Condivido, ergo sum
La legge di Zuckerberg.
Durante il summit Web 2.0 del novembre 2008, Mark Zuckerberg espresse la propria versione della celebre legge di Moore. Secondo quest'ultima il numero di transistor su un chip raddoppia ogni due anni: la legge di Zuckerberg, invece, suona così: "Ogni anno la gente condivide il doppio dell'informazione condivisa l'anno precedente". Tre anni dopo, Zuck mostrò dati alla mano che la predizione era stata confermata: la curva dello sharing sul suo social network aveva un andamento esponenziale.
Il fondatore di Facebook è tornato di nuovo sul tema in un'intervista a Wired pubblicata nell'aprile 2013, sottolineando come il fenomeno sia un trend globale. E aggiungendo un dettaglio importante: "La condivisione […] è fatta di molti trend diversi. All'inizio, le persone condividevano inserendo delle informazioni base nei loro profili. Poi abbiamo fatto in modo che potessero modificare lo status. Poi arrivarono le foto. E ora la gente condivide anche con applicazioni come Spotify."
Questa frase getta luce su un aspetto ancora poco studiato: una possibile storia della socialità digitale. In che modo l'impulso allo sharing si è evoluto nel tempo? E perché ora condividiamo così tanto? E cosa di preciso?
Dai profili statici al "Condividi la tua vita".
Un interessante paper di Nicholas A. John (Sharing and Web 2.0: The emergence of a keyword, "New Media & Society", marzo 2013) cerca di rispondere a questa domanda. John analizza l'evoluzione del termine "sharing" nel tempo, evidenziandone la portata semantica sempre più ampia. Grazie a un'analisi quantitativa effettuata su 44 social network dal 1999 ad oggi, il ricercatore dimostra che la parola è diventata cruciale per il web 2.0 solo attorno al 2005-2007 — subendo fra l'altro una curiosa estensione: prima del 2007 espressioni come "Share your life" o "Share your world" non esistevano. Condividevamo singoli oggetti digitali, non "la nostra vita": l'esplosione dei social media ha invece trasformato un verbo già diffuso nella computer culture — basti pensare al file-sharing — in uno slogan onnicomprensivo.
E prima? Internet ha una storia breve ma anche una memoria piuttosto corta: come spiegano danah boyd e N. B. Ellison in Sociality through Social Network Sites (nel prezioso Oxford Handbook of Internet Studies, Oxford University Press 2013), le versioni iniziali di queste piattaforme erano ritratti decisamente più statici, con update assai meno frequenti. La condivisione avveniva per lo più a un livello privato, e i profili degli utenti si limitavano a fornire una fotografia, qualche riga biografica, e poco altro.
Dal 2007 — l'anno rivoluzionario — cambia anche il design: gli utenti sono incoraggiati a creare e condividere contenuti (fino al caso limite di Twitter, che vive letteralmente di questo) e il commento diventa una parte rilevante dell'esperienza online. In breve tempo lo sharing sostituisce quasi per intero la propria descrizione biografica. Il termine, come sottolinea Nicholas John, diventa molto più denso: compatta in un'unica parola l'atto della comunicazione, della narrazione e della distribuzione. E la stessa assenza di una parte così importante come la comunicazione non verbale — e del corpo stesso — sembra domandare un surplus di dati. Lungi dall'essere una semplice lista di elementi, il mio profilo è il modo in cui esprimo la mia identità intera attraverso quanto rendo pubblico: ogni video, meme, status e immagine concorre a definirmi: io sono ciò che condivido.
Share = care?
Di qui l'invito da parte delle piattaforme ad alimentare tale flusso. Nella retorica che ne discende, condividere significa dimostrare di avere vissuto un'esperienza, letto un libro, guardato un film. Significa testimoniare — in modo quantificabile — di esserci: la facilità con cui i più giovani (ma non solo) condividono fotografie imbarazzanti o status del tipo "Il mio capo è un deficiente" mostrano sia una certa goffaggine nella gestione del contenuto pubblico, sia il bisogno generato dai social network contemporanei: condividi o muori. Un account privo di aggiornamenti è un account senza vita.
Condividere significa inoltre offrire al mondo (ai nostri contatti, ma virtualmente a chiunque) quanto riteniamo di valore: per la vulgata della Silicon Valley, i social media sono puri moltiplicatori di positività. Share is care. Share is love. L'intera questione prende una carica emotiva proprio perché riguarda una relazione fra soggetti e non una semplice diffusione di oggetti: più "cose" spargi e meglio è per tutti (anche perché sono gratis): il frictionless sharing auspicato da Mark Zuckerberg. In questa retorica trionfale, postare qualunque cosa sul web ha il dolce sapore del pane condiviso con un amico.
Un'etica della condivisione.
Ma la realtà è molto diversa. Innanzitutto: la condivisione sui social media può davvero assomigliare a un gesto d'amore? Marco Aime e Anna Cossetta, nel volume Il dono al tempo di internet (Einaudi 2011), sollevano diversi dubbi al riguardo.
Il dono digitale non implica infatti alcuna perdita: caricare un video su YouTube non mi priva di quel video. Questo lo rende molto appetibile ma anche in qualche modo troppo semplice: ne svilisce anche la tensione dialettica, riducendolo a "una corsa forsennata alla ricerca della fiducia e dell'approvazione degli altri". Per rimpiazzare l'assenza di prossimità e corporeità (che nell'interazione fisica coprono bastano a testimoniare la nostra presenza), aumentiamo la quantità di oggetti condivisi: che però hanno sempre meno l'aspetto di uno scambio reciproco, e sempre più quello di un'affermazione del nostro io.
Inoltre: i proprietari dei social network si prodigano a celebrare l'iper-condivisione non per un impulso filantropico, ma perché è la loro fonte di guadagno principale. Postando un video dei Metallica fate capire all'algoritmo di Facebook che vi piacciono i Metallica: un'informazione che tornerà utile ai pubblicitari, a loro volta in grado di colpirvi con un annuncio su misura (ad esempio, biglietti scontati per il prossimo Gods of Metal e non per un concerto di Gigi d'Alessio).
Infine c'è la questione sempreverde dell'eccesso di informazione. Uno studio piuttosto citato di Chartbeat ha mostrato la tendenza a twittare un articolo senza averlo letto per intero (o addirittura senza averlo letto punto). Niente di strano: se la condivisione sui social media ha anche il fine di rinforzare la propria identità digitale, è più importante spargere contenuti — meglio se provocatori o "virali" — prima ancora di fruirne o valutarne il valore. La supposta capacità di diffondersi passa da mezzo o valore aggiunto a fine principale. Del resto, lo fanno tutti: con il caso limite, non difficile da immaginare, dove la stragrande maggioranza degli iscritti a una piattaforma si limita a pubblicare — e nessuno legge, o guarda, o ascolta.
È inevitabile: qualcuno avrà sempre da ridire per la quantità di sciocchezze e foto di gatti e video stupidi che troverà nel proprio feed, giocando la carta dell'attenzione limitata (obiezione ragionevole) o della generica idiozia degli esseri umani quando frequentano il web (obiezione ridicola). Un approccio più sensato, invece, sarebbe quello di concentrarsi sulla questione del filtro. Immaginare un argine al flusso di informazioni è un pensiero molto pericoloso: imparare a gestire tale flusso con semplici gesti (ad esempio togliendo dai feed chi pubblica solo cose per noi irrilevanti) è invece indispensabile.
Così come è indispensabile ripensare questo straordinario meccanismo di diffusione: ridare linfa agli impulsi libertari della rete, a quell'idea originaria dello sharing come edificazione collettiva di strumenti e conoscenze aperte come Wikipedia, PHP, Java (secondo Nicholas John, l'espressione migliore di internet). Insomma: tutte le buone massime che già abbiamo, e che ancora fatichiamo ad applicare — ma non a condividere.