Socialità e democrazia a rischio per l’Internet del futuro?
I continui sviluppi di Internet appaiono sempre più legati a pratiche di attivismo sociale tradizionale e ben radicate sul territorio, come rivelano le rivolte della Primavera Araba e i movimenti legati a Occupy Wall Street o agli indignados. In tal senso si può dire che i social media rappresentano forse la tecnologia più rivoluzionaria espressa finora dalla Rete, seguiti dalle connessioni mobili a banda larga. E nel futuro prossimo saranno ancora le tecnologie mobili a primeggiare, seguite dall’emergere del cloud computing.
Questi i primi dati che saltano agli occhi nel sondaggio recentemente pubblicato da Foreign Policy. Il bimestrale USA ha interpellato una quarantina di esperti mondiali per provare a delineare il domani della Rete, tra cui Cory Doctorow (autore di fantascienza e attivista pro diritti digitali), Rebecca McKinnon (ex giornalista della CNN e fellow presso la New America Foundation), Ethan Zuckermann (neo direttore del Center for Civic Media del MIT), David Weinberger (fellow ad Harvard e noto autore).
Quello che emerge dalla ricerca di Foreign Policy è che, superati i vent’anni di vita a livello diffuso e con oltre un quarto della popolazione mondiale ormai collegato, Internet è divenuto un campo d’indagine enorme.
Anche se ogni inchiesta relativa al pianeta digitale va presa con le dovute pinze, il quadro delineato da Foreign Policy riflette comunque delle tendenze generali e suggerisce riflessioni utili. Il rapporto speciale, dal titolo The Future is Now, analizza aspetti come la sovrappopolazione del pianeta, l’ascesa delle micro-multinazionali e la democratizzazione dell’istruzione. Il rapporto si concentra sulle minacce alla libertà di accesso e di espressione in Internet. Gli esperti concordano sul fatto che i pericoli arrivano innanzitutto dai governi nazionali (38%) e, subito dopo, dalle grandi aziende (34%), mentre ben distanziato c’è il cyber-crimine (15%). E se per il 29% la Rete non va regolamentata a nessun livello, il 23% vedrebbe invece con favore interventi in tal senso da parte dell’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers). Comunque sia, un netto 67% sottolinea la necessità che le policies statunitensi includano specificamente la Internet freedom, come d’altronde ribadito anche da Hillary Clinton (seppur con ovvie “sviste” quali le pesanti posizioni contro WikiLeaks, usando in pratica due pesi e due misure quando la tutela di tale libertà colpisce la maggiore potenza mondiale, anziché certi regimi arabi).
Il report insiste sulla necessità di un approccio condiviso alla libertà in e della Rete, che tuteli da alcuni grandi rischi: i provider che controllano comportamenti degli utenti in modo anti-competitivo; le manovre restrittive di molti governi; la diffusione di malware da parte degli attori più diversi.
È interessante notare che una parte consistente del panel ritiene urgente la messa a punto di un trattato internazionale per tutelarsi contro la “cyberwarfare” (la guerra informatica). Proprio questo tema viene assai discusso in USA, mettendo però nello stesso calderone i veri e propri attacchi dalla Cina o dall’Iran, le intrusioni di hacker nei siti governativi e i ladri di carte di credito e di segreti industriali. Non da ieri molte fonti definiscono tutto ciò nient’altro che esagerazioni ai danni della “open Internet”; tuttavia, la questione è entrata nelle sale della politica internazionale sulla scia di fenomeni come le restrizioni cinesi sui diritti umani, il Movimento Verde iraniano e la Primavera Araba.
Si tratta di un quadro contrastante e tutt’altro che univoco, come confermano le battute di alcuni degli esperti interpellati da Foreign Policy. Secondo Cory Doctorow, il termine stesso “cyberwarfare” non sarebbe altro che “una buzz-word coniata da qualche rapace azienda in cerca di contratti con il Dipartimento della Difesa”, mentre per Rebecca McKinnon è un fatto della vita nell’era di Internet, e quindi va affrontata al meglio “senza però limitare la libertà.”
Possibile trarre conclusioni valide da queste incursioni offerte da Foreign Policy? Forse sì. Quantomeno sul fatto che viviamo in una “epoca ibrida”, dove è bene evitare etichette riduttive e approcci unidirezionali.
L’andamento globale di Internet in questi venti anni rivela che occorre stare con gli occhi ben aperti e partecipare criticamente al fluire digitale. Come pure andare oltre le cyber-mode del “tutto gratis” o di un presunto libero mercato che è tale solo per vecchi e nuovi Big. Analogamente, vanno evitati i passatempi pseudo-sociali offerti dai grandi social network o dai motori e portali web più visitati: mega-siti che custodiscono e usano a piacimento i nostri dati personali oppure, peggio, impongono policy gestionali con scarsa attenzione agli utenti, perché in realtà mirate ad attrarre grandi inserzionisti e capitali, non certo i comuni cyber-cittadini.
La sfida è quella di rimboccarci le maniche e far sì che il digitale divenga sempre più uno strumento di partecipazione e impegno, e sempre meno di illusione di democrazia.