cinquanta di notevole, insolita bellezza. Il suo titolo è The Deep; Pollock lo aveva dipinto nel 1953.
Nel 1974 Dominique de Menil era entrata a far parte del comitato incaricato di provvedere agli acquisti del Museo. «Sono colpita che il mio nome compaia tra quelli dei sette membri del nuovo comitato. Non so se potrò essere di grande aiuto, poiché ora sono molto impegnata a Houston, ma accetto con piacere l’invito a farne parte. Sarà un’occasione per me per imparare meglio ciò che oggi accade nel mondo dell’arte».
Jackson Pollock, The Deep
Dominique e suo marito Jean avevano conosciuto Max Ernst a Parigi negli anni Trenta. Ernst aveva ritratto Dominique nel 1934 e naturalmente il quadro fa ancora parte della Menil Collection. Quando Parigi viene occupata dai tedeschi, i de Menil si trasferiscono negli Stati Uniti e cominciano a frequentare le gallerie e i mercanti d’arte newyorkesi. La loro guida è un altro fuoriuscito francese, il domenicano Marie-Alain Couturier, direttore de «L’Art Sacré» e futuro “committente” di Le Corbusier. Quando la Menil Collection progettata da Renzo Piano viene inaugurata il 7 giugno 1987, i pezzi che fanno parte della collezione sono più di diecimila. Documentano un arco temporale enorme: dal paleolitico a Andy Warhol.
Il padre di Dominique era Conrad Schlumberger; con il fratello Marcel aveva fondato in Francia, alla fine degli anni Venti del secolo scorso, la Société de prospection electrique. Schlumberger è ancora oggi una delle più importanti società al mondo per la fornitura di servizi e tecnologie per la ricerca petrolifera. Ciò spiega le ragioni per le quali, una volta lasciata la Francia, i coniugi de Menil si dividono tra New York e Houston.
Quando Pontus Hulten scrive a Dominique de Menil, Jean è scomparso da un anno. Nel 1973, come abbiamo visto, Hulten era stato chiamato a dirigere il Musée National d’Art Moderne che si era deciso di allestire all’interno del Centre du Plateau Beaubourg. Per la creazione di questo Museo era stato costituito un comitato per gli acquisti che poteva operare sul mercato in maniera autonoma. Da tempo Hulten intratteneva buoni rapporti con i de Menil; come loro era un ammiratore di Jean Tinguely e come loro conosceva bene il mercato dell’arte. Quando nell’aprile del 1974 Georges Pompidou muore, Dominique scrive a Hulten e, mettendolo a parte del suo cordoglio, spiega quale significato ritiene abbia il «Centre Beaubourg». Ciò che afferma non è diverso da quanto André Malraux pensava alla fine degli anni Sessanta e anche Pompidou avrebbe potuto far sue le parole da lei usate per spiegare i motivi che lo avevano indotto a costruire il Centre du Plateau Beaubourg. «L’impulso creativo di Pompidou continua a cambiare la vecchia mappa dell’Europa», scrive Dominique, e «Parigi, che rischiava di andare a fondo, ha nuovamente la possibilità di diventare il luogo più stimolante in Europa per gli artisti». Per rendere omaggio a Pompidou la Menil Foundation dona The Deep al Musée National d’Art Moderne.
Dominique de Menil
Dominique de Menil risponde all’invito rivoltole da Hulten l’8 marzo 1974. Accetta di entrare a far parte del comitato per le acquisizioni del Museo, ma lo informa di avere molti impegni a Houston. A questi, da lì a una settimana, se ne aggiunge un altro. Il 17 marzo muore improvvisamente l’architetto al quale lei e Jean avevano affidato il progetto del “deposito” della loro collezione, Louis I. Kahn.
Probabilmente, in quegli stessi giorni Renzo Piano sta controllando il montaggio delle gerberettes della struttura di Beaubourg. Ovviamente, quando apprende della scomparsa di Kahn, Piano non può immaginare che da quel momento la parabola della sua carriera inizia a prendere una piega che la porterà ad incrociare nuovamente quella dell’architetto di Philadelphia. Ciò era accaduto per la prima volta cinque anni prima, quando Robert Le Ricolais lo aveva presentato a Kahn per il quale, di lì a poco, Piano avrebbe iniziato ad occuparsi dei lucernari della fabbrica Olivetti di Harrisburg. Ma di questo parleremo tra poco: ora è sufficiente ricordare che il 17 marzo 1974 segna l’inizio di una vicenda destinata a concludersi tredici anni dopo, nel giugno 1987, quando la Menil Collection, che nel frattempo Piano ha progettato, viene aperta al pubblico. Per le medesime, ovvie ragioni nel 1987 allorché si reca a Houston per l’inaugurazione del museo voluto da Dominique, Piano non può supporre che trascorsi altri ventisei anni, come vedremo, sarà lui ad accogliere il 27 novembre 2013 a Fort Worth i convenuti per la cerimonia di inaugurazione del padiglione che porta il suo nome, costruito a poche decine di metri di distanza dal Kimbell Museum, il capolavoro di Kahn.
Louis Kahn incontra Dominique de Menil nel 1967 a Houston. Di lì a poco Dominique diviene la principale sostenitrice dell’ipotesi di affidargli l’incarico di costruire l’Art Center dell’Università di Rice. Caduto questo progetto, la Menil Foundation affida a Kahn il compito di disegnare il proprio museo, concepito come «a storage», un deposito, stando all’espressione con cui anche l’architetto lo definisce. La collezione, infatti, è ormai talmente vasta che può essere esposta soltanto ruotando i pezzi che la compongono; il problema principale è garantirne la conservazione senza però impedirne la consultazione.
Renzo Piano, The Menil Collection
L’area destinata ad accogliere il nuovo museo è in buona parte di proprietà dei de Menil. Dal 1971 vi si trova la Rothko Chapel. Jean e Dominique ne avevano affidato il progetto a Philip Johnson, ma la cappella viene costruita da Howard Barnstone e Eugene Aubry. Stando a Dominique, il progetto si definisce dopo una visita da lei compiuta all’inizio degli anni Cinquanta a due opere fortemente volute da Couturier in Francia: Notre Dame de Toute Grâce du Plateau d’Assy e la Cappella del Rosario a Vence di Henry Matisse. All’interno della cappella di Houston sono sistemate quattordici tele di Rothko, commissionate nel 1964. All’esterno, appoggiata in una vasca d’acqua, vi è Broken Obelisk di Barnett Newman. I de Menil avevano offerto la scultura alla città di Houston per ricordare Martin Luther King, ma l’Amministrazione cittadina, non particolarmente incline a condividere le posizioni apertamente favorevoli all’allargamento dei diritti civili negli Stati Uniti sostenute dai de Menil, l’aveva rifiutata.
Il progetto di Kahn investe una porzione del quartiere di Montrose che comprende l’area destinata al museo e la Rothko Chapel. L’intenzione della Menil Foundation è di coinvolgere l’intera comunità nei programmi educativi e nelle attività culturali che intende promuovere. Per questa ragione, oltre al museo, Kahn studia alcuni complessi residenziali, un albergo e vari servizi per la comunità, concentrandosi su un’area definita da quattro strade, Branard, Sul Ross, Yupon e Mulbery street. Le varie ipotesi che i disegni consentono di individuare convergono poi verso una soluzione che prefigura la costruzione di un edificio allungato, formato da una successione di volte. Tutte le varianti assumono come matrice tipologica la contiguità degli spazi espositivi e di quelli destinati ai depositi aperti, altrettanto vincolante della decisione di sfruttare l’illuminazione naturale, che Kahn affronta consultando Richard Kelly, con il quale aveva studiato il sistema di diffusione della luce realizzato nel Kimbell Museum a Fort Worth. Gli ultimi disegni di Kahn per il complesso di Montrose sono della fine del 1973. Nove anni dopo Piano e Peter Rice mettono mano al progetto del museo che viene costruito e poi inaugurato nel 1987.
Sebbene Piano avesse già lavorato per Schlumberger tra il 1991 e il 1994, ristrutturando per la società francese un insediamento industriale a Montrouge, alla periferia di Parigi, per farne un complesso terziario, l’incarico di costruire la Menil Collection gli viene conferito direttamente da Dominique. Pontus Hulten caldeggia questa scelta. Nel 1981, come lui racconta, per far sì che Dominique de Menil e Piano si conoscano, organizza un viaggio in Israele. L’obiettivo è visitare un piccolo Museo d’arte che Hulten apprezza per la soluzione lì adottata per modulare la luce naturale nelle sale espositive. Il Museo si trova nel kibbuz Ein Harod. Hulten non sa che l’architetto che l’ha costruito nel 1948 è Samuel Bickels, il solo progettista di kibbuz membro di un kibbuz.
Nel Museo di Ein Harod la luce scende dall’alto. Non sono neppure immaginabili analogie costruttive, ma la sezione dell’edificio di Bickels è idealmente simile a quella del Kimbell Museum di Kahn: le coperture delle sale sono formate da due gusci separati longitudinalmente da lucernari ribassati ai quali sono appesi ampi piani piegati che riflettono la luce sulle pareti. Anche Piano, come altri dopo di lui, coglie l’originalità di questa soluzione, che vanta un buon credito nei confronti della Menil Collection.
In un saggio ora tradotto in italiano nel libro Architettura della Seconda Età della Macchina, anche Reyner Banham dimostra di non avere dubbi nel cogliere la novità che la Menil Collection rappresenta: «se esiste una direzione in cui si muovono i musei contemporanei, non è la direzione della Menil Collection», scrive nel 1987: «la qualità della luce non ha paragoni e forse fisserà un nuovo standard che rischia di togliere il sonno agli altri architetti».
La Menil Collection è costruita intorno al paradosso che governa il rapporto degli spazi con la luce, che Dominique de Menil vuole impropriamente intensa nelle sale espositive e ovviamente controllata nei depositi. Per risolvere i problemi che ciò comporta, Piano mette a frutto i risultati ottenuti con una serie di esperimenti compiuti ben prima di intraprendere il viaggio in Israele che abbiamo ricordato. Se ne potrebbe ricostruire la genealogia a partire dal primo studio da lui costruito a Genova, dalla abitazione realizzata a Garonne vicino ad Alessandria nel 1969, per arrivare agli uffici per B&B (1973), ma ciò facendo non faremmo che ripetere quanto già abbiamo avuto modo di dire e vedere.
Il ruolo determinante che la luce naturale interpreta nella Menil Collection discende dalla concezione stessa del museo. Come Dominique aveva avuto modo di spiegare a Kahn, l’edificio deve essere insieme un deposito, un luogo di lavoro e una successione di spazi espositivi. Se non fosse una forzatura, lo si potrebbe definire una crasi. Ciò è dovuto alla straordinaria ricchezza ed eterogeneità della collezione, costruita, verrebbe da immaginare, prendendo ognuna delle innumerevoli figure che compaiono nei quadri di Max Ernst come un pretesto per raccogliere tutto ciò che potrebbe consentire di scoprirne l’origine e la genealogia, e di ricostruirne il genere di appartenenza.
Una simile collezione può essere presentata soltanto allestendo mostre temporanee ed è da questo presupposto che il progetto di Piano prende le mosse. Poiché si pensa che le opere siano destinate a rimanere esposte alla luce per brevi periodi, risulta plausibile immaginare di illuminarle in maniera ottimale, come non sarebbe consentito fare seguendo criteri museologici tradizionali. Una volta concluso il periodo di esposizione, secondo questo programma, le opere sono destinate a ritornare nel deposito, ma quello che Kahn definiva the storage, ora, convengono Dominique e Piano studiando l’impianto distributivo del museo, si chiama Treasure House. Verrà costruita, Treasure House, non dove di solito la si nasconde, ma nel piano più alto dell’edificio.
Renzo Piano, The Menil Collection
Passando ora a considerare come il progetto è stato elaborato, per Piano è immediato constatare che l’importanza riconosciuta alla luce naturale comporta qualche seria complicazione per quanto riguarda il condizionamento dell’edificio. Della ricerca della soluzione di questo problema, oltre al principale collaboratore di Piano, Shunji Ishida, se ne occupano Peter Rice e Tom Barker di Ove Arup & Partners. Piano e Rice sono ora associati e così a Houston torna in campo una formazione sperimentata nella costruzione del Centre Pompidou. Le esperienze fatte a Parigi vengono messe a frutto. A Genova viene costruito un modello in scala 1:10 per studiare l’illuminazione e verificare empiricamente i risultati ottenuti con le analisi fatte al computer. Viene così presa la decisione di realizzare la copertura come un vasto lucernario o un insieme di lucernari. «Renzo, da me attivamente sostenuto, aveva stabilito che la copertura della galleria fosse in ferrocemento», scrive Rice in An Engineer Imagines, sfruttando un’invenzione di Pier Luigi Nervi le cui opere sono oggetto di continue attenzioni da parte di Piano.
Nervi aveva ottenuto i primi brevetti per la realizzazione di contenitori in ferrocemento alla fine degli anni Trenta. In seguito aveva sperimentato l’impiego di questo materiale lavorando per la Marina Militare Italiana e ne aveva spiegato le caratteristiche in un opuscolo del 1943. Claudio Greco lo cita nel suo Pier Luigi Nervi (2008), dove si legge: «le solette ad armatura equidiffusa, più che all’usuale cemento armato, debbono paragonarsi ai materiali omogenei, capaci di resistere a sollecitazioni di tensione e compressione del medesimo ordine di grandezza e possono raggiungere, senza lesioni, un allungamento cinque volte superiore a quello della malta non armata», consentendo così la realizzazione di «membrane resistenti a pressione e tensione, ondulate, piegate e curvate come meglio si desideri – una vera e propria rivoluzione tanto dal punto di vista costruttivo che da quello artistico». Alla luce di come Piano e Rice hanno impiegato il ferrocemento nella Menil Collection, bisogna ammettere che l’entusiasmo che si coglie in questo passo di Nervi non era fuori luogo.
Naturalmente come Rice aveva potuto sperimentare anche costruendo le gerberettes e le travi maestre del Centre Pompidou, analogamente a ogni materiale di impiego non corrente anche il ferrocemento può offrire ottime prestazioni a condizione di venire lavorato con la massima cura. In particolare, usando il ferrocemento è importante procedere alla modellazione delle forme di ciascuna delle componenti progettate attraverso un’unica operazione di posa del legante malleabile affinché i tempi di essiccazione dei vari strati siano continui. Osservando che il ferrocemento era stato inventato, proprio come Nervi aveva fatto, per sfruttare il basso costo della manodopera per compensare l’alto costo o la scarsità dei materiali impiegati, Rice nota, con parole che sembrano ispirate da quanto aveva sperimentato costruendo le parti prodotte in fonderia della struttura del Centre Pompidou, che «il basso costo della manodopera di solito si accompagna alla disponibilità di lavoro artigianale di buona qualità».
Così a Houston prende avvio un processo simile a quello che era stato seguito a Parigi una decina di anni prima e che si riprodurrà costantemente nel corso della carriera di Piano: la ricerca di fornitori in grado di produrre artigianalmente pezzi destinati ad offrire le prestazioni più elevate. Ovviamente, poiché la copertura della Menil Collection deve filtrare la luce naturale negli ambienti espositivi, è trasparente.
Parlando del ferrocemento, quindi, ci riferiamo al materiale impiegato unicamente per una delle componenti, o meglio: di uno degli “strati” che la formano. In ferrocemento vengono realizzati soltanto i deflettori di luce, le foglie che sono sospese alla sovrastante struttura che regge anche le vetrate più esterne. La loro forma deriva dalla necessità di evitare che le sale espositive siano invase dai raggi diretti del sole e che la quantità di luce filtrata superi in ogni caso il generoso livello previsto. Sulla base di queste premesse prendono forma definitiva le foglie che coprono l’intero edificio. Alle loro terminazioni sono applicati i corpi illuminanti sussidiari.
Le foglie vengono costruite sfruttando un brevetto in possesso di una impresa californiana. La tecnica oggetto del brevetto consente di spruzzare il cemento sulle maglie o sulle superfici in metallo. Si tratta di un procedimento che può essere paragonato a quello utilizzato da Le Corbusier per costruire il quartiere Frugès a Pessac e che anche Wright aveva impiegato nel Guggenheim Museum a New York. Con gli anni questo sistema si era notevolmente evoluto ma non era divenuto di uso comune. I tentativi che Rice e Piano fanno, anche rivolgendosi ai cantieri navali presenti nei dintorni di Houston, di individuare negli Stati Uniti un fornitore in grado di avvalersi del brevetto in mano all’impresa californiana e di realizzare le foglie in ferrocemento non danno risultati. Le foglie vengono così prodotte in Inghilterra. La precisione artigianale della lavorazione è essenziale. Anche se è vero che «le solette ad armatura equidiffusa», come sosteneva Nervi, sono paragonabili «ai materiali omogenei», la consistenza dei pezzi ottenuti grazie al sistema produttivo messo a punto da Rice spruzzando cemento bianco impastato con marmo dello stesso colore negli stampi, non può essere verificata a posteriori ma solo a priori, ovvero controllando l’esatta esecuzione delle diverse fasi della sequenza produttiva.
Ottenute in questa maniera e una volta sottoposte alle lavorazioni di finitura, le foglie vengono appese alle travi maestre. Su queste sono impostati i puntoni che reggono le vetrate che proteggono la copertura dall’acqua. Le lastre sono montate in modo da formare dei lucernari la cui larghezza corrisponde, grosso modo, all’ampiezza di due foglie accoppiate. Le travi sono in ghisa a grafite sferoidale. Rice, prima di puntare sull’acciaio, anche costruendo il Centre Pompidou aveva pensato di far ricorso a questo materiale che consente di ottenere forme affusolate particolarmente adatte nel caso della Menil Collection per armonizzarsi con quelle fluide delle alette in ferrocemento. L’obiettivo, dirà Rice, è di far sì che «il dettaglio della grappa e il passaggio dolce tra la ghisa e il ferrocemento rivelino le diverse caratteristiche fisiche dei materiali, la natura e il modo di lavorare della struttura».
Le travi imbullonate sostengono le foglie grazie agli ancoraggi posizionati agli estremi delle loro superfici piane esterne. Ogni due nodi delle travi, formate da triangoli che si divaricano e sono assicurati a un tirante, sono collocate le bielle per i puntoni che reggono i colmi dei lucernari e per gli appoggi più bassi dei canali in lamiera che ne collegano le falde.
Lo scarto tra la dimensione delle foglie e quelle delle componenti della struttura che le sostiene è una delle soluzioni costruttive più felici della Menil Collection, dove si definisce una tipologia strutturale – quella della copertura esfoliata – che Piano svilupperà in numerose versioni, continuando a raffinarne le tecniche costruttive e ad aumentarne le prestazioni nei progetti che realizzerà in seguito, come non è difficile notare osservando il Museo Beyeler a Basilea, la New Wing dell’Art Institute a Chicago, il Piano Pavilion a Fort Worth, presentati in queste pagine.
Renzo Piano, The Menil Collection
Le foglie, si diceva, configurano una copertura continua. I loro profili disegnano gli ambienti interni e proseguono ad ombreggiare le corti su cui affacciano le sale espositive e, soprattutto, fanno sì che la galleria lunga circa centocinquanta metri che separa gli ambienti del museo dalla fascia più stretta occupata da servizi si offra in una prospettiva di cui non è facile cogliere il punto di fuga. Al di sotto dei piani concavi disegnati dalla copertura, tutte le partizioni sono chiaramente individuate e ancora una volta gli spazi si definiscono a partire da una operazione di montaggio.
Anche a Reyner Banham non è sfuggito che la semplicità che contraddistingue la Menil Collection non ha nulla di ingenuo. Se per rendersene conto non bastasse osservare come la copertura è stata costruita, la cura con cui ciascuna delle componenti che la formano è stata sagomata, l’attenzione con cui giunti e bulloni sono stati posizionati, il modo in cui sono stati disegnati i montanti inseriti nel tamponamento e le colonne di uguale altezza che sorreggono le porzioni delle foglie al di sopra del portico che circonda l’edificio, ne offrono la più evidente dimostrazione.
Renzo Piano, The Menil Collection
Banham, però, è stato forse frettoloso nell’accostare queste ultime parti della struttura della Menil Collection a opere di Mies van der Rohe o a lui riferibili. Le mensole che le colonne esterne del portico offrono come supporti alle travi reticolari sulle quali è appeso il tappeto composto da più strati della copertura spiegano che questo accostamento è azzardato. Semmai questo dettaglio dimostra come i progettisti siano stati costretti ad accogliere un compromesso per non modificare la continuità del tessuto di copertura, variando la lunghezza dei deflettori della luce, come sarebbe risultato inevitabile fare qualora si fosse deciso di appoggiare canonicamente le travi sulle terminazioni delle colonne. Ma questo compromesso non attenua l’effetto che ha consentito di ottenere, poiché la continuità della copertura formata dalle foglie incurvate permette al portico che avvolge la Menil Collection di trasformarne i prospetti in altrettanti schermi dove le ombre giocano con gli arretramenti volumetrici e rendono imprevedibilmente vivo un corpo di fabbrica serrato.
I montanti a filo dei tamponamenti, diversi dai pilastri che si notano all’interno, sono anch’essi ricettacoli di luce: inseriti tra superfici formate da tavole di cipresso ne scandisco le campiture. Inoltre questa componente lignea dell’involucro, anche in questo caso senza commettere alcun peccato di ingenuità, sembra dialogare con i tratti dell’edilizia tradizionale che occupa i terreni intorno alla Menil Collection.
Questi lotti sono occupati da caratteristiche case in balloon frame. Anche Kahn aveva previsto di tinteggiarle con cura, spingendosi sino ad immaginare quale colore dare alle maniglie delle porte. Ora fanno parte di un piccolo quartiere che vive, anche scenograficamente, in funzione della Menil Collection e del suo cromatismo.
Quando Reyner Banham scrisse della Menil Collection nel 1987 parlò di Houston come di «un incubo per qualsiasi urbanista», lasciando così intuire come sia persino difficile immaginare la Menil Collection come un brano di questa città. Di questa città, tuttavia, Dominique de Menil si sentiva parte al punto di affermare che la sua «collezione è sempre stata di Houston». Anche questo è un paradosso istruttivo e Piano deve averne fatto tesoro. Dopo aver costruito la Menil Collection, infatti, in più occasioni, come vedremo, Piano ha dimostrato di sapersi muovere con invidiabile agilità e intelligenza tra i paradossi della civilizzazione americana.
Estratto da Renzo Piano (Electa) di Francesco Dal Co. A Padova è in corso fino al 15 luglio, Renzo Piano Building Workshop - Pezzo per Pezzo